domenica 31 gennaio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 21° pagina.


«E se non devo saperle perché me ne parli? Hai paura che le racconti a mio padre, vero?».

«Vattene via! Non ti voglio attorno quando parlo di certe cose!».

«Bene, vorrà dire che dirò a mio padre che mi parli delle Fate perché vuoi portarmi nel bosco ad incontrarle!»

A quel punto intervenne Veli.

«Bene, Iker, ora che hai fatto la frittata, servila! Così impari ad avere la lingua troppo lunga!».

Il ragazzo fece una smorfia, ma accettò di parlare del belk.

«Ogni plenilunio viene fatta dalle Fate una festa segreta nel bosco.È segreta perché vi possono partecipare solo le Fate e i loro amici. In particolar modo le donne-civetta, le streghe. Con loro ci sono anche i Sileni.

Per potervi partecipare bisogna prima conquistarsi la fiducia delle Fate, o di un loro amico, e poi si viene introdotti nel rito e nei misteri che vi vengono celebrati e rivelati.

Coloro che vi partecipano non devono rivelare niente di ciò che ha a che fare con il rito, né i riti che vi vengono celebrati, né i misteri che vi vengono rivelati. E nemmeno devono rivelare il luogo dove il belk viene praticato. Inoltre, per diventare un partecipante, bisogna avere almeno quattordici anni di età, se si appartiene alla stirpe degli Uomini. Quindi tu sei fuori del gioco, per il momento. Hai capito, piccolo?».

«E tu invece ci sei dentro?».

«Beh, no…. non ancora. Ma in ogni caso non sono affari tuoi».

«Però potrei chiedere se, una volta che avessi compiuti i quattordici anni, potrò entrare?».

«Prima di quell’età non bisogna neanche chiedere di poterne parlare! Taci e non curiosare fino a quando avrai l’età giusta, dunque!».

Ma Erkan non aveva nessuna voglia di demordere, l’occasione era troppo ghiotta per lui.

«Prukhu è un Sileno. Magari lui potrebbe parlarmene, no? Dovrebbe saperne qualcosa…».

«Sì, può darsi. Ma Prukhu è qui, alla nostra festa, non al belk. Quindi non so se sia uno di quei Sileni che partecipano al rito».

«Tutti i Sileni partecipano al belk, chi più, chi meno!» intervenne di nuovo Veli. «Sono stati loro i primi a celebrare il rito. Poi l’hanno trasmesso alle Fate venute nel Veltyan tanti secoli fa, che hanno cominciato a partecipare anche loro alle sacre danze, e poi agli Uomini, tramite le streghe, le donne-civetta. Magari non vi partecipano tutti quanti ogni volta, ma non c’è Sileno che non ci vada con una certa frequenza. La verità è che Prukhu ci teneva di più a partecipare alla festa del Tinsi Kerris, è uno di quei Sileni particolarmente affezionati agli Uomini e ai loro costumi di vita, lo sanno tutti».

Fece un gesto vagamente malizioso verso il grande falò, attorno a cui danzavano uomini e donne, e dove spiccava la massiccia, corpulenta e irsuta figura dalla lunghissima barba bianca e dalle orecchie puntute, del vecchio Sileno amico della gente di Arethyan.

«Ma tu e tuo fratello, come fate a sapere queste cose sul belk?».

«Perché ce le ha raccontate proprio Prukhu! Sai quante volte è venuto ospite a casa nostra, e la sera ci ha raccontato le sue storie per farci dormire?»

Quando aveva cominciato a scorrere il vino, Prukhu si era abbandonato alla danza più sfrenata, senza neanche aspettare di essere anche solo un poco brillo, e danzando si era tolto i poveri stracci, pallida concessione ai costumi della civiltà contadina con cui conviveva da tanti anni, scoprendo il vello bianco-grigio che rivestiva tutto il suo corpaccione.

Si era fatto mettere una corona di foglie di vite e aveva continuato a danzare e cantare con la coppa di terracotta dipinta in mano, corteggiando donne giovani e meno giovani, e ragazzi adolescenti, scelti fra quelli più formosi.

Tutti quanti facevano finta di stare al gioco, stando bene attenti a non provocarlo troppo, in attesa del momento in cui sarebbe crollato a terra, vinto dal vino, che tanto amava.

«Guarda come danza! Non ce lo vedresti bene, a danzare con gli altri Sileni e le Fate nel profondo del bosco?».

Erkan rimase a osservarlo come incantato, perché ora lo vedeva con occhi nuovi.

PETER KOLOSIMO 93: LA MUMMIA DEL FARAONE CHE TERRORIZZO' L'INTERO MUSEO ...


sabato 30 gennaio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 20° pagina.


l’avevano aiutata a preparare la cena, la matriarca Aranthi e tutto lo stuolo di figli e nipoti, a parte suo figlio maggiore Enkar, che aveva accompagnato il padre Larsin e i due zii.

Ovviamente, alla tavolata c’era anche Thymrel, timida e silenziosa.

Si era formata un’atmosfera di protezione nei confronti della giovane. Di comune accordo, Syndrieli e Larsin avevano proposto alla matriarca Aranthi di raccontare una storia inventata per proteggerla dalla curiosità altrui e da pericolosi sospetti.

Larsin disse che avrebbe raccontato che si trattava di una sua cugina rimasta in miseria, che trovandosi incinta e orfana, e senza un uomo che la aiutasse, era venuta a vivere da lui e la famiglia di Syndrieli l’aveva accolta benevolmente.

Siccome Larsin non era di quelle parti, nessuno avrebbe avuto motivo di dubitare di questa spiegazione.

Avevano chiesto al dottor Laran di confermare quella storia, e lui non aveva fatto opposizioni. Se si fosse saputo in giro quello che aveva raccontato la ragazza, sarebbe stata considerata una pazza, o un essere pericoloso e stregato. E quel che era peggio, i gendarmi si sarebbero interessati a lei.

Per Larsin, la festa di Tinsi Kerris era l’occasione per allontanarsi da casa e divertirsi un po’ come voleva lui. Non era una festa da passare obbligatoriamente in famiglia, come invece era per il Tinsi Sil Ainis, la Festa del Solstizio d’Inverno, da celebrare nel chiuso delle case strette dalla morsa del gelo invernale.

Erano soprattutto le giovani senza figli e ancora senza alcun legame, i giovani che non avevano ancora cominciato a praticare il “matrimonio notturno” o la convivenza, gli uomini che non volevano alcun legame neanche in età matura, e i mariti e i conviventi più insofferenti delle loro matriarche contadine, che si recavano presso i falò nei campi per mangiare e ubriacarsi e amoreggiare, seguendo le tradizioni degli antichi riti di fecondità e prosperità che si perdevano nella notte dei tempi, invocando Dei il cui culto era praticato ancora prima della nascita del culto di Sil, la grande divinità solare dei Thyrsenna, ancor prima dell’antico Diluvio che aveva sommerso il mondo più di quattromila anni prima.

Anche se Larsin era un uomo attaccato alla sua donna, sentiva il bisogno di allontanarsi ogni tanto da lei, anche per evitare di litigare troppe volte. E a lei andava benissimo così.

Quella volta si era tirato dietro il figlio perché lo riteneva abbastanza grande per partecipare alla baraonda, anche se lo avrebbe sorvegliato e gli avrebbe impedito di bere sidro, birra o vino.

Un pio desiderio, perché gli adulti erano sempre pronti ad offrire al ragazzino ogni bendeglidei, compresi gli alcoolici.

E mentre Larsin si lasciava andare alle danze in compagnia di compiacenti ragazze da marito, attorno al grande falò su cui bruciava il grande spaventapasseri di legno e paglia, Erkan se ne stava a chiacchierare con i ragazzi grandi, per cercare di sentirsi grande anche lui, standosene tutti seduti sull’erba a sorseggiare la birra tradizionale del Veltyan, una strana mistura di malto, orzo, grano, , miele, prugne, nocciole e fichi fatti tutti fermentare assieme.

«Stanotte c’è la luna piena,» disse Iker, un ragazzo di diciassette anni, lontano cugino di Erkan. «Doppia festa per chi vive nei boschi. Avremmo dovuto andare presso le Fate, a partecipare alle danze del belk».

«Già, e chi ci sarebbe riuscito a raggiungere le dimore delle Fate? Non certo tu!» sbottò sua sorella minore Veli.

«E che ne sai, tu??? Basta conoscere qualcuno che è in amicizia con loro, e riesci a farti invitare alle loro feste, a quanto si dice….».

Erkan drizzò le orecchie. Si parlava di Fate e lui ovviamente era interessato.

«Conosci delle Fate?».

«Beh, io no. Ma conosco persone che le incontrano abitualmente nel bosco… sì, insomma, gente che va al belk, la festa di plenilunio delle Fate».

«Il belk? E che è?».

«Ma sei proprio un ragazzino ignorante! Cosa t’interessi delle cose dei grandi? Di ‘ste robe i ragazzini non devono saperne niente!».

PETER KOLOSIMO 92: IL MISTERO DELLA PIRAMIDE INCOMPIUTA DEL FARAONE SENZ...


venerdì 29 gennaio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 19° pagina


Forse, in realtà lei aveva visto qualcosa nella radura, forse qualcosa che era spuntato dai noccioli e dalle betulle che crescevano numerose in quel bosco strano, o qualcosa che era spuntato dall’erba fra i gigli rossi, chissà.

Qualcosa di così terribile, di così spaventoso e sconosciuto, che le aveva fermato il cuore. Qualcosa legato alle misteriose luci cremisi che si vedevano a volte nelle notti senza luna.

E fu da quella morte misteriosa che cominciò tutto, e l’ombra dell’orrore e del mistero calò sulla Valle dei Gigli, fino alla tragedia finale.

Una tragedia che rimaneva ancora senza nome e senza spiegazione, dopo ben tre secoli.

Ma fu da allora che molti ribattezzarono la Valle dei Gigli con il nome della Valle del Mistero.

 

 

 

CAPITOLO III: LA FESTA INFESTATA

 

Era la festa di Tinsi Kerris, la più amata, la più importante delle feste tradizionali dei contadini del Veltyan. Era la festa del Solstizio d’Estate, la festa della notte più corta dell’anno, la festa dell’ultima notte del mese dei Gemelli, Uryan e Myrtin,  i due spiriti divini che cavalcavano nei cieli e che secondo la leggenda precedevano il cammino del sole, la loro celeste madre, e della loro rosata sorella, Kerris, la Dea dell’Aurora e delle Messi, la Dea della Nascita, figlia prediletta di Sil, la grande Dea del Sole, signora e madre dell’universo.

Era la festa di Tinsi Kerris e la gente si riuniva attorno ai falò nei campi attorno ai villaggi in tutto il vasto regno del Veltyan, mangiava, beveva, cantava e ballava fino a tarda notte. E il giorno dopo si sarebbe riposato e smaltito gli eccessi di cibo e bevande alcooliche.

La campagna si riempiva di fuochi, e così anche le piazze delle città, o lungo le passeggiate presso i fiumi. Le montagne, le colline e le pianure erano costellate di alte colonne arancioni, in quella notte di festa.

I falò, perlomeno quelli più grandi, erano costituiti da un enorme pupazzo di legno e paglia, che quando si accendeva appariva da lontano come un gigante di fuoco dalle braccia spalancate.

Era un rito antichissimo, che si celebrava da così tanto tempo, che non se ne conoscevano le origini. Senz’altro era una tradizione che veniva da prima della fondazione del regno del Veltyan, alcuni sapienti dicevano addirittura da prima del Diluvio.

Che significato avesse il grande pupazzo, non era ben chiaro. Pare che in un passato remoto ed oscuro, dentro quel pupazzo venissero messi degli uomini come sacrificio a Kerris, ma altri dicevano che era solo una leggenda, forse perché preferivano non pensare che in un tempo remoto i loro culti fossero stati così violenti e disumani.

Anche la gente di Arethyan, ovviamente, festeggiava attorno ai falò. In un grande prato circondato da cipressi alle porte del villaggio, presso il fiume, era stato eretto il grande pupazzo, e gli era stato dato fuoco nel momento in cui gli ultimi bagliori del tramonto si spegnevano sulla pianura ad ovest.

Per fortuna era una bella serata, e c’era persino la luna piena. Aveva piovuto il giorno prima, e l’aria fresca che veniva dai monti aveva mitigato la calura.

La famiglia Ferstran partecipava anch’essa , anche se non al completo. Non tutti i contadini andavano alla festa del paese, e alcuni preferivano, per vari motivi, festeggiare in casa propria, accendendo un fuoco nel cortile o nel campo presso casa.

Non si voleva che i ladri approfittassero di quella notte di festa per entrare nelle case incustodite.

Anche se i briganti delle colline erano stati sterminati parecchi anni prima da una campagna voluta dagli Shepenna di Enkar, si diceva che qualcuno dei più furbi fosse rimasto nascosto nelle foreste ad oriente, e non si poteva essere sicuri che non scendessero verso la pianura approfittando del calo della guardia da parte dei contadini.
Syndrieli era rimasta a casa, e aveva preparato, come tutti gli anni, la grande tavolata nel cortile della fattoria, di fronte al portico. Con lei si erano riuniti attorno alla tavola le sue due sorelle, che

PETER KOLOSIMO 91: IL FARAONE ZOSER E L'ALBA DELLE PIRAMIDI


giovedì 28 gennaio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 18° pagina.


anche se il popolo fatato non si era mai visto nella valle. Ma la gente del posto diceva di avere visto delle misteriose luci scarlatte muoversi nel bosco di notte, rosse come il sangue, e siccome si sapeva bene che le Fate si riuniscono nelle radure dei boschi di notte per festeggiare e danzare e compiere i loro riti magici, la gente del popolo si era messa in testa che dovessero essere le Fate e nessun altro.

Poco importava che il popolo fatato delle pallide montagne orientali giurassero e spergiurassero che mai e poi mai avevano messo piede nella Valle dei Gigli, e che non l’avrebbero mai fatto neanche in futuro.

Poco importava che si sapesse bene che le luci e i fuochi notturni delle Fate erano di colore verdazzurro o bianco spettrale, e non scarlatte.

Per i valligiani, quella era divenuta la Radura delle Fate, e solo i più coraggiosi, o i più scettici, avevano il coraggio di attraversarla.

Un giorno, un gruppo di ragazze del villaggio vicino si erano messe a parlare della radura e del fatto che nessuna di loro avrebbe avuto il coraggio di starvi da sola.

I contadini, si sa, spesso hanno paura delle Fate, perché se da un lato sono benevole e amichevoli, dall’altra, diventano pericolose se ci si trova da soli con loro di notte, soprattutto quando ti invitano a una delle loro feste danzanti, dove si può perdere la memoria e il senno bevendo il loro vino incantato e lasciandosi andare alle loro folli danze, perché le Fate possono evocare gli spiriti e condurti per sentieri sconosciuti e pericolosi senza neanche che se ne accorgano.

Numerose erano le leggende e dicerie di viandanti che, invitati dalle Fate alle loro feste, erano impazziti per quello che avevano visto e sentito in quegli strani consessi.

Una di quelle ragazze, una fanciulla che veniva considerata cocciuta ed eccentrica, disse che lei non credeva in alcun modo alle storie sulle luci e sulle Fate che vi avrebbero dimorato.

Infatti, sapeva bene che nella valle non c’erano mai state Fate, e quindi non potevano vivere in quel bosco.

Per dimostrare che non aveva paura, disse alle sue compagne che sarebbe andata a filare da sola nella Radura delle Fate, e avrebbe così mostrato a tutti che non c’era motivo di avere tanta paura.

Così, una mattina prese l’arcolaio sotto braccio e il fuso e una matassa di lana, e si avviò verso la radura nel bosco, che non era molto distante dalla sua casa.

Si mise a lavorare in mezzo alla radura, che era letteralmente ricoperta da gigli scarlatti, tanto che la radura sembrava un piccolo lago di sangue. Là i gigli rossi di montagna sembravano essere più fitti e numerosi che in qualsiasi altro punto della valle.

Una sua amica la vide recarvisi là al mattino, e la volle accompagnare, per dissuaderla da quell’idea balzana. Ma la fanciulla fu irremovibile, e l’amica la lasciò a filare in mezzo alla radura, con la promessa che si sarebbero riviste all’ora di pranzo, quando sarebbe tornata a casa per mangiare.

Ma la ragazza non tornò, non tornò più.

I parenti, quando non la videro più tornare, mandarono lo zio e il fratello minore a cercarla, e la trovarono riversa al limitare della radura, morta. Gli strumenti del suo lavoro erano là a terra, accanto a lei.

Non aveva nessuna ferita, ma sul volto dagli occhi sbarrati era disegnata un’espressione di terrore.

Lo zio notò che il suo lungo vestito era rimasto impigliato in un ramo di nocciolo, che glielo aveva strappato.

Il medico del paese confermò che la giovane era morta di crepacuore, come di un grande spavento.

Al paese raccontarono che, mentre si accingeva a tornare a casa, il suo vestito si era impigliato nel ramo del cespuglio, e lei, non vedendo cosa era successo, si era sentita come afferrare da una mano misteriosa, ed il terrore l’aveva uccisa.

Le sue parole in vita erano state coraggiose e scettiche, ma il suo cuore nel profondo aveva avuto paura. Forse, aveva cercato di fare quell’eccentrica impresa, proprio per cercare di scacciare quella segreta paura che potesse esserci qualcosa di vero nelle dicerie del paese.

Ma presto cominciò a circolare un’altra versione della storia. Che forse, non era stato un banale piccolo incidente a ucciderla, ma qualcosa di più grave.
In fin dei conti, la storia del ramo ingannatore era poco convincente, per chi la conosceva bene.

PETER KOLOSIMO 90: I NOMMO, GLI OANNES, I SAGUSEI E IL MISTERO DI SIRIO B.


mercoledì 27 gennaio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 17° pagina


L’unica altra via d’entrata era una profonda gola dove scorreva un torrente fragoroso che si collegava poi a uno degli immissari dell’Eydin, chiamata la Gola dei Sospiri, a causa del curioso rumore che facevano i venti passando fra quelle pareti rocciose.

Là i pionieri avevano costruito una serie di ponti che permettevano di percorrere un sentiero che costeggiava il torrente della gola, per arrivare alla fine ad accedere ad un piccolo lago ai bordi della valle, ancora più piccolo di quello che si trovava al suo centro.

Comunque, quando i primi pionieri vi erano giunti provenendo dai passi occidentali, e avevano visto il grande bacile della valle dall’alto, l’avevano chiamata la Valle dei Gigli per l’altra strana caratteristica che aveva, oltre al fatto di avere la forma di un cratere.

Nei vasti prati del fondovalle cresceva una quantità enorme di gigli di montagna, di una varietà dal colore scarlatto che difficilmente si trovava altrove.

Non si conosceva alcun luogo dove crescessero così tanti fiori di una sola specie, che coprivano i prati della valle a tal punto da farli sembrare dei campi di papaveri.

I primi pionieri ne rimasero affascinati, e pensarono che fosse un posto bellissimo dove vivere, essendo la valle ampia e fertile.

Gruppi di coloni agricoltori e pastori si stabilirono nella Valle dei Gigli, che vi fondarono cinque villaggi, e su di una rocca ai bordi della valle fu costruito un tempio a Sil, la Grande Dea del Sole, e un palazzo nobiliare, secondo le tradizioni millenarie dei Shepenna, i conti-vescovi del Veltyan.

La regina Alkyndri aveva consegnato la proprietà e l’amministrazione della Valle dei Gigli ad una figlia del casato di sacerdoti-conti dei Malyrian della città di Maristei, e là la contessa-sacerdotessa aveva fondato il suo casato, che aveva come stemma tre gigli scarlatti dentro una falce di luna.

Pare che i primi quarant’anni dalla colonizzazione della valle fossero stati prosperi.

Non ci veniva tanta gente, i coloni vivevano piuttosto isolati, ma prosperavano. I pascoli e i campi erano rigogliosi, gli armenti si moltiplicavano, e lo stesso isolamento della Valle giovava al suo benessere, perché gli stessi briganti di montagna - o eventuali tribù barbariche provenienti da oriente - difficilmente potevano raggiungere quel luogo quasi inaccessibile, perché la gola, che era l’unica via di entrata sicura, era ben sorvegliata dalle guardie del casato locale, e per la sua natura era facilmente difendibile.

Ma non era neanche passato mezzo secolo, che cominciarono ad accadere cose strane.

Cominciarono a correre strane leggende sulla Valle dei Gigli. Molti raccontavano che nelle notti più limpide, soprattutto d’inverno, venivano notate sulle cime circostanti delle misteriose luci che si muovevano sulle pendici, fra le nevi e le rocce, e che sparivano poi dietro i crinali o dentro il folto delle foreste sottostanti.

Inizialmente la cosa fu attribuita ad attività del popolo fatato.

Ma le Fate delle Montagne della Luna, che tra l’altro non erano molto numerose, come tutte le comunità fatate del Veltyan, negavano di avere nulla a che fare con la Valle dei Gigli e con i loro dintorni.

Anzi, come il popolo dei Nani dello Zerennal Baras e i Sileni delle foreste, non ne volevano neanche parlare, come se considerassero anch’esse quella regione un luogo maledetto dagli Dei.

Cosa fosse successo dopo, non era chiaro, e nessuno poté scoprirlo con esattezza.

Dopo secoli, le leggende si erano accavallate, non era più possibile distinguere la diceria popolare dai fatti.

Ma che fosse successo qualcosa di spaventoso ed inesplicabile, non c’era alcun dubbio, e nessuno storico l’aveva mai messo in forse, anche se qualcuno aveva cercato di proporre delle spiegazioni che non ricorressero al magico e al soprannaturale.

La spiegazione che invece correva da sempre fra il popolino e i sacerdoti, era ovviamente che la gente della Valle dei Gigli aveva commesso gravi colpe contro gli Dei, e perciò era stata punita.

La leggenda, comunque, diceva che tutto era cominciato un brutto giorno, per un caso banalissimo, quasi un gioco.
Esisteva, al limitare della valle, sul bordo opposto a dove si trovava l’entrata alla Gola dei Sospiri, un bosco con una piccola radura. Quella radura aveva fama di essere un luogo di raduno delle Fate,

PETER KOLOSIMO 89: GLI EGIZIANI E IL MISTERO DEI DOGON


martedì 26 gennaio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 16° pagina


stravaganti esoteristi che collezionavano narrazioni e leggende paurose e strane su fenomeni misteriosi ed inesplicabili.

Rilesse il capitolo che narrava la storia della Valle dei Gigli, come per cercare possibili indizi su come spiegare quello che gli aveva detto Thymrel, e che al momento non aveva alcun senso.

Tutto era cominciato quando, molto tempo fa, ben quattro secoli prima, la regina Alkyndri aveva promosso e incoraggiato la colonizzazione delle più lontane regioni orientali del regno, prima di allora molto poco popolate e spesso infestate da predoni nomadi provenienti dalle remote praterie dell’est, oltre i confini del Veltyan.

I vasti territori dell’Enkarvian, nei quali era compresa una parte delle Montagne della Luna e la valle del fiume Eydin, erano stati invasi da un’ondata di colonizzatori dall’ovest, provenienti dalle regioni centrali del Veltyan.

Poveri contadini, figli e figlie cadette di nobili casati, mercanti ed artigiani delle grandi città finiti in miseria, e naturalmente anche tanta gentaglia, lestofanti che sfuggivano alla giustizia, o che il debito con la giustizia l’avevano già pagato e volevano rifarsi una vita altrove, sacerdoti desiderosi di fondare monasteri e templi in luoghi abitati solo da gente ignorante e arretrata, e ogni sorta di sbandati che coltivavano un sogno di un futuro migliore, avevano inondato quelle terre prima coperte solo da boschi e paludi e qualche raro villaggio di pastori, pescatori e contadini.

L’ondata colonizzatrice si era fermata fra le Montagne della Luna, i pallidi monti che segnavano il confine sud-orientale della grande catena delle Montagne Albine, che divideva il regno del Veltyan dagli altri paesi ad oriente, popolati solo da orde barbariche.

Le Montagne della Luna, così chiamate per il loro bianco spettrale, erano la regione più isolata e meno facilmente accessibile di tutto il regno.

Le valli, circondate da alte vette che parevano torri, castelli e cittadelle, divise da profondissime gole, erano di difficile accesso.

La valle del fiume Eydin, l’unica ad essere ampia e lunga, tagliava la catena in due da nord-est a sud-ovest, verso la vasta pianura ai cui confini si trovava il villaggio di Arethyan.

Era in quell’epoca di pionieri, che era sorto il suo villaggio.

Ma agli estremi confini orientali del regno, distante molti chilometri dalla Valle dell’Eydin, era stata scoperta una strana, ampia valle, quasi completamente isolata dal resto del mondo.

Una valle completamente deserta, dove neanche le più remote e rare comunità montane si erano mai avventurate, fin dai tempi remoti del Diluvio.

Nemmeno la gente dello Zerennal Baras, il vicino regno dei Nani, posto all’interno delle montagne ad oriente della Valle dell’Eydin, aveva mai avuto contatti con quella valle.

Anzi, pareva che i Nani dello Zerennal Baras avessero scoraggiato i pionieri del Veltyan a spingersi fin là, dicendo che era una regione maledetta, ma senza voler specificare cosa avesse di così malefico.

Sembrava, dalle leggende popolari, che il piccolo popolo delle montagne non avesse neanche avuto il coraggio di parlarne, dall’alto della sua sapienza plurimillenaria.

Persino i selvaggi Sileni, il villoso popolo delle foreste, che pure vivevano numerosi nei boschi delle Montagne della Luna, avevano sempre evitato quel luogo, che non volevano neanche nominare.

Ma nelle sere d’inverno, quando i vecchi saggi silenici sedevano attorno al focolare nelle case dei montanari e sussurravano i segreti dei boschi e delle cime, avvertivano i loro amici umani di non avvicinarsi al luogo innominabile, la valle circolare nascosta tra le pallide cime.

E infatti quella valle era perfettamente circolare. Una sorta di immenso cratere largo trenta chilometri, completamente piatta al suo interno, con un piccolo lago al centro, e altissime cime tutt’attorno, come una grande muraglia.

Per potervi entrare, bisognava salire per alti passi, inerpicandosi ad altezze dove dominavano solo i ghiacciai, per poi ridiscendere su ampi ghiaioni, costeggiando precipizi e ripide e intricate foreste di pino rosso.

lunedì 25 gennaio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 15° pagina


Nessuno sa che lei è qui, nessuna l’ha vista. Posso anche raccontare che è una mia lontana cugina povera venuta a lavorare da noi. Cosa ti costa, dottore? Se salta fuori la verità, potrai sempre dire che tu non sapevi niente, no?».

«Va bene, Syndrieli. Hai vinto tu. Vedo bene che ci tieni molto a questa ragazza e al suo bambino. Ve la lascio, ma mi riservo di visitarla spesso, e intendo farle ancora delle domande, fino a quando non avrò scoperto qualcosa…. va bene?».

«Tutto quello che vuoi, dottore, ma non consegnarla ai gendarmi».

In quel momento sbucò Erkan dal frutteto, con un cesto di mele, che disse: «Allora, dottore, sta bene la nostra Fata?».

Larsin fece il gesto di mollargli una sberla.

«NON è una Fata, lo vuoi capire???».

«E allora chi è? Tra l’altro, dice di venire dalla Valle dei Gigli! Ci sono solo due tipi di persone che possono dire di venire di là: o un matto, o un essere fatato. Chi altri?».

«Lei NON viene dalla Valle dei Gigli!».

Thymrel si riscosse e si voltò di scatto verso Larsin, quasi furiosa, ma con un’espressione di disperazione dipinta in volto.

«Perché dici che non vengo di là? Credi che sia una bugiarda? Avevo la mia casa là, in centro alla valle, vicino al lago di Bryel, dove vivevo con la mia famiglia, dove vorrei poter ritornare. Mi ricordo i gigli della valle, che fiorivano in estate a migliaia, e i campi diventavano rossi come il sangue…. sono cresciuta vedendo i gigli fiorire ogni anno, e mia madre mi diceva che in nessun altro posto al mondo crescevano così tanti gigli come nella nostra valle, per questa la chiamavano così! La mia bella valle che forse non rivedrò mai più…. E tu insisti col dire che non vengo da lì? Perché? Cosa ti spaventa?».

Larsin ammutolì e sbiancò in volto. Non osò replicare niente, ma si vedeva che il discorso della ragazza l’aveva spaventato. E non solo lui.

«Visto? È una Fata, non c’è dubbio!» bisbigliò Erkan al dottore.

«Indubbiamente è una persona molto particolare». Gli rispose.

Quella stessa sera, chiuso nel suo studio, seduto sulla sua poltrona in mezzo ai suoi libri, il dottore continuò a rimuginare le parole della misteriosa Thymrel.

Lei era convinta di venire da quel posto di cui la gente non osava quasi neanche pronunciare il nome, e tanto meno considerava anche solo la possibilità di avvicinarsi. Eppure lei affermava la sua provenienza con una sicurezza e una serenità che lasciavano sconcertati, come se non sapesse assolutamente niente di ciò che era successo in quel luogo lontano e terrificante. E chiaramente non capiva che quello che diceva non poteva avere alcun senso, perché nessuno poteva vivere ancora là.

Semmai, poteva essere reticente su quello che era successo dopo aver lasciato il suo presunto luogo natìo. Velthur era convinto che ricordasse di più di quello che voleva far credere, ma che per un’oscura ragione non volesse rivelarlo.

Ad un certo punto, si alzò dalla sua poltrona e si diresse verso le finestre che davano ad oriente, verso la catena delle Montagne della Luna, così chiamate per il loro lunare, quasi spettrale biancore, le cui prime cime distavano al massimo una cinquantina di chilometri, oltre le colline che ne erano i prodromi.

Si ricordò di uno dei volumi della sua libreria esoterica e misterica. Si chiamava  L’Ombra delle Leggende di Perun Oyarsun.

Era una raccolta di tutte le più misteriose e paurose leggende di tutto il Veltyan, di tutti gli eventi misteriosi narrati dalle cronache antiche e moderne. E naturalmente c’era anche la storia della Valle dei Gigli.
Andò a cercare quel volume, perso fra centinaia di altri. Ci dovette mettere un po’ di tempo a trovarlo, perché era parecchio tempo che non lo leggeva più. Era stata una delle sue passioni da giovane, quando provava più interesse per il lato misterioso ed insolito dell’esistenza, ma ora, divenuto scettico e maturo, non consultava più quel genere di libri di tipo misterico, scritti da

PETER KOLOSIMO 88: DA DOVE POTREBBE ESSERE VENUTA L'ANTICA SCIENZA EGIZI...


domenica 24 gennaio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 14° pagina.


Il dottore era ansioso di parlarle. Il giorno prima, quando era tornato da casa sua, non le aveva parlato molto, perché poco dopo averla visitata più accuratamente, lei si era di nuovo addormentata di colpo.

«Come stai, ragazza mia? Dimmi, quando pensi che nascerà il tuo bambino? Di quanti mesi è?».

Thymrel sembrò riscuotersi dal suo incanto, e scoprire che non era capace di rispondere.

«Io…. credo che non ci vorrà molto, ma non mi ricordo quando sono rimasta incinta».

«Cosa ti ricordi del tuo passato? Qual è l’ultima cosa che rammenti prima di essere stata trovata da Larsin?».

«Del mio passato mi ricordo alcune cose, altre no. Alcune cose della mia infanzia, della mia famiglia, della mia casa, e ricordo bene anche il mio nome…. ma da quando ho lasciato la Valle dei Gigli non mi ricordo quasi niente. Ricordo che ho preso la barca in mezzo alle montagne, e sono scesa lungo il fiume per un paio di giorni, credo. Mi sono arenata tre o quattro volte, ma ho sempre riguadagnato la corrente, fino a quando sono svenuta per lo sfinimento… credo».

«E prima? Cosa è successo prima

Thymrel volse lo sguardo di nuovo verso il crinale della collina.

«Non riesco a ricordare … non riesco neanche a ricordare il momento in cui ho lasciato casa mia…. nella Valle dei Gigli».

«L’hai lasciata di tua spontanea volontà, o sei stata costretta? Ti hanno rapita?».

«Mi sono persa…. se ricordo bene. Non sono più riuscita a trovare la strada di casa, e poi….».

Si bloccò. Sembrò quasi congelarsi, mentre il suo sguardo diventava vitreo. Per un istante, Velthur temette che stesse di nuovo per cadere in quella strana catalessi in cui l’aveva vista la prima volta.

Le afferrò delicatamente un braccio.

«Thymrel?».

Reclinò il volto in avanti, e un singhiozzo uscì dalla sua bocca tremante.

Il dottore si allontanò un attimo, per parlare con i padroni di casa.

«Non credo che stia fingendo, ma nello stesso tempo credo che voglia nascondere qualcosa. Forse qualcosa di così spaventoso da non poterne neanche parlare».

«Rapita e violentata? Qualche brigante che magari ha ucciso la sua famiglia e l’ha portata con sé, fino a quando lei è riuscita a fuggire….».

«Se è così, ci vorrà molto tempo per sapere tutta la verità. Forse non la sapremo mai. Bisognerà conquistare la sua fiducia, aspettare che si abitui a noi. Ma in questo momento continuo a domandarmi perché continua a dire di venire dalla Valle dei Gigli…. a meno che non si sia trovata prigioniera proprio là! In fin dei conti, sarebbe un buon rifugio per dei briganti….».

«Credo che neanche il più temerario dei briganti avrebbe il coraggio di porre il suo rifugio in quel luogo maledetto dagli Dei!» sbottò Syndrieli.

«Chissà…. Bisognerebbe sapere che cosa ne pensano quelli delle valli vicine. E io non ci sono mai stato da quelle parti. Né intendo andare in quei luoghi agli estremi confini della civiltà, per chiarire la cosa, almeno per il momento».

«Se davvero volesse veramente nascondere qualcosa, non si inventerebbe una storia più credibile?»

«Sì, infatti. Probabilmente è confusa. Sente di non poter dire tutto, ma nello stesso tempo non sa neanche lei quello che dice. Ma se non ne veniamo a capo in fretta, dovrò andare dai gendarmi di Arethyan e denunciare la sua presenza in casa vostra, se non lo farete voi».

«Dottore, quanto pensa che ci voglia ancora perché nasca il bambino?».

«Syndrieli, da quel che ho visto, secondo me, al massimo un paio di mesi. Con i miei strumenti alchemici posso determinare il giorno esatto in cui dovrebbe nascere, ma ci vorrà un poco di tempo».

«Appunto. Ricordati che qui si tratta non del destino di una persona, ma di due. Io vorrei che fosse lei prima di tutto a raccontarci chi è e da dove viene, se il suo nome è vero e chi è la sua famiglia, e poi si deciderà se è il caso di parlarne ai gendarmi.

PETER KOLOSIMO 87: GLI EGIZIANI CONOSCEVANO LE LENTI, L'ELETTRICITÁ E L'...


sabato 23 gennaio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 13° pagina


Syndrieli parlò animatamente.

«A noi sinceramente fa paura quello che dice, ma ci fa una pena…. Sembra così fragile, spaventata, e poi aspetta un bambino…. vorremmo tenerla noi. Il posto ce l’abbiamo e ci potrebbe aiutare nel lavoro dei campi….».

«Conosce la legge, Syndrieli. Ogni cittadino di Veltyan deve dichiarare alle autorità locali se ospita in casa una persona sconosciuta. Non potete nasconderla o rischiate grosso, soprattutto se dovesse risultare che ospitate una fuorilegge. Finireste in galera per averla protetta ed ospitata».

«Andiamo, dottore! – sbottò Larsin – Guardala! Ti sembra una malfattrice? Semmai è una ragazza fuggiasca a causa di una gravidanza imprevista…. mi sembra abbastanza chiara la cosa. E forse è un poco matta, sì. Ma non mi sembra certo una matta pericolosa…. solo strana».

«A proposito… ha detto qualcosa d’altro, oltre alla sua presunta provenienza?».

«Oh, non molto! Quando ha insistito nel dire che veniva dalla Valle dei Gigli, io ho cercato di farle capire che non era possibile, perché là non ci viveva più nessuno da alcuni secoli, e allora lei mi ha detto che non si ricordava più la data in cui ci trovavamo, nemmeno l’anno… e mi ha chiesto di dirglielo. Quando gliel’ho detto, mi ha guardato in modo strano, e mi ha detto che proprio non riusciva a ricordare niente, neanche la sua data di nascita. Poi si è rincantucciata nel letto come un bambino piccolo, e si è messa a piangere! Sì, insomma… è proprio strana!».

«Già… molto strana. Vi è sembrata spaventata, reticente alle domande?».

Questa volta fu Syndrieli a rispondere.

«Mah… a dire il vero non le abbiamo fatto tante domande. Abbiamo pensato che forse era meglio aspettare un po’. E non ci è sembrata spaventata. Preoccupata per il figlio che porta in grembo, questo sì. Quando le ho portato da mangiare ha detto che si sarebbe sforzata di mangiare tutto perché doveva pensare al suo piccolo.

Ho pensato cento volte di chiederle se stesse scappando da qualcuno, di chi era il figlio che stava portando in grembo, se era un brigante, o un nobile, o un sacerdote, ma mi sono limitata ad osservarla. Le sue mani non sono mani da contadina, anzi tutto il suo corpo ha qualcosa di straordinario: non ha una sola imperfezione, nessuna impurità sulla pelle, sembra la pelle di un neonato, eppure avrà circa vent’anni, forse di più.

Quando ho notato questo, mi sono fatta un romanzo in testa: ho pensato che potesse essere la rampolla di qualche famiglia nobile che è rimasta incinta di qualche poveraccio di cui si era innamorata, e per poterlo sposare, o forse solo per tenersi il figlio, è fuggita dalla sua villa. Se fosse così, rischieremmo di trovarci di fronte a casa qualche gendarme inviato dalla sua famiglia».

«Come spiegazione, è la più facile da pensare. Ma l’apparenza a volte inganna. Se permettete, ora vorrei visitarla, controllare lo stato della sua gravidanza, e interrogarla sulla sua identità, e speriamo che voglia rispondermi».

Larsin e Syndrieli lo accompagnarono alla veranda sul retro del casone. Là, sotto il portico dagli archi di legno, stava seduta Thymrel su di una poltrona di vimini, riposando dalla calura estiva e osservando i meli del frutteto che si inerpicava sull’ampio fianco della bassa collina di proprietà dei Ferstran. In cima si scorgeva la casa della sorella minore di Syndrieli, che aveva ricevuto in proprietà sua e dei suoi figli dalla madre Aranthi quel piccolo casolare e un appezzamento di terra dall’altra parte della collina.

Appena li vide, Thymrel sorrise loro e chiese a Syndrieli se anche la casa che si vedeva lassù era dei Ferstran.

«È di mia sorella Maeliani. Nostra madre, il capofamiglia, ha voluto darle quella casetta perché ha più figli di me, e riteneva giusto che avesse uno spazio suo.. Perché t’interessa saperlo?».

«Così. Mi piacciono le case in collina. La mia casa invece era nel fondo valle, quando vivevo nella Valle dei Gigli».

Syndrieli si irrigidì, ma non disse niente. Larsin volse lo sguardo al cielo, agitando le mani giunte in un’invocazione a qualche divinità.

Thymrel sembrava incantata dal panorama della collina e della casa in lontananza, come se vedesse qualcosa del genere per la prima volta in vita sua.

PETER KOLOSIMO 86: LE MISTERIOSE ORIGINI DELLA CIVILTÁ EGIZIANA


venerdì 22 gennaio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 12° pagina.


Quello strano culto, di cui lei non sapeva quasi assolutamente nulla, e che più che una religione era forse piuttosto una specie di filosofia mistica, rifiutava il culto degli Dei, negandone l’esistenza, e affermava che origine di tutto era un unico principio impersonale assoluto presente in tutte le cose.

Di questo però Syndrieli non sapeva e non poteva capire niente. Per lei, semplicemente, gli Avennarna non credevano negli Dei, e perciò erano degli atei.

E infatti proprio per questo spesso gli Avennarna erano considerati degli atei e i sacerdoti spesso li avevano perseguitati, soprattutto nelle aree rurali, dove la gente era molto più attaccata alle tradizioni del culto di Sil, la Dea del Sole, Signora dell’Universo, e delle altre divinità delle messi, dei boschi, delle acque e delle forze naturali.

Da quelle parti infatti gli Avennarna erano pochissimi e guardati con occhio particolarmente storto, anche se il dottore era riuscito in parte a far accettare alla gente le sue scelte di fede, dato che era considerato bravissimo e una persona di rara umanità e generosità.

Gli Avennarna li si trovava più spesso nelle grandi città, fra la gente delle classi medie, artigiani e mercanti, ma rimanevano dovunque una stretta minoranza. La teocrazia dei sacerdoti di Sil rimaneva di fatto incontrastata dovunque nel Veltyan, e con un potere pressoché assoluto nelle campagne.

Nelle città invece, la mentalità più aperta e tollerante aveva permesso che gli Avennarna potessero vivere più tranquillamente, anche se non potevano ambire alle alte cariche dello Stato, che se non erano occupate da sacerdoti, dovevano esserlo da parte di ferventi seguaci delle tradizioni religiose.

Syndrieli era una donna molto devota al culto nazionale , e frequentava spesso il locale tempio di Sil, e faceva in modo che i figli venissero istruiti nei principi della religione tradizionale dai sacerdoti di Arethyan.

Perciò non poteva fare a meno di guardare male il dottore esattamente come facevano i sacerdoti del locale tempio di Sil.

Non le piaceva il fatto di averlo in casa, ma ora che sua madre, la vecchia matriarca Aranthi, aveva deciso di accogliere quella povera ragazza incinta nella sua famiglia, doveva accettare il fatto di trovarselo intorno diverse volte, almeno fino a quando non si fosse sicuri che la ragazza stava bene.

Perché, se la ragazza svegliandosi aveva detto di venire dalla Valle dei Gigli, era legittimo sospettare che stesse molto male..

Avrebbe avuto la tentazione di affidare la giovane Thymrel alle cure di sua cugina Tarkisi, che era una strega di campagna e conosceva tutti i segreti delle erbe, dei fiori, delle piante e delle pietre per curare i malati e proteggere il parto delle puerpere, ma sapeva che allontanare a forza il dottore le avrebbe inimicato il marito, che era sempre stato un suo buon amico.

D’altra parte, non si sapeva ancora come si sarebbero messe le cose, considerando che non si sapeva ancora chi fosse in realtà la ragazza, da dove venisse e perché si fosse trovata in quella barca sulla riva del fiume. E se per caso non fosse una pazza.

Il giorno dopo che Larsin aveva trovato Thymrel, il dottore era venuto di nuovo per controllarla e parlare con lei.

Sarebbe stato suo dovere avvertire l’alkati, la matriarca borgomastro del paese, e i gendarmi, ma prima voleva chiarire lui di cosa si trattava. L’alkati era una vecchia donna ottusa e interessata, e non godeva della sua fiducia, e i gendarmi erano tre imbecilli.

Non erano le persone più adatte ad interrogare una ragazza spaurita e sola. Poteva anche darsi che decidesse di non parlare a nessuno di questa storia, e di inventare una storia sull’identità di Thymrel che potesse evitare qualsiasi sospetto nei suoi confronti.

Mentre Syndrieli gli serviva una tisana calda, sedeva nella cucina dei Ferstran parlando con i due coniugi sulle condizioni della ragazza.

«Allora, insiste nella sua versione?».

«Sì, dottore. Dice ancora di venire dalla Valle dei Gigli. Convinta, eh?».

«Quando me l’hai detto ieri, ho pensato che fosse in stato confusionale, ma ora penso che o è in una sorta di delirio in cui confonde la fantasia con la realtà, oppure s’è inventata una bugia stupida per nascondere chi è veramente e da dove viene».

PETER KOLOSIMO 85: LE PIRAMIDI SONO ARCHE TEMPORALI?


giovedì 21 gennaio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 11° pagina.


È in catalessi, e sta aspettando un bambino. Tutto qui. Certo, esistono delle malattie che producono la catalessi senza molti altri sintomi, ma non posso stabilire qui se si tratta di una di quelle malattie, non senza gli strumenti adatti».

Syndrieli ritornò con una brocca piena d’acqua. Il dottore la prese e vi sciolse dentro una polvere verdastra, che rese il liquido di un colore bruno.

«Mentre io vado a prendere il necessario a casa mia, dovreste lavare questa ragazza con questa pozione, passando un panno intriso su tutto il suo corpo, compresi i capelli e le unghie. E dovreste fare la stessa cosa voi tre, se nessun altro ha avuto contatti con lei.

Se questa ragazza ha qualche malattia contagiosa, il liquido disinfettante dovrebbe bloccare ogni contagio. Sempre che lo facciate subito, naturalmente. E mettete a lavare le lenzuola del letto in cui l’avete posata, dopo».

Syndrieli assicurò il dottore che avrebbe seguito le sue indicazioni, e mentre il dottore usciva di casa, andò a cercare Erkan, che si era rifugiato dietro casa.

Lo portò nel bagno del pianterreno, lo fece spogliare e là, nella vasca da bagno, gli passò il disinfettante su tutto il corpo, mentre Larsin se ne stava a sorvegliare la ragazza, in attesa di potersi disinfettare anche lui.

Fu proprio allora che la ragazza misteriosa si risvegliò.

Prima emise un vago lamento, e pronunciò una parola incomprensibile e gutturale, che a Larsin sembrò qualcosa come “tukukla” e “telekli”, una sorta di scioglilingua o di gioco di parole. Gli parve familiare, ma non seppe dire a cosa potesse somigliare o cosa potesse significare né in quel momento né in seguito.

Poi spalancò gli occhi e la bocca emettendo un grande sospiro, quasi un urlo soffocato. I suoi occhi sembrarono cercare qualcosa attorno nell’aria, terrorizzati. Nel vedere quel brusco risveglio, anche Larsin sobbalzò, sorpreso e spaventato.

«Calmati, ragazza. Sei in casa mia e sei al sicuro!».

Quando lei si volse a guardare Larsin, lo spavento nei suoi occhi sembrò spegnersi.

Larsin le disse dove si trovava e come l’aveva trovata, poi le chiese chi era.

La ragazza ansimava ancora, ma sembrava stare bene.

«Mi chiamo… Thymrel. Thymrel Nerkan. E vengo dalla Valle dei Gigli, in mezzo alle Montagne della Luna».

Larsin rimase interdetto, ma solo per un secondo. Fu più forte di lui, nel sentire quelle parole, reagire con una piccola battuta.

«Ah, sì? La Valle dei Gigli? E io sono la Grande Regina del Veltyan!».

 

 

 

CAPITOLO II: LA SMEMORATA

.

Syndrieli non amava molto il dottore. Non gli piacevano le persone che facevano scelte strane nella vita. Pensava che potessero essere persone pericolose, che si mettono nei guai e che spingono altri a mettersi anche loro nei guai.

D’altra parte era l’unico dottore del villaggio.

Il dottor Velthur Laran era senz’altro un individuo singolare. Bravissimo e coltissimo, aveva abbandonato la vita di città per andare a imbucarsi in quel  piccolo villaggio ai piedi delle montagne, vicino agli estremi confini orientali del regno. Diceva che era perché non amava la vita di città, perché conduce alla corruzione, e che solo la pace e la vita semplice e austera dei paesi rende un uomo integro e sereno.

Era un Avennar, cioè un seguace della dottrina dell’Aventry, e anche questo non andava a genio a Syndrieli.

PETER KOLOSIMO 84: IL MISTERO DELLA VALLE DELLE SETTE MORTI


mercoledì 20 gennaio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 10° pagina.


«Mh, va bene… ho imparato cos’è un’autopsia l’anno scorso, quando io e altri miei amici, tornando una sera dall’osteria, abbiamo trovato quel tizio morto sulla strada per Sartiuna, giù verso la pianura. Sono stato io a chiamare i gendarmi e sono stato poi io a caricarmelo in spalla, come ho caricato questa ragazza, e l’ho portato fino alla casa del dottore. Sapevo che quando qualcuno muore e non si sa perché, deve venire il dottore a esaminarlo, e così ho assistito all’autopsia.

Gli ha aperto il petto e il ventre per guardarci dentro ed esaminare tutte le budella, per capire come era morto…. io ho dovuto aspettare che i gendarmi finissero di interrogarmi, perché naturalmente sospettavano che l’avessi ammazzato io. Mi hanno trattenuto fino a quando il dottore non ha confermato che era morto di morte naturale.

La prossima volta che trovo un morto per strada, lo lascio là e casomai avverto il primo che mi capita, perché avverta lui i gendarmi.

Fatto sta che mentre aspettavo, il dottore l’ha sbudellato come un maiale, e poi l’ha anche ricucito. Mentre lo sbudellava, si sentiva un odore spaventoso che veniva dal suo intestino, credo, a giudicare dal tipo di odore… senz’altro era molto peggio di questa roba qui…. Quando squarto un maiale, sento olezzi migliori…. ».

Erkan faceva un’espressione di inorridita curiosità mentre il padre raccontava. Cominciò a fare domande morbose su che aspetto avesse un uomo con le budella per di fuori.

«Prima o poi ti capiterà di vedere tali spettacoli per conto tuo, se continui a frequentare quei delinquenti dei tuoi amici… ehi, dottore, sembra che non stiamo ottenendo molti risultati, vero?».

«Eh no…. sembra che non reagisca. I sali dovrebbero agire anche contro gli effetti delle droghe, quindi mi viene da pensare che la causa della sua incoscienza sia ben altra… se non si riprende, dovrò portarla a casa mia. Là ho dei rimedi più potenti…».

«Non si risveglia perché è una Fata! É sotto un incantesimo di qualche altra Fata cattiva! Bisognerebbe andare nei boschi sulle colline e cercare altre Fate per farla guarire!».

«Erkan, adesso te le prendi! Ma sul serio!».

Erkan fu rapido a fuggire dalla camera. Larsin non lo inseguì, e continuò ad agitare quell’inutile fiala di mefitici cristalli.

«Perché ti sei tanto arrabbiato, Larsin? Se bisognasse arrabbiarsi per tutte le sciocchezze che dicono i bambini, non si avrebbe tempo per nient’altro!».

«Velthur, Erkan è mio figlio, o almeno credo, e non il tuo. Sinceramente, non ne posso più delle fantasie di quel ragazzino. Ha la testa per aria, fa sempre discorsi strani, parla sempre di Fate, streghe, magie, fantasmi e altre storie fantasiose. Mio padre era uguale a lui, e per questo non ha combinato niente di buono nella vita e ha fatto la fine che ha fatto: solo e in miseria.

Ho il terrore che diventi come lui: un matto che vive delle sue fantasie e non capisce niente del mondo in cui vive».

«Il fatto che assomigli a suo nonno non significa che ne debba seguire lo stesso destino. Forse, chissà, tuo figlio è un narratore, un cantastorie, un artista di spettacolo, un poeta….».

«Ah, proprio bella questa! Ho proprio bisogno di un commediante in famiglia! Vita da squattrinati, ad elemosinare un po’ di soldi in cambio di qualche pagliacciata in pubblico, di paese in paese…. Bella roba! E non mi faccia credere che possa diventare un grande poeta… a quanto ne so, fanno una vita anche peggiore dei commedianti di paese! E poi mio figlio è troppo testone per studiare, e non abbiamo soldi per mandarlo a scuola, né lui né nessun altro dei nostri figli».

«Era solo per dire che forse ti preoccupi troppo. È un bambino, in fin dei conti. Io invece mi sto preoccupando per questa ragazza qui. Sembra proprio che non voglia riprendersi».

«E allora che cosa facciamo, dottore? Aspettiamo?».

«No. Prima ho detto che volevo portarla a casa mia, ma ora penso che sia meglio lasciarla qui, e che ci vada io a casa mia, a prendere altri strumenti e medicinali. Meglio non spostarla, se possibile».

«Non c’è nessun motivo per spostarla…. senti, dottore, puoi dirmi che cos’ha questa ragazza?».

«Sinceramente, non lo so. Non ha ferite di nessun tipo, non sembra né denutrita né disidratata. Non ha segni di malattia sulla pelle, né alcun sintomo che io conosca.

PETER KOLOSIMO 83: LE ARMI DEI VIMANA


martedì 19 gennaio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 9° pagina.


tutti i privilegi che le spettavano, oltre a subire la disapprovazione della famiglia e della comunità, che difficilmente la riaccoglieva.

Non c’era da stupirsi quindi che la maggior parte di quelle giovani fuggisse prima di venire scoperte, nella speranza di evitare almeno la vergogna pubblica. Ma quella ragazza aveva una gravidanza  già molto avanzata. Forse avrebbe partorito nel giro di un mese o due. Quindi, se era fuggita, doveva esserlo da parecchio tempo. Se si era rifugiata in qualche luogo, doveva essere stata nutrita e curata in modo ineccepibile.

Larsin preferì tenersi i propri pensieri per sé. Istintivamente, solidarizzava per quelle ragazze che si vedevano punite così aspramente per un solo momento di debolezza. Se il suo sospetto si fosse rivelato corrispondente a verità, avrebbe fatto di tutto per aiutare la ragazza a rifarsi una vita onorata.

Sapeva che, in quel caso, il dottore gli avrebbe dato una mano, dato che notoriamente non aveva molta simpatia per il clero. Ma sua moglie, donna estremamente devota, avrebbe potuto trovare da ridire. Certo, alla fine era solo la decisione della vecchia matriarca Aranthi, che contava, e non c’era motivo per pensare che lei non avrebbe voluto accogliere la poveretta.

La catena dei suoi pensieri fu arrestata dalle parole del dottore.

«Larsin, mentre la portavi qui, ha mai dato segni di riprendersi in qualche modo? Voglio dire…. Si è mai mossa, ha mai aperto gli occhi, o mormorato qualcosa?»

«Niente, dottore. Come un fantoccio. Si è lasciata trasportare come se fosse un sacco di patate, o uno spaventapasseri. La sentivo respirare, ma non ha mai emesso un lamento. Come se fosse in un sonno profondo».

«È strano… non ha ferite, niente lesioni, nemmeno botte. Il polso è regolare. Non vedo niente di anormale, sembrerebbe quasi che sia in catalessi, come sotto l’effetto di una droga, forse…. Adesso proverò a risvegliarla».

Tirò fuori dalla sua borsa una fiala piena di cristalli immersi in un liquido torbido, e quando la stappò un odore aspro e penetrante invase la camera.

Larsin storse la bocca.

«Cos’è quella roba? Ha un odore simile al fiato che aveva mio padre quando era ubriaco… poco prima di morire!».

«Sali farmaco-alchemici, ideali per chi ha perso i sensi… agitaglieli di fronte alle narici, mentre io le faccio un massaggio ai polsi….».

Mantenendo sempre la stessa espressione schifata, Larsin piazzò la fiala trasparente di fronte al naso della ragazza, pensando che forse il dottore, più che farla riprendere, voleva soffocarla in modo da avere un paziente in meno.

Se ne sarebbe ricordato, la prossima volta che qualcuno fosse svenuto in famiglia.

Mentre il dottore le massaggiava i polsi, arrivò Syndrieli trafelata.

«Chi è questa povera ragazza? Com’è ridotta?».

«Non lo sappiamo. É svenuta e stiamo cercando di farla riprendere con questa roba… se non la asfissia prima!».

«Sil benedetta, che puzza! E poi accusano noi contadini di propagare le puzze nel mondo! Farà bene a riprendersi presto questa ragazza, prima che il fetore di quella roba si attacchi ai muri e ci resti per un mese!».

«Suvvia, ci sono medicinali molto più puzzolenti… e poi vorrei che assisteste a un’autopsia, così poi sarei sicuro che non vi lamentereste più dei miei rimedi….».

«Un’auto… che?».

«Un’autopsia, Erkan. Chiedi a tuo padre che cos’è…».

«Mh… perché non glielo spieghi tu, dottore?».

«Eh no, mio caro Larsin….  A parte il fatto che il lavoro più facile lo stai facendo tu, è compito della madre o del padre istruire i figli, … giusto? E siccome adesso Syndrieli sarà così gentile da andare a prendere dell’acqua, nel caso questa sventurata fanciulla debba riprendersi, il compito spetta a te».

PETER KOLOSIMO 82: GUERRE NUCLEARI NELL'ANTICA INDIA?


lunedì 18 gennaio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 8° pagina.


paesi della pianura a quelli delle colline, costeggiando il fiume. Dopo due chilometri, i due si infilarono nella stradina sulla sinistra che arrivava alla fattoria dei Ferstran, ai piedi della collina coperta di meli, viti, noci e pioppi.

Erkan avrebbe voluto dire al dottore che la donna era sicuramente una Fata, un’idea che lo ossessionava sempre più, ma doveva risparmiare il fiato per correre in quella calura. Gliel’avrebbe detto quando fossero arrivati, se gli fosse rimasto fiato sufficiente.

Arrivarono nel cortile di fronte alla fattoria quasi subito dopo che vi era arrivato anche Larsin. Teneva in braccio la ragazza sconosciuta e la stava adagiando sulla panchina sotto il pergolato folto di viti, all’ombra.

Un uomo della sua stazza possente non aveva avuto particolari problemi a trasportare quella donna minuta e a portarla in breve tempo a casa, che si trovava a poca distanza dal fiume.

«È ferita?» urlò il dottore mentre attraversava il cortile, con la borsa degli strumenti che quasi sembrava volare dal suo braccio.

«No, sembra solo incinta, dottore. E non apre gli occhi».

«Ed è una Fata!».

«Tu sta zitto e non dire scemenze!»

«Una Fata?»

Il dottore le tastò il polso e le aprì una palpebra.

«Beh, non so nulla di come si cura una Fata…. quindi speriamo proprio che non lo sia!»

«È sicuro che non lo è! Mio figlio s’inventa sempre un sacco di scemenze! Tu, va a cercare tua madre, mentre io aiuto il dottore!»

Syndrieli era in cucina. Larsin risollevò la ragazza e la portò in una delle camere da letto al piano di sopra.

Mentre salivano le scale di legno e nella casa risuonavano i passi pesanti di Larsin sui gradini, sentivano la voce concitata di Syndrieli che si avvicinava.

Una volta stesa sul letto, Larsin si fermò a osservarla, come prima non aveva avuto tempo di fare, mentre il dottore la esaminava e cercava di capire in che condizioni fosse.

Era una ragazza normale, come se ne vedevano tante in paese, ma assolutamente sconosciuta, non aveva nulla di familiare. Magari veniva da uno dei paesi vicini lungo il fiume, o magari dalle montagne.

Ed era anche molto pallida, ma la sua pelle era sorprendentemente integra, come non era quella di una contadina, semmai come quella di una nobildonna. Le sue mani non erano rovinate dal lavoro, le sue unghie erano bianche ed intatte. Eppure non aveva nessun ornamento. I lunghi capelli neri erano sciolti sulle spalle, senza fermagli né trecce, ed era vestita di una semplice tunica grigia, di un tessuto che sembrava cotone, senza cintura. Era vestita più semplicemente persino di una monaca.

Improvvisamente, gli venne in mente che potesse essere in realtà una monaca fuggita da un convento, perché era rimasta incinta. Ce n’erano parecchi di conventi femminili, nella regione dell’Enkarvian, e capitava sovente che qualche giovane novizia, o anche meno giovane, non sapesse mantenere il proprio voto di castità e si lasciasse ingravidare da qualche contadino o da qualche signorotto locale.

I monasteri femminili del Veltyan erano qualcosa di strano e particolare. Di monache a vita ce n’erano molto poche, ma di giovani monache temporanee ce n’erano a iosa. Era normale per molte famiglie mandare in monastero per tre anni le giovani figlie per servire Sil. In quel periodo di tempo le ragazze non potevano essere avvicinate da alcun uomo e dovevano solo pensare ad officiare i riti in onore della Grande Dea del Sole.

Dopo tre anni il loro voto di castità e di servizio a Sil poteva essere rotto, gli veniva concesso di tornare a casa loro, e riprendere una normale vita familiare, accogliere un uomo nella loro camera di notte o decidere per il matrimonio di convivenza. Avere passato tre anni in un monastero era considerato un onore, e le donne che l’avevano fatto godevano di determinati privilegi.
Ma se una fanciulla trasgrediva i voti e si univa a qualche uomo prima dello scadere dei tre anni, o mancava al suo servizio in qualche modo, veniva disonorata e scacciata dal monastero, e perdeva

PETER KOLOSIMO 81: LA POTENZA DEI VIMANA E LA FINE DI MOHENJO-DARO


domenica 17 gennaio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 7° pagina.


Quando però la domestica del dottore, la signora Artheni Mendibur, gli aprì, Erkan non riuscì a spiegarsi chiaramente, tanta era l’emozione.

«Signora, presto… il dottore deve venire, al fiume, mio padre… ha bisogno, no, deve venire con me prima a casa nostra…. una donna nel fiume, cioè…. una donna che non è una donna, una Fata….. sta male, forse….è incinta, non lo so… il dottore deve venire….».

La signora Mendibur non portava molta pazienza con la gente. Il suo lavoro in casa del dottore era continuamente disturbato dalla gente di paese e dai contadini delle campagne e delle colline che venivano a chiedere l’aiuto del dottore di giorno e di notte, per un motivo o per l’altro. Il dottore c’era sempre per tutti e quindi spesso doveva esserci anche lei, anche perché a volte doveva aiutarlo, soprattutto quando arrivava qualcuno con qualche ferita grave.

Era diventata un poco medica anche lei, dato che nel Veltyan non esistevano quelli che venivano chiamati “infermieri”, o meglio erano rappresentati da quelli che venivano chiamati “medici di primo livello”.

Perciò, quando arrivava qualcuno che non si sapeva cosa voleva e non era chiaro se aveva dei motivi veramente seri per disturbare, lei cominciava a urlare.

«Figliuolo, non ti sembra di essere un po’ troppo giovane per ubriacarti?? Lo sai che lo dice sempre anche il dottore che i ragazzini non devono bere alcool!!! Né vino, né sidro, né birra. O ti decidi a dirmi cosa vuoi chiaramente, o torna quando sei sobrio!»

Le urla della domestica ottennero proprio l’effetto di chiamare fuori il dottor Velthur.

«Lasciate stare, Artheni, ci penso io. Riprendete a pensare alla purea di mele e carote…..».

La signora Mendibur non se lo fece ripetere per la seconda volta. Si fiondò verso la cucina, per non urlare ancora.

«Dottore, mio padre al fiume… abbiamo trovato una donna dentro una barca…. Sta male, mi ha detto di venire a chiamarvi e portarvi a casa nostra».

«Una donna? È ferita?».

«No, signor dottore, non mi pareva. Ma era svenuta, non stava bene senz’altro…. Mio padre la sta portando a casa nostra, credo. Sembra che aspetti un bambino».

«Ho capito. Dammi il tempo di preparare la mia borsa e vengo subito».

Erkan aspettò rispettosamente il dottore di fronte alla porta d’entrata. Avrebbe voluto entrare, ma si trattenne.

C’era un così bel fresco dentro la casa del dottore, quasi più che nella fresca fattoria dei Ferstran. Erkan lo sentiva venire dal corridoio aperto. Immaginò che il freddo della casa del dottore fosse dovuto a qualcuna delle misteriose pozioni alchemiche che sicuramente il dottore conosceva.

Erkan, figlio analfabeta di contadini semianalfabeti, che manco era mai andato a scuola, aveva sentito dire dai grandi che con le sostanze e gli alambicchi alchemici si poteva fare praticamente ogni cosa: generare freddo, calore, luce, tenebre, suoni, immagini e ogni sorta di prodigi, e sapeva che il dottor Velthur aveva fama di essere una persona coltissima e abile nell’alchimia farmaceutica, oltre che un dottore di grande bravura.

Perché poi una persona così notevole si fosse rinchiusa in quel piccolo paesetto di provincia ai piedi delle montagne ai confini del Regno Verde, anziché andare ad esercitare in città come Enkar o Ermonel, che non erano molto distanti, non lo sapeva nessuno.

Le gente del paese sapeva solo che era inviso alle gerarchie sacerdotali, e che non era devoto al culto nazionale di Sil, ma seguiva un’altra religione, che da quelle parti non era conosciuta.

Infatti non lo si vedeva quasi mai nel tempio di Sil, se non in occasione di matrimoni e funerali.

E questo naturalmente aveva tarpato la sua carriera, perché nel Veltyan, il vasto Regno Verde, o le cose si facevano in accordo con i sacerdoti, che possedevano la maggior parte delle leve del potere, oppure si restava in un angolo, per quanto bravi e capaci e intelligenti si potesse essere.

Anzi, quando uno era una persona in gamba e non andava d’accordo con il clero dei Thyrsenna, era trattato ancora peggio.
Pochi minuti dopo, il dottor Velthur stava correndo nella calura estiva accompagnato da Erkan, all’ombra del lungo filare di cipressi che costeggiava l’ampia strada lastricata di ardesia che univa i

PETER KOLOSIMO 80: IL MITO DI MU E QUELLO DELLA CITTÁ SOMMERSA DI DWARKA


sabato 16 gennaio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 6° pagina


Il tessuto che aveva visto era l’orlo di una lunga veste grigia, una semplice tunica come le portavano le contadine del Veltyan.

Larsin lanciò un grido di sorpresa, e il figlio fece per correre al fianco del padre, ma con un gesto Larsin gli fece capire che doveva ancora stare indietro.

Sul momento, Larsin pensò che fosse morta, poi vide che respirava.

Con circospezione, sempre guardandosi attorno, salì sulla barca, anche se provò un grande senso di disagio, come se salisse sopra un letto di carboni ardenti. Ora che lo vedeva da molto vicino e poteva toccarlo, sapeva che la sua impressione era vera. C’era qualcosa di innaturale nel colore di quella barca.

Avrebbe preferito non essere a piedi nudi, ma aveva lasciato i suoi sandali presso la riva, assieme alla canna da pesca e al cesto del cibo

Con infinita cautela sollevò la testa della donna, che gli apparve molto giovane.

Non vide nessuna ferita, ma l’aspetto della ragazza era di una persona denutrita, molto provata. Respirava debolmente.

Mentre era inginocchiato su di lei, provò a prenderla tra le braccia, tenendola in grembo. Pensò che dovesse essere solo svenuta.

Mentre la teneva stretta, la giovane ebbe come un fremito, un sussulto, un’inconscia reazione di paura, come se sognasse un incubo troppo realistico. Spalancò per un attimo gli occhi, che erano grigi. Poi li richiuse. Per un attimo sembrava essersi risvegliata, per poi ripiombare nell’oblio.

Pareva una Thyrsen, e ne aveva tutte le caratteristiche. Di media statura, con i lineamenti regolari e i lunghi capelli neri, il colorito pallido e gli occhi grigi, aveva tutte le peculiarità della Razza Antica. Non c’era motivo per pensare che fosse una straniera.

Solo allora Larsin si decise a chiamare il figlio, che accorse subito, e che rimase quasi impietrito di fronte alla vista della ragazza.

«Questa fanciulla sta male! Non so chi sia, ma bisogna aiutarla. Va a casa e avverti tua madre, anzi no,  vai a chiamare il dottor Velthur in paese prima. Ma sbrigati! Io cercherò di farla riprendere e di portarla verso casa. Se non mi troverete qui, mi troverete sul sentiero che porta a casa nostra».

«Padre! È una Fata, vero?».

«Ma che Fata e Fata, stupido! È una donna, non vedi? E guarda…. Dal ventre che ha, sembrerebbe anche incinta! Credo che sia rimasta sola e abbandonata su questa barca fino a quando non si è arenata! sbrigati!».

Erkan scappò via brontolando. Dentro di sé ripeteva: “è una Fata, sicuro che è una Fata! Mio padre non capisce niente!”

Poco importava che le Fate avessero notoriamente tutte quante o quasi i capelli bianchi come l’argento e una statura molto bassa, oltre a dei lineamenti molto strani e diversi da quelli umani. Lui si era messo in testa che doveva essere una Fata dei fiumi travestita da donna, una Acquana. Come altrimenti si sarebbe potuta spiegare quella stranissima barca di cui non si era mai vista una simile?

Continuò a borbottare “è una Fata” mentre il suo respiro diventava sempre più affannoso e l’afa estiva lo faceva sudare come una fontana, fra le anse sassose del fiume, e quando fu in vista delle case del villaggio in mezzo a un grande prato che declinava lungo la riva, cominciò a urlare, facendosi sentire all’inizio solo da un gregge di pecore e dal loro pastore con il cane, il quale gli rispose abbaiando.

Continuò a gridare “è una Fata!” fino a quando arrivò nella piccola piazza di Arethyan, dove stava la casa del dottor Velthur Laran, proprio al lato opposto del tempio di Sil, la Dea del Sole, come a simboleggiare un’opposizione totale ad un’altra autorità del villaggio, cioè i due sacerdoti della divinità suprema del Veltyan.

Erkan, mentre tirava furiosamente la catena del campanello di casa Laran, pensò che forse il medico gli avrebbe dato ragione. Lui avrebbe saputo distinguere una donna da una Fata, e sicuramente il dottore sapeva come erano le loro barche. Non appena avesse visto quella stranissima barca, avrebbe dato ragione a lui.

PETER KOLOSIMO 79: ALLUMINIO E NICHEL NELL'ASIA ANTICA?


venerdì 15 gennaio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 5° pagina.


rimase subito colpito dal fatto che la barca incagliata nel fiume e apparentemente abbandonata non aveva una forma e un aspetto consueti.

Appariva molto più larga e tozza delle caratteristiche barche della regione. Non aveva la caratteristica polena a corno ricurvo, che quasi formava una spirale, né apparivano le caratteristiche decorazioni intagliate sulle fiancate fatte di motivi geometrici e floreali. Niente gigli, svastiche o pentacoli, né spirali. Né, tanto meno, il nome del proprietario, come si era soliti fare in qualsiasi regione del vasto regno di Veltyan.

Veniva da pensare, dunque, che la barca non fosse originaria del Regno Verde, ma di qualche altro popolo, magari un barbaro popolo orientale o settentrionale, uno dei tanti che abitavano il selvaggio mondo esterno.

Il che non poteva essere ben visto in quei luoghi, poiché lo sapevano anche i gatti che l’unico popolo civile del mondo umano era quello del Veltyan, gli antichi Thyrsenna, e al di fuori di esso vivevano solo genti selvagge e barbare, che non costruivano città né case di pietra e cristallo come i Thyrsenna, ma solo miseri villaggi di capanne di legno o palafitte, o accampamenti di tende di nomadi, e non conoscevano né leggi scritte, né sovrani comuni, né ordine civile, né costumi gentili, né arti o conoscenze elevate. E che praticavano a volte cruenti sacrifici umani e altri costumi crudeli e incivili, e spesso cercavano di invadere il Veltyan per appropriarsi delle sue ricchezze e del suo benessere.

Per questo i Thyrsenna temevano e disprezzavano tutto quello che veniva dall’esterno del loro regno, perlomeno per quanto riguardava gli altri popoli di Uomini.

Diverso era il caso invece dei Nani, i quali notoriamente sono una stirpe pacifica e appartengono tutti a una civiltà antica ed elevata, sia che vivano nelle terre vicine, sia che vengano da paesi molto lontani.

Ma quella non era certo l’imbarcazione di un Nano, che non erano fatte di legno, ma di una trasparente sostanza alchemica, simile a vetro, ma resistente come l’acciaio e leggera come le foglie.  Forse era la barca di qualche Fata? Certamente non era la barca di un Saguseo, dato che quelli vivono nell’acqua, e quindi non hanno bisogno di barche. E le barche dei Sileni erano semplici zattere di tronchi legati assieme.

«Padre, se la barca è abbandonata, potremmo prendercela noi!»

«Se è abbandonata sì, ma guardiamoci attorno…Tu resta qua immobile e se vedi qualcuno, chiunque sia, da qualunque parte lo vedi, avvertimi!».

Larsin, a piedi nudi nell’acqua, si avvicinò passando il breve guado che separava la riva non lontano da dove si appostava per pescare all’isolotto di sterpaglie e sassi dove si era arenata la barca.

Il fiume Eydin, in quel tratto dove usciva dalle basse montagne di nord-est per entrare nelle vaste pianure dell’Enkarvian, era pieno di ghiaioni, isolotti, diramazioni che si separavano e si riunivano in un paesaggio confuso e illimitato, dove solo chi ci era nato e cresciuto poteva orientarsi.

Se era gente straniera che si era arenata là, poteva darsi che avessero abbandonato la barca per cercare aiuto o contatto da qualche parte, e ora erano persi chissà dove, lungo le rive e gli anfratti del fiume.

Mentre si avvicinava alla barca, Larsin cercava con lo sguardo qualcosa di familiare in quell’oggetto, ma più lo guardava, più gli dava un senso di inquietudine. C’era qualcosa nella forma dello scafo e nel colore della vernice scrostata che gli appariva strano e quasi innaturale.

I riflessi che mandava, vagamente argentei, non li aveva mai visti da nessuna parte. Il colore era un grigio chiaro, quasi bianco, spettrale. E non c’era proprio nessun segno sulla barca, nessun nome inciso, nessuna decorazione, nessuna immagine sacra o motivo scaramantico, come avevano tutte le barche dei Thyrsenna.

Dentro, però, c’era qualcosa.

Il vento sembrava aver agitato qualcosa di stoffa, forse una coperta, o un vestito abbandonato là dentro. Un tessuto grigio come la barca, che si muoveva silenziosamente.

Poi si accorse del corpo. Ne vide i lunghi capelli neri, e la mano che appoggiava inerte su di uno dei sedili della barca. Il corpo di una donna, indubbiamente.

PETER KOLOSIMO 78: I MISTERI METALLURGICI DELL'INDIA ANTICA


giovedì 14 gennaio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan, 4° pagina.


Syndrieli era troppo a terra per rispondere ancora, ma si ripromise di tirargli dietro uno dei suoi vasi non appena si fosse ripresentato a casa senza l’anguilla.

D’altra parte, sapeva bene quando lui apriva bocca solo per il gusto di prenderla in giro e farla arrabbiare, e sapeva che era uno dei suoi modi per spingerla a pregarlo di starsene fuori dei piedi.

Larsin era ben felice di avere modo di starsene lontano da casa qualche ora. Se poi era sua moglie stessa a dirgli di starsene lontano, era ancora più felice.

In quei giorni, poi, era ancora meglio. Poter immergere i piedi nell’acqua freschissima che scendeva dalle montagne in mezzo agli isolotti di ciottoli e di boscaglia dove si poteva trovare un po’ di frescura in mezzo all’afa, era certamente meglio che aiutare sua moglie col frutteto o con altri lavori.

La famiglia Ferstran erano produttrice di sidro, e perciò avevano un grande frutteto di mele che si inerpicava sul fianco orientale della collina, ai cui piedi sorgeva la loro casa di pietra e legno, accanto alla riva nord del fiume Eydin.

Bastavano cinque minuti a Larsin per raggiungere la riva dalla casa, e bastava un quarto d’ora per giungere al paesino di Arethyan, in po’ più a valle del corso del fiume, verso occidente.

Gli piaceva pescare, ma non era mai stato molto fortunato. Si portava appresso ogni sorta di amuleto per incentivare la pesca, si era persino fatto tatuare il simbolo di Nagon, il Dio-Pesce Padre dei Sagusei, nella speranza che il favore di quella divinità acquatica gli portasse fortuna nella pesca, ma non era servito a niente.

Perciò barava, per non sfigurare con sua moglie. Comprava anguille, pescegatti, trote e persino gamberetti d’acqua dolce dai suoi amici pescatori, per poi far credere che li avesse presi lui.

Sua moglie c’aveva creduto per qualche tempo, poi aveva mangiato la foglia. In ogni caso, costavano meno che comprarli al mercato del paese.

Quel giorno afosissimo però, una volta tanto, avrebbe fatto una scoperta molto particolare nel fiume.

Dopo aver pranzato con sua moglie, la quale sembrava essersi rimessa, e dopo una piccola siesta, aveva ripreso la sua canna da pesca e si era recato di nuovo al fiume con il figlio maggiore, Erkan, , raccomandando le sorelle di Syndrieli di sorvegliarla e di aiutarla se per caso fosse di nuovo caduta a terra.

Syndrieli raccomandò al figlio maggiore di stare dietro a suo padre, e di aiutarlo nel caso fosse caduto nel fiume.

Larsin, uscendo, le disse che sapeva benissimo che lei non vedeva l’ora che capitasse una cosa del genere, ma che non le avrebbe mai dato quella soddisfazione, e che se proprio voleva un compagno diverso, poteva prendersi in casa un altro e lasciare lui a pescare tutto il tempo, così sarebbero stati contenti tutti e due.

«È una vita che cerco di trovarne un altro, ma non ne conosco uno che sia disponibile e nel contempo decente! Intendo dire uno che abbia cervello, mica lo pretendo bello! Perché non me lo peschi uno tu, magari in una delle osterie che frequenti? Magari anche in cambio di un’intera botte di sidro!»

«Vedrò cosa posso fare, amore mio….».

Il posto prediletto di Larsin per pescare era un isolotto molto lungo e stretto in mezzo al fiume che si raggiungeva da un guado sassoso. Non sempre poteva essere raggiunto, ma quell’estate il corso del fiume si era abbassato enormemente e quasi non scorreva acqua fra l’isolotto e la riva, era rimasto solo un enorme ghiaione di pietre bianche, giallo ocra, viola e verdazzurre.

Ma quel giorno nelle secche trovò qualcos’altro, oltre ai sassi colorati, arenato sul ghiaione.

Chi poteva avere abbandonato quella vecchia barca dalla forma inconsueta e dalla strana vernice tutta scrostata?
Larsin Arayan era anche un eccellente falegname e intagliatore di legno, mestiere che aveva ereditato da suo zio e che aveva continuato a praticare con successo. Conosceva molti modi per fabbricare una barca e decorarla, sapeva quali decorazioni e motivi simbolici incidere, e quindi