lunedì 29 febbraio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 49° pagina.


«L’avete mai sentita prima parlare con quella voce? È stata la trance che le ho indotto che ha fatto saltare fuori quell’altro, quell’altra personalità che era nascosta dentro di lei. E nel momento in cui è uscita dalla trance, è ritornata nel buio della parte nascosta della sua mente. È stato come un sogno per lei, e nel momento in cui si è svegliata, anche il sogno è finito. Tutto qua. Non c’è da preoccuparsi».

«Ah, e anche l’urlo pazzesco che ha lanciato, non è preoccupante? Da notare che la voce di quell’altro le è uscita dopo aver lanciato l’urlo che ha spaventato l’intera famiglia!».

Larsin sembrava molto arrabbiato.

«Ho voluto fidarmi di te, ma sembra che il tuo esperimento non le abbia fatto molto bene….».

«Ma hai visto bene che adesso è tranquilla. Ti assicuro, è stato proprio come avere un incubo».

«E le cose che ha detto, dottore?».

«Sembrano degli incubi anche quelli…. Cioè, ammetterete che è una storia assurda. Un cervo bianco che esce dall’acqua, e che poi spinge gli abitanti della valle a gettarsi tutti quanti nel lago….. è una storia inverosimile!».

«Il fatto che tu non ci credi, non significa che non ci sia qualcosa di vero!» interloquì Syndrieli.

«Lasciamo perdere. L’esperimento non è riuscito perché non ha detto niente che possa essere considerato utile. Tutto qua. Non ci riprovo più, almeno non in questo modo. Comunque, a questo punto è improbabile che riacquisti la memoria un giorno».

«Ammesso che abbia qualche importanza, a questo punto….» commentò alla fine Aranthi.

 

 

CAP. VI : NASCITA AL PLENILUNIO

 

Il bambino di Thymrel nacque un mese dopo, con la luna piena, cinquantasei giorni dopo il solstizio d’estate, verso il finire del mese del Leone, in coincidenza con la festa di Tinsi Amater Sil.

La calura era arrivata al suo culmine, tutti ad Arethyan aspettavano il prossimo calare della temperatura.

Thymrel cominciò ad avere le doglie alla mattina, fu chiamata subito una nipote di Aranthi, che faceva la levatrice e viveva nella fattoria vicina a quella dei Ferstran.

Velthur aveva chiesto di venire chiamato subito quando sarebbe stato il momento, ma proprio quel giorno aveva dovuto occuparsi di un uomo che si era rotto la gamba cadendo malamente da una scala in un fienile, poi un’anziana che si era presa un’insolazione lavorando nell’orto era svenuta ed era morta nel giro di un’ora.

Tutto un insieme di cose l’avevano tenuto lontano dalla fattoria dei Ferstran fino a sera.

Trovò Thymrel che era ancora in travaglio. Sembrava che il bambino facesse molta fatica a nascere, e la madre cominciava ad essere stremata dalle doglie, oltre che dal caldo.

Le somministrò una forte pozione alchemica specifica per questi casi, e un potente antidolorifico, che sembrarono fare effetto, perché nel giro di mezz’ora il bambino venne alla luce.

Il neonato nacque quando ormai la luna piena occhieggiava sopra le colline ad oriente nella luce del crepuscolo, di un bel colore rosato, come è la luna quando sorge o tramonta mentre la luce del sole non ha ancora abbandonato il cielo.

Una nascita con la luna di quel colore era considerata di buon auspicio dai contadini del Veltyan.

Ma dopo il parto, Velthur temette per il bambino. Quando era uscito dal grembo, era di un colore cianotico. Tirò un sospiro di sollievo quando riuscì a farlo respirare, ma gli sembrò che il suo pianto avesse qualcosa di strano, un suono meno squillante del pianto di un bambino normale, con qualcosa di quasi gracchiante.

«Velthur, dimmi la verità…. il bambino può sopravvivere?» gli chiese Larsin.

«Non lo so…. fa fatica a respirare, è debole. Potrebbe non arrivare a domani mattina».

«Va bene, vado a chiamare uno dei sacerdoti al paese per accompagnare la sua anima all’Aisedis….».

PETER KOLOSIMO 121: I MALTESI E LA "RITUALIZZAZIONE DI EVENTI ALIENI"


domenica 28 febbraio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 48° pagina.

Poi successe qualcosa di ancora più spaventoso.

Riprese a parlare, ma non più con la sua voce. Era la voce di un’altra persona.

Sembrava la voce di un uomo, o di qualcosa che assomigliava a un uomo. Una voce vibrante, profonda, roca, quasi sibilante.

«Lascia stare la ragazza, dottor Velthur Laran!».

«Thymrel…. cosa stai dicendo?».

«Non sono Thymrel! Ti ho detto di lasciar stare la ragazza, smettila di farle domande!».

Velthur, ammutolito dallo stupore, guardò verso i tre spettatori dell’esperimento, mentre stavano accorrendo nella sala altri membri della famiglia, richiamati dall’urlo.

Larsin lo guardò con il terrore dipinto in volto, Syndrieli si era coperta le mani e mormorava “è impazzita! Me l’ha rovinata, quel maledetto miscredente!”.

Sua madre le diceva di calmarsi e Larsin cercava di tranquillizzare gli altri parenti che sopraggiungevano.

Velthur si sentì come se fosse stato sul punto di precipitare da un burrone, poi trovò il coraggio di riprendere in mano la situazione.

«Se non sei Thymrel, chi sei?».

«Non ti riguarda. Non ti deve interessare. Ci basta che lasci stare la ragazza. Non le devi chiedere più niente. Non abbiamo niente altro da dirti. Non insistere, è meglio per te e per tutti».

«Voglio sapere chi sei, dimmelo».

Silenzio.

Poi Thymrel si riscosse. Il suo sguardo era tornato normale, e anche la sua voce.

«Dottore, non è servito a niente, mi pare….».

Velthur tirò un sospiro di sollievo. O meglio, un mezzo sospiro di sollievo. Non c’era molto di cui sollevarsi.

«Thymrel….. sì, mi dispiace, ma l’ipnosi non sembra essere riuscita molto bene».

«E perché sono tutti qui a guardami in quel modo?».

Velthur fece il gesto ad Arinthi di mandarli tutti via.

«Ah, niente… per un attimo ti sei lamentata in modo strano e loro sono venuti a vedere cosa è successo….».

«Ma ho detto qualcosa, per caso? Io non mi ricordo niente».

«Eri in trance, Thymrel. Per questo adesso non ti ricordi, ma ti assicuro che non hai detto niente di utile. Hai raccontato delle cose troppo confuse per riuscire a capirci qualcosa…. mi spiace».

Rimise lo specchio dentro la sua borsa, e fece per andarsene, fingendo una calma che non aveva.

«Non vorrete andarvene così, dottore. Dobbiamo pur parlare di questo….» gli disse Arinthi.

«Sì, certo, Signora Madre. Ma non qui, lasciamo riposare Thymrel».

Il dottore fece segno di andare in un’altra parte della casa tutti e quattro per parlare di quello che era successo.

«È posseduta da un demone!» gli disse Arinthi per prima cosa.

«Noi medici lo chiamiamo sdoppiamento di personalità. Succede con una certa frequenza con i pazienti in trance ipnotica. È come se ci fosse dentro di loro un’altra persona che parla con un’altra voce e si comporta in modo diverso, ma non è così».

«Voi non credete nei demoni, ecco tutto! Ma io so che è posseduta da un demone, e che devo farla esorcizzare!».

«Voi non farete niente del genere. Farle credere di essere posseduta sarebbe proprio quello che le servirebbe per farla stare peggio!».

«Ma voi avete sentito quella voce spaventosa con cui ha parlato! Non era lei! Era qualcosa di spaventoso, di minaccioso! Non può non essere invasata da uno spirito maligno!».

«Quello che abbiamo sentito non è uno spirito maligno!».

«E se tornasse fuori, dottore? Se dovesse di nuovo parlare con quella voce? Cosa dovremmo fare? Lasciarla stare?».

PETER KOLOSIMO 120: I MISTERI DI MALTA


venerdì 26 febbraio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 47° pagina.


«Il mio fratellino….. Mi tiene la mano e mi dice di guardare verso il lago,…. in lontananza, sull’altra riva. Io mi volto…. e vedo qualcosa uscire dal lago, un animale…… Un cervo bianco, bianchissimo…… con le corna rosse. È quasi brillante da tanto è bianco……., sembra splendere di luce bianca. Una macchia bianca in mezzo a tutto quel rosso…. Tutta quella luce rossa….».

«Il cervo sta uscendo dall’acqua del lago? L’hai visto emergere dalle acque?».

«Sì…. quando mi sono voltata ho visto le sue corna che spuntavano dalle acque, e la sua testa bianca… poi ha raggiunto la riva ed è uscito dall’acqua….. sembra enorme. Adesso sta correndo nei prati di fiori rossi….. bianchissimo….. adesso sento delle urla, urla umane, ma non so cosa dicono. Sembrano urla di terrore…. il mio fratellino mi si stringe contro, ha paura anche lui… dice che non ha mai visto niente del genere, che gli fa paura…..».

«In che direzione va il cervo?».

«Lo vedo correre verso il paese, corre proprio sullo sfondo della luce rossa del tramonto…. il sole è appena tramontato sulle cime…. proprio dietro di lui. Lo vedo sparire in lontananza….».

«E poi? Non vedi nessun altro?».

«Non vedo più niente, è calata la notte. Sono nello stesso posto, ma è notte. Non c’è più il mio fratellino accanto a me, ma…. non credo di essere sola. Sento ancora le urla e vedo…. c’è ancora il cervo. Sta ancora correndo tra i prati, ma adesso corre verso il lago, come se volesse ritornarci…..  e dietro, dietro vedo una schiera di persone…. tanta gente che urla e che corre….  gente che sembra impazzita…. ho paura….».

«Come fai a vederli, se è buio?».

«C’è la luna piena, è una notte luminosa, luminosissima. La luna è bianchissima, come non è mai d’estate. Sembra più grande del solito. Quando c’è la luna piena, le vette risplendono sotto la sua luce, perché sono bianche…. per questo le chiamano le Montagne della Luna. Perché sono bianche come la luna….  Anche il cervo è bianco, splende quasi come la luna, in mezzo ai prati, e le sue corna sembrano braci ardenti, scarlatte…. corre, ma non tanto velocemente, per permettere alla gente dietro di seguirlo…. la gente che urla, sembra impazzita….».

«Tu cosa stai facendo, Thymrel?».

«Niente, io non faccio niente. Sono ferma immobile sotto gli alberi vicino a casa mia, e guardo cosa sta succedendo. Sono paralizzata dal terrore….la gente segue il cervo e…. anche la gente è strana…. Non è gente normale, sembrano anche loro bianchissimi…. Sembrano dei fantasmi e urlano, urlano, hanno le bocche aperte e urlano, li vedo bene mentre si avvicinano sotto la luce della luna…. il cervo si getta nell’acqua…. Sprofonda nelle acquae…. E la gente dietro, si getta anch’essa… uomini, donne, bambini, vecchi, giovani…. Tutti quanti. Si gettano in acqua e scompaiono nel lago…. le acque diventano luminose…. È come se ci fosse qualcosa dentro il lago che manda una luce rossa….come un fuoco sotto le acque…. Scompaiono tutti quanti nelle acque…. Moriranno tutti annegati e allora quando anche l’ultimo è scomparso nel lago…. Quando anche l’ultimo è sott’acqua…. urlo anche io…. urlo di paura….. di terrore…..».

Fu allora che Thymrel lanciò un urlo spaventoso.

L’urlo colse di sorpresa Velthur, perché fino a un secondo prima la sua voce non pareva spaventata, mentre invece quell’urlo era terribile, lacerante, assoluto. Lanciato con tutta la forza che poteva avere la sua voce.

Cercò affannosamente di farla uscire dalla trance.

«Thymrel.! Ascolta la mia voce! Non c’è niente che ti possa far del male! Ora sei qui, in casa dei Ferstran! Sei al sicuro! Non sei più nella Valle dei Gigli. Sei di nuovo qui con noi! Segui la mia voce! Quando te lo dirò, sarai qui con noi e avrai dimenticato tutto! Ascoltami!».

Ma niente, lei continuava ad urlare, un urlo senza fine, senza interruzione, che sembrava durare un’eternità, mentre Syndrieli era diventata isterica e urlava anche lei: «Fai qualcosa, dottore! Fai qualcosa!».

Poi, come era cominciato, l’urlo cessò. Ma Thymrel non era tornata normale.

Guardava fissamente di fronte a sé, verso lo specchio alchemico. Velthur intuì che non si era affatto svegliata dall’ipnosi, era ancora in trance. E forse stava vedendo qualcosa.

PETER KOLOSIMO 118: LA MISTERIOSA DISTRUZIONE DI UGARIT 3400 ANNI FA.


giovedì 25 febbraio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 46° pagina.


«… un luogo lontano oltre la galleria di luce. Guarda in fondo alla galleria. Il vortice ti sta portando attraverso la galleria, fino alla sua fine… alla fine c’è una porta buia, una porta che si apre sulla notte, sul buio più completo…. la vedi?».

Thymrel ci mise un po’ a rispondere.

«Sì, ora la vedo…..».

«Bene, allora attraversa la galleria e raggiungila. Vai con calma verso di essa, senza paura. Rimani calma, rilassata. Stai procedendo nella galleria lentamente, e continuerai a farlo fino a quando non raggiungerai la porta buia. Quando l’avrai raggiunta, dimmi cosa vedi».

Ci fu una lunga pausa in cui Velthur sentì Syndrieli che diceva sottovoce: «Non ci capisco niente».

Poi, proprio nel momento in cui cominciò a pensare che ci fossero delle difficoltà, Thymrel disse di trovarsi di fronte alla porta buia.

«Guarda oltre la porta. Cosa vedi? Nel buio c’è qualcosa, qualcosa che ti riguarda. Dimmi cosa vedi».

«Vedo un…. vedo il mio gatto grigio e tigrato. Sta seduto sulle zampe posteriori e mi guarda con i suoi occhi verdi…. no, verdi-azzurri. Occhi bellissimi».

«Bene, ora voglio che tu varchi la porta e che ti guardi attorno. Quando la varcherai, il buio sparirà, tutto verrà illuminato e vedrai cose che riguardano il tuo passato. Dovrai descrivermi tutto quello che vedi, dalla prima all’ultima cosa».

Un’altra pausa, in cui Thymrel sembrò fare alcuni profondi sospiri, come se fosse emozionata, o sorpresa, di quello che stava vedendo.

«Vedo una grande casa, una villa…. un posto molto bello. Con un vasto giardino. Il mio gatto sta correndo nel prato».

«È casa tua?»

«No, non è casa mia. Non so di chi sia. Però vedo mio padre. Sta lavorando in quel giardino. Fa il giardiniere. Io sto giocando con il mio gatto».

«Come si chiama tuo padre?».

«Keilin. Si chiama Keilin. Lui fa il giardiniere per quelli che vivono nella villa».

«Tu quanti anni hai, mentre sei lì nel parco della villà?».

«Undici. Ho undici anni. Otto anni fa».

«Perché sei lì, Thymrel? Cosa ha di così importante quel luogo per te? Perché te lo ricordi?».

«Perché ero felice! È uno dei pochi ricordi felici che ho!».

«Quindi, se io ti chiedessi di ricordare cose che forse sarebbero meno felici, tu non vorresti?».

«Cosa vorresti chiedermi di ricordare?».

«Vorrei che mi parlassi degli ultimi giorni in cui hai vissuto nella Valle dei Gigli. Vorrei che tu mi parlassi di quando hai lasciato quel posto. Perché l’hai lasciato?».

«Sono stata costretta ad andarmene. Io non volevo, ma mi ci hanno costretta».

«Chi è stato a costringerti?».

«Non ve lo posso dire».

«Perché?»

«Loro non vogliono».

«Perché non vogliono? Di cosa hanno paura?».

«Non vogliono…. e basta. Non mi chiedete altro».

«Ma come te ne sei andata da lì? Come hai lasciato la Valle dei Gigli?».

«Me ne sono andata….. e basta. Non chiedermi altro».

«Va bene. Allora io ti dico che tu sei ancora nella Valle dei Gigli, e vedi il posto in cui vivevi attorno a te, poco tempo prima che tu te ne andassi. Dimmi, cosa vedi?».

«Vedo il lago, i prati attorno, pieni di gigli scarlatti. È estate, fa molto caldo. Ma siamo al tramonto. Il cielo è tutto rosso… non l’ho mai visto così rosso, le montagne sono rosse anche quelle, insanguinate…. Tutto diventa così rosso».

«C’è qualcuno assieme a te?».

PETER KOLOSIMO 117: L'EVOLUZIONE DIFFERENZIATA DELLE CIVILTÁ


mercoledì 24 febbraio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 45° pagina.


Il giorno dopo, nel primo pomeriggio dopo l’ora della siestra, il dottore si recò di nuovo alla fattoria dei Ferstran, con lo specchio alchemico nella sua borsa, sperando che Thymrel non avesse cambiato idea.

Per sua fortuna, Syndrieli era sul retro, a lavorare nell’orto, e fu sua sorella Sethonei, accompagnata da uno stuolo di bambini, sia suoi che della sorella maggiore,  ad aprirle la porta.

Trovò Thymrel di nuovo nel soggiorno, ancora intenta a ricamare la tovaglia. Aveva finito il cervo bianco, e ora era passata ai gatti scuri, usando un filo di colore di un color blu scuro e uno nero. Forse non aveva il filo grigio scuro, o forse pensava che non avrebbe fatto un buon accompagnamento di colori.

«Come stai, oggi?».

«Devo chiedervi scusa, dottore. Ieri non so cosa mi è successo. È che mi sento molto confusa. Vorrei riuscire a ricordare bene il mio passato, poter dimostrare che quello che dico è vero, ma non ne sono capace, e alle volte mi arrabbio».

«Non preoccuparti. Di pazienti confusi ne ho avuti tanti. È per questo che ho portato un possibile rimedio, oggi, se sei ancora d’accordo».

«Sì, se serve a farmi recuperare la memoria, sì».

«Bene, cominciamo. Vuoi che chiami Syndriel e Larsin, perché assistino anche loro?».

«Sarebbe meglio, grazie».

Velthur mandò Sethonei a chiamarli, e nel frattempo mostrò a Thymrel lo specchio alchemico.

«Che specchio grazioso! Non serve per specchiarcisi, ma sono bellissime quelle sfumature con tutti quei colori brillanti! Sembra la vetrata di un tempio attraversato da un arcobaleno!».

«Sembra un oggetto ornamentale, è invece è uno strumento medico. Non dei più economici, tra l’altro. È fatto di opale alchemico, prodotto in una vetreria alchemica. Ed è molto potente. Ora io lo accenderò e tu vedrai le placche vitree come girare in un vortice che porta il tuo sguardo verso il centro. Tu dovrai guardare quel vortice, concentrarti su di esso e seguire solo la mia voce, che ti dirà cosa fare. Non dovrai fare altro e non preoccuparti di niente. Più sarai distesa e tranquilla, e meglio riuscirà questo tentativo».

«Sembra facile».

Velthur sistemò lo specchio sopra il tavolo del soggiorno, e disse a Thymrel di sedersi comodamente, in attesa che arrivassero Syndriel e Larsin.

Assieme a loro due, arrivò anche la nonna matriarca Aranthi, che in quel momento si era trovata con la figlia e il genero, e che aveva voluto assistere anche lei.

Rivolto a tutti e tre, accese lo specchio alchemico.

«Ribadisco che se Thymrel comincerà a reagire male, magari per il riemergere di ricordi che la fanno soffrire, interromperò il suo sonno ipnotico e non ritenterò l’esperimento».

«L’Arte del Sonno Incantato,» proferì Aranthi «Conoscevo una strega che era maestra in questa stranissima Arte. Curava le paure dei bambini con questo sistema, ma lei usava un pendolino splendente, non usava cose alchemiche. Era povera, non poteva permettersi cose del genere. Però era brava. Vediamo se anche il dottore sarà bravo».

L’idea di venire paragonato a una strega di campagna piena di ignoranza e superstizione irritò un poco Velthur, e questo senz’altro era controproducente. Era necessario che fosse quanto più possibile tranquillo anche il medico, non solo il paziente.

«Vedrò di non deluderla, signora. Bene, cominciamo. Ora, Thymrel, voglio che guardi fissamente il vortice nello specchio. Vedi il vortice come gira? Sembra un pozzo di luce che vuole portarti dentro. Una galleria che ti conduce in un luogo lontano….».

Il tono di voce di Velthur era stranamente alterato, era divenuto estremamente monotono, basso, quasi ansimante e nasale.

«Ma come parla?» chiese Syndriel.

«Zitta!» le intimò la madre «È la Voce del Sonno. Fa parte di questa Arte. Nessuno dica niente».

PETER KOLOSIMO 116: LA MATEMATICA PRE-GRECA


martedì 23 febbraio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 44° pagina.


Regine che avevano regnato a lungo, anche più di cinquant’anni, altre che avevano regnato per breve tempo, anche solo pochi mesi, regine che avevano fatto grandi cose e regine che erano passate nella storia senza lasciarvi alcuna traccia. Regine di tutti i tipi, ma a lui in quel momento gli interessava sapere di una sola.

Andò in fondo all’elenco e risalì i nomi delle monarche matriarcali del suo paese, dalla più recente alla più antica.

Finché la trovò, proprio là dove temeva di trovarla. La regina Xestinei III, che aveva regnato dal 2773 al 2817 d. F. R. Cioè era la Kyrenni  regnante durante la misteriosa scomparsa dei Valgiglini.

Poteva spiegare la cosa sempre con la teoria che lei, dopo aver subito il trauma che le aveva in parte cancellato la memoria, avesse confuso fantasia con realtà, e credesse di essere vissuta nell’epoca in cui la Valle dei Gigli era stata abitata.

O poteva cominciare a considerare l’assurda possibilità che lei provenisse da un lontano passato, e che si fosse mantenuta giovane e bella per ben tre secoli, prima di perdere la memoria.

Avrebbe potuto mettersi a cercare, quella sera, nei suoi libri di eventi misteriosi, e trovare un caso del genere, ma pensò bene a trattenersi.

Doveva fare quell’esperimento di ipnosi. Era parecchio tempo che non praticava l’ipnosi. L’anno scorso era venuto da lui un sacerdote che aveva il vizio del bere vino drogato, e gli aveva chiesto di ipnotizzarlo per liberarlo della sua dipendenza.

In genere l’aveva usato per cose non particolarmente invasive. Gente che voleva smettere di bere, di drogarsi, o che aveva troppa paura del buio, o dei ragni, o altre fobie. Non gli era mai capitato un caso di amnesia, e quindi sarebbe stato un po’ un salto nel buio.  Gli era già capitato invece di fare alcune esperienze di regressione ipnotica.

Uno dei motivi per cui aveva fatto esperimenti del genere era la sua appartenenza religiosa. L’Aventry credeva nella reincarnazione, e alcuni Avennar credevano che esplorare le proprie vite precedenti fosse un modo per conoscere meglio se stessi. Così l’ipnosi era diventata uno dei mezzi con cui nelle comunità dell’Aventry si praticava una sorta di iniziazione spirituale.

All’inizio, con l’entusiasmo della gioventù, Velthur aveva messo il suo talento medico al servizio di queste esperienze, quando qualche Avennar, preso da un disagio esistenziale, si rivolgeva a lui per cercare nelle proprie vite passate l’origine del suo malessere.

All’inizio aveva trovato la cosa affascinante, poi a un certo punto aveva cominciato a rimanere perplesso. Si era spesso domandato se in realtà i ricordi che sembravano venire rievocati da altre esistenze fossero in realtà frutto di fantasie inconsce del soggetto ipnotizzato, e alla fine aveva abbandonato certi esperimenti, soprattutto dopo che l’ultimo caso di regressione ipnotica si era dimostrato troppo anomalo e assurdo per essere verosimile.

Ricordava bene ancora il caso di quella strana donna che, ossessionata da incubi e terrori notturni, aveva rievocato un’esistenza passata che non poteva essere vera, perché ricordava di essere addirittura vissuta in un altro mondo, e di non essere stata un essere umano, ma una creatura mostruosa e dall’aspetto allucinante.

Fu un’esperienza così negativa, soprattutto per la persona ipnotizzata, che decise di non praticare più l’ipnosi regressiva, se non per casi particolarmente gravi.

Per lui, quell’episodio era stata la dimostrazione che l’ipnosi poteva non solo far risalire ricordi reali, ma anche probabilmente gli incubi dimenticati che avevano funestato le notti del paziente, o i terrori infantili che risalivano dall’angolo buio in cui erano stati scaccaiti dalla vita adulta.

Andò nel suo laboratorio, e tirò fuori uno strumento che aveva riposto in una teca da parecchio tempo: uno specchio alchemico, uno di quelli creati proprio per provocare l’ipnosi.

Lo specchio alchemico era un disco opalescente con una spessa cornice ottagonale di legno, largo all’incirca una quarantina di centimetri e con un piccolo piedistallo regolabile sul retro.

Controllò che funzionasse ancora. Sfiorò la superficie lucente con le dita, e mandò un comando mentale. La superficie opalescente cominciò a ruotare in un caleidoscopio di segmenti che formavano un vortice di riflessi iridati che sembrava far spingere la superificie di opale dall’esterno verso l’interno. L’illusione creata dallo specchio funzionava correttamente.

PETER KOLOSIMO 115: L'ANTICHISSIMA GERICO E LA NUOVA GUINEA


lunedì 22 febbraio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 43° pagina.


fa, non ci ha mai vissuto nessuno. Nemmeno le Fate, i Nani o i Sileni. Prima di allora non si sapeva neanche che esistesse. Come potete dire che trecento anni fa ci viveva qualcuno che poi è scomparso?».

«No, scusa…. cosa stai dicendo? La Valle dei Gigli fu scoperta circa quattro secoli fa, fu colonizzata subito dopo la scoperta e dopo meno di cento anni, l’intera popolazione è scomparsa, dissolta nel nulla. Questo dicono i libri di storia….».

Lei continuava a scuotere la testa, negando.

Il dottore cominciò ad avere un dubbio.

«Thymrel…. sai in che anno siamo, adesso?».

«No, non me ne ricordo. Così come non mi ricordo la mia data di nascita».

«Per caso, sai qual è l’attuale regina del Veltyan?».

«Oh sì…. quello me lo ricordo. È la regina Xestinei III, l’eccelsa Kyrenni del Veltyan».

«No, Thymrel. L’attuale regina è Exinedri II».

«Oh…. Allora la regina Xestinei è morta qualche tempo fa?».

«Non sono molto ferrato in storia. Non so quando sia vissuta questa regina. Ma non ne ho mai sentito parlare».

Thymrel a quel punto si mise a piangere e urlare.

«Ma io mi ricordo! Mi ricordo bene! Voi mi dite che i miei ricordi, i pochi che ho, sono falsi, ma non è vero! Io li ricordo molto bene, volete capirlo? Non m’importa di quello che dite. Sono stufa di essere trattata come una pazza, se continuate a trattarmi così, voglio andarmene via!».

Syndrieli, attirata dalle urla di Thymrel, rientrò precipitosamente in casa, sicura di poter trovare dei pretesti per dare addosso a quell’infedele del dottore.

«Che cosa sta succedendo, qua? Perché la ragazza piange?».

«Niente. Thymrel sembra avere le idee un poco confuse…. stavo solo cercando di fare ordine nei suoi ricordi».

Era giusto quello che ci voleva per Thymrel per arrabbiarsi e urlare ancora di più.

«Non ho le idee confuse! Non sono pazza!».

«Velthur, esci immediatamente da casa mia!».

Il dottore non aveva voglia di litigare con quella donna che era sempre stata prevenuta nei suoi confronti, e per un momento fece il gesto di avviarsi verso l’uscita.

«Però, prima di andarmene, voglio che Thymrel mi dia una risposta. Mi dica se posso tentare di farle recuperare la memoria».

«Sì, accidenti a voi! Voglio ricordare! Se non altro, per dimostrare che non sono pazza e che quello che dico è la verità!».

«Bene, torno domani, se nessuno ha qualcosa in contrario».

«Io, ho qualcosa in contrario! Cosa è questa storia?».

«Niente, semplicemente volevo provare un metodo per farle tornare la memoria. Ho l’occorrente a casa, e in ogni caso Thymrel deve essere calma, perché la cosa possa funzionare. Magari domani farà un po’ meno caldo….. questa calura surriscalda le menti e gli animi….».

E le piantò là mentre anche Larsin stava rientrando.

«Sapevo che avresti avuto dei problemi, ma non mi aspettavo di sentire le urla di entrambe le donne».

Velthur lo salutò in fretta promettendogli che sarebbe tornato ieri con l’occorrente per il suo esperimento di ipnosi.

Rientrato a casa andò a guardare in uno dei libri della sua biblioteca, dove sapeva che c’era un elenco delle regine del Veltyan dalle origini fino a quella attuale.

Erano così tante le Kerynnina, le regine elettive del Regno Verde, succedutesi nel corso di più di tremila anni di storia. Erano più di centosessanta, e solo gli studiosi  più colti e appassionati potevano ricordarsi la serie completa.

Persino lui, che era appassionato di libri di storia, non ne ricordava che una quarantina circa, fra le più famose o quelle dalla storia più singolare.

PETER KOLOSIMO 114: LA STRANA CIVILTÁ PREISTORICA DI GERICO


domenica 21 febbraio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 42° pagina.


«Ah beh… guarda che sei proprio un bel tipo! Magari lei ti dice di no e allora cosa ti è servito avvertire me? Solo a preoccuparmi e basta! Quella ragazza è ormai quasi una figlia, per me. Quando dico in giro che è mia cugina, non mi sembra neanche di mentire».

«Sì, hai ragione. Ma ho voluto parlarne prima con te, per vedere cosa ne pensavi. Se tu non approvi la cosa, non le chiederò niente. Cercherò di capire qualcosa basandomi solo sui vaghi frammenti che riesce a ricordare, nella speranza che un giorno ricuperi da sola la memoria».

«Dammi il tempo di pensarci. Questa storia mi fa paura. Ma io non credo che lei venga dalla Valle dei Gigli. Penso che lei creda di venire da lì, questo sì, e non capisco perché, ma tutti sanno che nessuno è mai più andato a vivere in quel luogo maledetto. Madre Santissima, credo che ci sia persino una legge da chissà quanti anni, che proibisce a chiunque di andare a stabilirsi là. Se ci vive qualcuno, sono solo briganti e schiavi fuggiaschi, e che devono avere anche un bel fegato! E lei non può essere una di loro».

«Ma perché avrebbe dovuto inventarsi questa storia? Non ti sembra molto strano?».

«Sì…. ed è per questo che ho paura».

«Potrebbe darsi che sia stata prigioniera là, che qualche brigante l’abbia rapita e tenuta in quel luogo maledetto, poi a causa delle sofferenze subìte, i suoi ricordi si sono confusi. Probabilmente è stata violentata, e alla fine lei ha confuso la sua vita precedente con la prigionia nella Valle dei Gigli. Questa è la cosa più probabile a cui riesco a pensare».

«Sì, forse hai ragione. Ma allora, non so se sarebbe giusto che ricordasse. Sarebbe terribile per lei ricordare il rapimento, le violenze….».

Velthur capiva che Larsin aveva la paura di dover scoprire che forse certe paurose leggende su fatti soprannaturali potessero essere vere. Il suo rozzo scetticismo temeva di venire smentito, e questo Velthur poteva accettarlo.

Non poteva accettare invece quello che aveva appena visto in mano a Thymrel, e quello che gli aveva detto. Una cosa che apparteneva ad eventi semileggendari avvenuti tre secoli prima. Forse era solo il riflesso, il ricordo inconscio e confuso di storie che qualcuno le aveva narrato da bambina.

Quella era la spiegazione che sperava vera. Che qualcuno le avesse narrato tutta la storia della Valle dei Gigli, o che lei avesse letto un libro su quelle vicende, magari lo stesso libro che possedeva Velthur, e una volta persa la memoria lei avesse finito col confondere i pochi ricordi reali con il ricordo di una narrazione che l’aveva impressionata fortemente.

Era la spiegazione migliore, ma non ne aveva le prove. Lui doveva sapere. Esserne certo, per non vivere con quell’angoscia.

Dentro di sé, ammise di essere un egoista. Non lo stava facendo per Thymrel, e forse Larsin aveva ragione. Era meglio lasciare tutto come stava. Ma lui era ossessionato dall’idea di dove sapere la verità, la cui ignoranza lo tormentava troppo spesso.

«Ti assicuro che nel momento in cui dovessi vedere che la cosa può avere degli effetti negativi su Thymrel, interromperei subito l’esperimento».

«Vabbè…. Fammi sapere cosa ne pensa lei, allora».

«Glielo chiedo subito».

Rientrò in casa e vide che la ragazza continuava a ricamare il suo cervo bianco.

«Thymrel, volevo chiederti se volevi permettermi di fare un esperimento per farti recuperare la memoria. Sempre che tu sia interessata a ricordarti il passato. Ti avverto che potremmo scoprire delle cose molto brutte, che potrebbero sconvolgerti».

«Perché pensate che nel mio passato ci siano cose così brutte da sconvolgermi?».

«Beh, per un motivo del quale non abbiamo ancora parlato. Tu dici di venire dalla Valle dei Gigli. Ma dalla Valle dei Gigli non può venire nessuno, perché non ci vive nessuno da trecento anni. Gli abitanti di quella valle sono tutti scomparsi da tempo».
«Sì, me l’ha detto Syndrieli una volta. Dice che deve essere una cosa che mi sono inventata io…. ma io non capisco. Io ricordo bene di essere venuta da lì, e che c’era un sacco di gente, quando ci vivevo! Non sto mentendo, e non ho sognato. E poi, è trecento anni fa che non ci viveva ancora nessuno. Me lo ricordo, questo. Mi ricordo molto bene che mi hanno detto che prima di cento anni

PETER KOLOSIMO 113: GERICO SENZA TROMBE


sabato 20 febbraio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 41° pagina.


«Syndrieli ti ha trattato con la sua solita diffidenza? Se sì, le pianto una scenata! Sono stufo della sua bigotteria!».

«No, no. Niente. È che…. vorrei tanto poter aiutare Thymrel a riacquistare la memoria. Un sistema ci sarebbe, ma c’è qualche rischio. Volevo appunto parlartene».

In realtà, fino a un secondo fa non ci pensava neanche. Era quello che aveva visto, che l’aveva fatto decidere a fare la sua proposta.

«Sentiamo…. vuoi somministrarle qualche intruglio fatto di droghe fortissime e bestiali che rischiano di ucciderla, per caso?».

«No, no. Niente del genere. Non esistono neanche “rimedi” del genere per l’amnesia, a quanto ne so. Vorrei provare invece con l’ipnosi».

«L’ipnoche? Una nuova diavoleria alchemico-farmaceutica, immagino….».

«No, l’ipnosi è una cosa che non usa né droghe né medicinali. Penso che tu la chiameresti… una specie di incantesimo. Posso spingere Thymrel in una sorta di sonno onirico con la mia voce e qualche trucco, e spingerla a ricordare il suo passato. Certo, possono risalire anche ricordi molto spaventosi. Può darsi che lei abbia dimenticato cosa le è successo perché il ricordo era insopportabile per lei».

«Beh, se fosse così, allora non sarebbe il caso di restituirgliela, la memoria».

«Sì, tua moglie mi ha detto più o meno la stessa cosa. Però… forse non si tratta di qualcosa che riguarda solo lei. Io penso che potrebbe essere scampata a qualcosa di veramente molto brutto, qualcosa che potrebbe aver coinvolto tante altre persone, che potrebbe costituire un pericolo per tutti. Se è così, non si può lasciar perdere».

«Qualcosa di veramente molto brutto? E a cosa stai pensando, di preciso?».

«Di preciso, niente. Ma lei dice di venire dalla Valle dei Gigli. Forse non è vero, o forse sì. E se è vero, non posso sorvolare sulla cosa. Tu sai bene cosa è successo là, trecento anni fa. Nessuno ha mai scoperto perché. E se è successo una volta, forse potrebbe succedere ancora, da un’altra parte, magari più vicino a noi».

«Adesso sì che mi spaventi. Dimmi la verità: hai scoperto qualcosa?».

«No, niente. Solo ipotesi. Una, la più agghiacciante, è che forse la gente della Valle dei Gigli sia stata vittima di un’epidemia di una malattia sconosciuta, in grado non solo di sterminarli tutti, ma addirittura di dissolverne i corpi senza lasciarne traccia. Se è così, è mio dovere di medico scoprire qualcosa di questa malattia, non credi? E in ogni caso, anche se non è stata una malattia, bisogna andare a fondo della cosa».

In realtà, l’ipotesi della malattia era del tutto campata in aria e non ci credeva lui per primo, ma aveva bisogno di una bufala plausibile per le orecchie dei profani, per giustificare i suoi intenti.

«Ma la scomparsa dei Valgiglini è avvenuta tre secoli fa. Come potrebbe Thymrel saperne qualcosa?».

«Se davvero vive ancora qualcuno là, in segreto, e Thymrel era una di loro, forse quel qualcuno sa cosa è successo tanto tempo fa, e forse lo sapeva anche Thymrel. E forse sa se c’è la possibilità che succeda di nuovo».

«Un po’ troppi se, mi pare….».

«Senti, se dopo trecento anni tu avessi la possibilità, anche una sola, di poter scoprire la vera ragione di una delle più grandi tragedie della storia del Veltyan, non pensi che varrebbe la pena di provarci?».

«Va bene, ma mi hai detto che sarebbe un rischio per Thymrel…. che rischio corre?».

«Di rimanere sconvolta per tutta la vita per ciò che potrebbe ricordare. Ma non è detto che succeda. Forse non scopriremo niente, forse non ci sono ricordi traumatici nel suo passato. Forse ha solo battuto la testa e questo le ha fatto dimenticare tutto. Un sacco di se, lo ammetto».

«Ma lei è d’accordo nel provare questo esperimento?».

«Non gliel’ho ancora chiesto, devo dire».

PETER KOLOSIMO 112: DIFFICILI RINASCITE


venerdì 19 febbraio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 40° pagina.


questa ragazza, che deve pur essere o essere stata la figlia o la sorella di qualcuno, è viva e sta bene?»

«Lei non sembra voler ricordare niente della sua famiglia. Per me, quella ragazza non si è lasciata niente di buono, alle spalle. Io penso che sia meglio lasciare le cose come sono, non solo per lei, ma per il bambino che sta aspettando, e che presto nascerà».

«Se dovessi scoprire qualcosa di non buono, non lo verrebbe a sapere nessuno. Se necessario, neanche tu».

«Quella ragazza t’interessa molto, ecco la verità. D’altra parte, un uomo di cinquant’anni che non ha una donna…. è comprensibile».

«È comprensibile che un dottore che si trova di fronte un caso di amnesia cerca di venirne a capo, prima che lo faccia qualcun altro».

«E chi dovrebbe farlo, se non tu?».

«Magari qualche gendarme….».

«Per tutti quanti, lei è una cugina di Larsin. E così deve rimanere».

«Fino al giorno in cui qualcuno che viene da fuori, vedendola per caso, magari la riconoscerà. E racconterà una storia che nessuno voleva sentire».

«Fantasie. Pericoli che t’inventi tu. E poi da questo paese i forestieri passano così di rado…».

«Lei dov’è, ora?».

«In casa, nel soggiorno. Sta ricamando. È molto brava a ricamare. Ma non si ricorda chi glielo ha insegnato, naturalmente».

«Naturalmente».

Velthur entrò in casa e la trovò nell’ampia sala da pranzo con caminetto,  seduta su di una sedia, intenta a ricamare una tovaglia verde-azzurra con filo bianco e rosso. La seconda sorella di Syndrieli, Sethonei, stava ricamando assieme a lei, ma lavorava su di un tovagliolo.

«Come stai oggi, Thymrel?».

«Come sempre. Bene. Qui sto benissimo, mi trattano bene, mi vogliono bene. Vogliono che stia con loro, io e il mio bambino. Ho già scelto il nome che gli darò: Loraisan. Sento che sarà un maschio».

«Bel nome. Ha un significato speciale, per te? Ti ricorda qualcosa?».

«Non lo so. Semplicemente mi piace».

Loraisan significava “fiore divino”, e non era un nome dei più comuni. Ma sicuramente non sarebbe bastato di per sé ad essere un possibile indizio sul misterioso passato di Thymrel.

«Loraisan Ferstran, o Loraisan Nerkan. Suona bene, anche se un po’ altisonante e molto lungo, soprattutto nella prima forma».

«Lo si può abbreviare in Lor. Lo chiameremo con il suo diminutivo».

«Cosa gli dirai, quando sarà un bambino grande e magari vorrà sapere chi è suo padre?».

«Forse gli dirò la verità. Gli dirò che non mi ricordo chi sia. O magari inventerò una storia adeguata. Gli dirò che è morto, ma non credo che alla fine lo farò. Non mi piace raccontare bugie, e tanto meno mi piacerebbe raccontarle a mio figlio, a meno che non sia proprio necessario».

«Beh, in ogni caso c’è tanto tempo, per decidere».

Velthur fu attirato dal disegno che stava ricamando sulla tovaglia.

«Syndrieli dice che sei molto brava a ricamare. Cosa stai facendo, di bello?».

Thymrel, senza dire niente, alzò e distese con le mani la tovaglia, in modo che Velthur potesse vedere il disegno che stava ricamando.

Un cervo bianco stilizzato, con le corna, gli occhi e gli zoccoli di un rosso scarlatto, meravigliosamente disegnato con ago e filo sullo sfondo verdazzurro.

«Finito il cervo, ci metterò attorno un cerchio di gatti tigrati, neri e bruni… ti piace?».

Un brivido profondo corse per la schiena di Velthur, e per alcuni secondi rimase senza parole.

«Scusa, devo dire una cosa a Syndrieli…. ci vediamo dopo».

Scappò letteralmente all’esterno, e si sedette sotto il portico di pietra della grande fattoria.

Incontrò Larsin che proprio là stava affilando una falce.

PETER KOLOSIMO 111: GONDWANA, LEMURIA E IL MADAGASCAR


giovedì 18 febbraio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 39° pagina.


cui aveva un ricordo frammentario, ma indubitabile. Ricordava molto bene i prati ricoperti di miriadi di gigli rosso sangue, a perdita d’occhio, e ricordava anche il nome del villaggio in cui era cresciuta: Enyaran, il quale era in effetti uno dei cinque villaggi che sorgevano un tempo nella misteriosa valle.

Ma quel villaggio era morto da quasi trecento anni.

I suoi ultimi ricordi netti risalivano a quando aveva disceso il corso del fiume Eydin a bordo della barca, su cui però non ricordava come era salita. Sembrava esserci un vuoto totale di memoria fra il momento in cui aveva lasciato la Valle dei Gigli e il momento in cui si era trovata nella barca sull’Eydin. Anzi, non aveva la minima idea di come avesse lasciato la valle. Aveva un vago ricordo della sua famiglia, ma non ricordava quando e come l’avesse lasciata.

Velthur non era del tutto convinto che la sua amnesia fosse sincera, perché aveva un carattere strano, che non lo convinceva.

Ricordava il nome della sua famiglia, Nerkan, ma non ricordava molto della casa in cui aveva vissuto, non ricordava il volto e il nome di sua madre, ma ricordava che era bravissima a cucinare e che le faceva sempre dei dolci buonissimi, e ricordava anche la sua voce. Inoltre ricordava particolari irrilevanti della sua infanzia, come per esempio il nome del gatto che aveva avuto da bambina, uno dei tipici gatti della Valle dei Gigli.

Non ricordava i componenti della sua famiglia, ma ricordava un suo fratellino minore che “aveva sempre paura del buio” e che soffriva di incubi, e che spesso dormiva assieme a lei, terrorizzato dalle ombre della notte.

Non ricordava la data della sua nascita, non ricordava nessun evento saliente della sua vita, ma ricordava con molta precisione molti luoghi in cui era stata, e che erano tutti nella Valle dei Gigli.

E la ricordava come una valle piena di vita. Ricordava tutti e cinque i paesi della valle ancora abitati, e la cosa non aveva alcun senso.

L’ipotesi di Velthur, che potesse essere una schiava fuggiasca, o una figlia di schiavi fuggiaschi o di briganti nascosti nella Valle dei Gigli, non trovava appigli.

Thymrel sembrava anche essere una persona di buona famiglia, perché sapeva leggere e scrivere, e da come parlava dava l’idea di una persona di discreta cultura. Anche i suoi ricordi frammentari sembravano mostrare che non era esattamente una persona di umili origini. Molti dei suoi ricordi riguardavano uno dei templi della valle, e l’abitazione del sacerdote e della sacerdotessa che vi era annessa.

Forse era una loro parente, magari la figlia stessa dei sacerdoti.

La possibilità che fosse una monaca che avesse trasgredito al suo voto di castità e per questo fosse fuggita, poteva per questo risultare più plausibile. Nei monasteri non prendevano ragazze incolte, che non sapessero leggere e scrivere, e la maggioranza erano figlie di sacerdoti, o di ricchi mercanti e artigiani alchimisti.

Circa un mese dopo la festa di Tinsi Kerris, verso sera Velthur andò a trovare i Ferstran. La sua speranza era sempre di riuscire a far uscire Thymrel dalla sua amnesia, o riuscire a farla confessare che la sua era solo una finzione.

Trovò Syndrieli nel cortile di fronte a casa, che stava dando da mangiare alle galline che razzolavano liberamente.

«Ti loderei per la tua costanza,» gli disse appena lo vide «se non fosse che la tua mi sembra, più che una battaglia persa, una battaglia inutile».

La guardò come se fosse impazzita. Semplicemente, non capiva cosa gli avesse detto.

«Voglio dire: anche ammesso e non concesso che Thymrel recuperi la memoria, che importanza ha? Ormai, almeno per me, è una della famiglia. Non m’importa di sapere da dove viene. Io la vedo serena, tranquilla. E se davvero la ragazza mente, e in realtà non ha nessuna amnesia, non pensi che magari può avere dei buoni motivi per mentire sul suo passato?».
«Potrebbe anche darsi che ci sia una famiglia che la piange come se fosse morta, e che non sa che lei è sana e salva qui da voi. Non pensi che, se quella famiglia esiste, abbia il diritto di sapere che

PETER KOLOSIMO 110: LE TORRI DEGLI UOMINI VOLANTI E LA FENICE


mercoledì 17 febbraio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 38° pagina.


non si poteva escludere la possibilità che davvero non ci fosse qualcuno, che magari vi viveva nascosto, magari qualche schiavo fuggiasco o qualche fuorilegge, qualche emarginato che, non avendo contatto con nessuno, aveva potuto viverci indisturbato. E forse la misteriosa Thymrel era stata una di loro.

Velthur richiuse il libro. Quegli eventi erano ormai così lontani nel tempo che si poteva dubitare che fossero mai veramente accaduti. Dopo tutto quel tempo, la vicenda si era colorata di mille sfumature, di mille leggende che la circondavano. Era difficile, se non impossibile, distinguere ciò che poteva avere un fondamento storico da ciò che erano semplicemente delle storie popolari.

Cosa ci fosse stato scritto nel misterioso diario del segretario, non fu dato sapere. Lo Shepen di Korton non volle riferirlo pubblicamente. Tuttavia erano trapelate alcune informazioni, e un personaggio della corte dello Shepen di Korton disse che si trattava, più che di un diario, di una cronaca delle vicende della Valle dei Gigli, dove erano stati riferiti gli episodi più misteriosi che avevano preceduto la scomparsa degli abitanti.

L’episodio del misterioso cervo bianco, per esempio, proveniva da quel libro di cronache. Ma cosa vi era scritto riguardo gli ultimi giorni della Valle prima della scomparsa dei suoi abitanti, nessuno lo sapeva, se non lo Shepen in persona.

Velthur si accorgeva che stava solo rimuginando su misteri inesplicabili, e basta. Il fascino dell’ignoto l’aveva sempre attratto, ma nello stesso tempo riconosceva che la sua era solo una morbosa ossessione, che le parole di Thymrel prima, e quelle di Prukhu dopo, avevano rinfocolato. Avevano stimolato quella passione per l’esoterismo e l’occulto che l’aveva condizionato in gioventù, e che credeva di avere sopito con l’impegno concreto e quotidiano del suo lavoro di medico e con la meditazione della sua religione, la mistica dottrina dell’Aventry.

«Una perdita inutile di tempo!» disse rivolto alle ombre della notte. «Solo una lunga, inutile perdita di tempo!» ripetè avviandosi verso la sua camera da letto. Voleva solo riuscire a dormirci sopra.

 

 

 

CAPITOLO V: ESPERIMENTO ALLO SPECCHIO

   

 L’estate continuava ad essere calda, maledettamente calda. Nelle lunghe giornate non spirava aria fresca dalle montagne, e non pioveva. L’afa ristagnava umida e appiccicosa ovunque, addosso alle persone, alle cose. Per fortuna, le spesse mura delle case di pietra bianca rimanevano sufficientemente fresche, ma lavorare fuori, nei campi, era quasi insostenibile. Insolazioni e malori colpivano a man bassa e Velthur Laran aveva il suo daffare a consigliare i contadini su come evitare spiacevoli incidenti e come riprendersi una volta subìto un colpo di calore.

Questo l’aveva tenuto indaffarato a sufficienza per non pensare a quello che gli aveva raccontato Prukhu, né aveva parlato con la giovane Kai di cosa potesse avere visto o sentito alla festa di Tinsi Kerris.

Pensava che prima o poi avrebbe ricevuto notizie di lui, in qualche modo. Di andare a cercarlo, non ci pensava neanche. Il bosco delle Fate non era luogo per lui, né voleva avere più a che fare con quella gente, a causa di passate, sgradevoli esperienze.

Invece, si preoccupava molto della giovane Thymrel. Non solo perché voleva sorvegliare la sua gravidanza, ma anche perché voleva andare a fondo della sua strana storia, anche se non riusciva a raggiungere risultati apprezzabili.

Andava a trovarla almeno una volta alla settimana, se non anche più spesso.

Alla fattoria dei Ferstran cominciavano a sospettare che il dottore si fosse invaghito di lei. Nulla di male, anche se c’erano almeno trent’anni di differenza.

La nonna matriarca dei Ferstran aveva deciso di adottare la ragazza e il nascituro, e la storia di farla passare per una cugina povera di Larsin era stata una cosa facile da far credere a tutti.
La ragazza stava bene, e con lei il bambino che portava in grembo, ma la sua strana amnesia parziale continuava ad affliggerla. Diceva di ricordare bene solo che veniva dalla Valle dei Gigli, di

PETER KOLOSIMO 109: IL MISTERO DELLE ROVINE DI ZIMBABWE


martedì 16 febbraio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Piero Trevisan: 37° pagina.



Avevano già passato due notti nella Valle, e non volevano passarne una terza. Ma prima di andarsene, uno di loro trovò un libro aperto nell’ufficio del segretario degli Shepenna della Valle.

Dall’aspetto, si capiva che si trattava di un diario.

Il capo dei commercianti pensò che sarebbe stato utile a capire cosa fosse successo nella Valle dei Gigli, e se lo portarono con sé.

Ebbero la tentazione di portarsi via degli oggetti preziosi, ma il terrore di quel luogo aveva instillato loro la paura superstiziosa di portare con sé la maledizione che sicuramente doveva aver colpito quel luogo.

Ma uno dei quattro, evidentemente meno pauroso, o più avido di loro, prese una statuetta di giada e platino che aveva trovato in una delle stanze del palazzo, una statua che raffigurava un gatto, uno dei gatti della Valle dei Gigli, con il corpo fatto di giada verde e gli occhi di platino alchemico, un oggetto molto bello, senz’altro opera di un artigiano di valore.

Nascose la statuetta nella sua bisaccia, e seguì gli altri contando di rivenderla non appena tornato nell’Alta Valle dell’Eydin.

Ma non fu così. Appena tornati presso il corso dell’Eydin, si recarono alla città di Korton, dove aveva sede lo Shepen locale, e dettero l’allarme su quello che era successo nella Valle dei Gigli.

Inoltre consegnarono il diario allo Shepen in persona.

La mattina dopo partì una spedizione formata da uomini della guardia personale dello Shepen, per indagare cosa era successo nella Valle dei Gigli. Gli Shepenna di Korton erano parenti prossimi degli Shepenna della Valle dei Gigli, e perciò erano ansiosi di chiarire la cosa.

Lo Shepen cercò di impedire che si diffondesse subito la voce della misteriosa sparizione della popolazione della Valle dei Gigli,  facendo allontanare i quattro mercanti dalla città.

Li relegò in un monastero sulle cime attorno alla città, e lì vi rimasero per parecchie settimane.

Fu lì che avvenne quello che viene considerato l’ultimo episodio misterioso collegato alla Valle dei Gigli.

Una mattina, fu trovato il corpo del mercante che aveva rubato la statuetta, rannicchiato in un angolo della sua camera, con un’espressione di terrore sul volto. La statuetta rubata invece si trovava dall’altra parte della camera, nella sua bisaccia accanto al piccolo mobile di legno che si trovava accanto alla porta.

Non c’era nessun segno sul suo corpo, sembrava che fosse morto solo per un grande spavento. Ma non doveva avere neanche urlato, prima di morire, perché nessuno aveva udito niente nella notte. 

Tutta la vicenda si concludeva con la spedizione della guardia dello Shepen, la quale aveva dovuto constatare che in effetti gli abitanti della Valle dei Gigli erano scomparsi tutti quanti senza lasciare traccia, e non solo quelli viventi, ma anche tutti quelli sepolti nelle tombe, perlomeno quelli che potevano avere resti abbastanza integri. Solo pochi frammenti di ossa in qualche sepoltura con una cassa di legno rimaneva come miseri, ultimi resti di una passata presenza umana. Ed i villaggi e le fattorie, e la grande villa degli Shepenna, rimasti vuoti e deserti, ma intatti.

Oltre a questo, anche il bestiame, che sembrava non essere stato toccato in alcun modo, e che girava libero per la valle, come se qualcuno avesse voluto liberarlo prima di scomparire nel nulla. E c’erano poi anche i gatti. Gli strani, misteriosi gatti della Valle dei Gigli, di quella strana razza che non viveva da nessun’altra parte del Veltyan. Alcuni si aggiravano ancora fra le case abbandonate, come se aspettassero il ritorno dei loro padroni, ma altri sembravano essere tornati alla vita dei boschi, da cui osservavano incuriositi, ma intimoriti, i soldati della guardia che passavano per le strade e i sentieri della valle, alla ricerca di superstiti.

Da quel giorno, la Valle dei Gigli morì. Nessuno volle più andare a vivere là, e il luogo fu considerato maledetto per sempre. Solo alcune bande di briganti vi soggiornarono in seguito, considerandolo un buon rifugio, e confidando che il terrore superstizioso che circondava il luogo avrebbe tenuto lontano chiunque, ma sembrava che anche quei malfattori avessero deciso di allontanarsi da lì dopo poco tempo.
Dopo quasi tre secoli, non si aveva notizia di nessun insediamento umano permanente che si fosse stabilito lassù. Non si sapeva neanche se fosse rimasta traccia degli antichi villaggi. Ma certamente,

PETER KOLOSIMO 108: LE MITICHE MINIERE DI RE SALOMONE


lunedì 15 febbraio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 36° pagina.



Alcune volte erano cani bianchi, dalle orecchie, le zanne, le unghie e gli occhi rossi, altre volte erano uccelli bianchi simili ad aquile o a gabbiani, dal becco, dalle zampe e dagli occhi rossi, altre volte ancora proprio dei cervi bianchi dagli zoccoli, le corna e gli occhi rossi come il sangue.

Nelle terre del nord pareva ci fossero molte leggende di un cervo bianco che vagava nelle foreste, e che conduceva alla follia chiunque lo vedesse.

Stranamente, dopo quell’episodio, tutto sembrò calmarsi. La paura collettiva, così come era venuta, se ne andò come se la gente avesse dimenticato le proprie paure superstiziose. Non comparvero più luci misteriose nella notte, né si udirono strani suoni nell’aria, né i grandi gatti scuri parvero inquietarsi di fronte alle ombre della notte.

Passarono così quattro anni, fino ad un giorno all’inizio dell’autunno del 2793.

In una chiara mattina di settembre, un gruppo di mercanti di stoffe salì dall’Alta Valle dell’Eydin verso la Valle dei Gigli, e una volta varcata la gola d’entrata ad occidente, rimasero tutti sconcertati nel vedere che non incontravano assolutamente nessuno.

Arrivarono al primo villaggio, e lo trovarono completamente deserto.

Non c’era traccia di un solo abitante, nè vivo, né morto.

Entrarono nelle case, e le trovarono perfettamente in ordine. Non c’erano segni di saccheggi, né di incendi, né di terremoti, che tra l’altro in quella regione non erano mai stati molto forti. Tutto era in ordine, in alcune cucine erano imbandite delle tavole, come se gli abitanti si fossero accinti a mangiare tranquillamente, prima di sparire.

Nulla indicava che gli abitanti avessero dovuto fuggire, perché non si erano portati via niente, assolutamente nulla. Le cantine e le dispense erano piene di cibo e bevande. Gli armadi e le cassapanche erano piene di vestiti, e qua e là nelle case si potevano vedere oggetti di valore.

Le stalle e i recinti erano vuoti, e furono trovati parecchi animali domestici vagare liberamente per i campi e le strade dei villaggi.

Sconcertati, i mercanti vagarono di villaggio in villaggio, mentre sentivano crescere in loro il terrore per quello che vedevano. Visitarono tutti e cinque i villaggi della Valle dei Gigli, ma non trovarono anima viva, né alcuna traccia di ciò che poteva essere successo.

Alla fine fecero una scoperta agghiacciante: entrarono nel cimitero del paese principale, e videro che le tombe erano state tutte scavate e scoperchiate. Le bare, quelle di granito e quarzo dei ricchi, e quelle di legno dei poveri, erano state tutte svuotate.

Il particolare più orribile, fu vedere come i vermi stessi della terra e delle tombe, giacevano morti a milioni, in piccoli ammassi informi sparsi qua è là nelle tombe e nei cumuli di terra scavata. Anche l’erba attorno pareva rinsecchita, a parte gli onnipresenti gigli rossi, che nel cimitero avevano assunto una sfumatura viola e porpora, e che crescevano rigogliosi anche là.

Alla fine erano giunti al palazzo-tempio degli Shepenna della Valle dei Gigli.

Anche lì, trovarono tutto intatto, e deserto.

Anche lì sembrava che non fosse stato asportato niente, il che rendeva la cosa sempre più sorprendente. Una statua crisoelefantina di Sil, dal manto d’oro e dalla carne d’avorio, con la falce di luna in puro argento e con la corona di stelle fatta di brillanti, era ancora al suo posto nel tempio della Dea. E del pari le croci ansate placcate d’oro alchemico sulle pareti. Inoltre nel palazzo oggetti e vestiti pregiati erano in bella mostra, ben ordinati nelle camere da letto della famiglia dei sacerdoti-conti della valle.

E anche lì, le tombe di famiglia nella cripta sotto il tempio, erano state svuotate. Non rimanevano neanche le ossa.

Che senso aveva che gli occupanti del palazzo avessero lasciato là tutti i loro beni, ma si fossero portati dietro i resti dei loro famigliari morti?

Il capo dei commercianti, arrivato a quel punto, disse che bisognava fuggire dalla valle e avvertire lo Shepen dell’Alta Valle dell’Eydin di quel che era successo, perché inviasse dei soldati a cercare le tracce della popolazione scomparsa.
Di fatto, nessuno si oppose, perché ormai il terrore li attanagliava.

PETER KOLOSIMO 107: BENIN E LA MISTERIOSA CITTÁ AFRICANA DI ILE-IFE


domenica 14 febbraio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 35° pagina.


contro un nemico invisibile, rizzando il pelo. Ma questi comportamenti, si sa, non erano affatto rari da parte loro, e molti non ci fecero caso.

La cosa sarebbe stata dimenticata presto, se il figlio maggiore degli Eryadhin non avesse cominciato ad essere ossessionato dal ricordo della bestia che aveva cercato invano di colpire.

Diceva di vederla in sogno ogni notte, che popolava innumerevoli incubi che lo tormentavano, fino a quando cominciò a vederla anche di giorno.

Ma la vedeva solo lui. Urlava di scorgerla vagare nei prati e nei boschi, ma quando la indicava, nessuno riusciva a vederla.

Finché impazzì completamente, e per liberarsi da quella ossessione, si suicidò annegandosi nel lago.

Ma quando fu ritrovato il suo corpo che galleggiava sulle acque, qualcuno disse che era stato lo spirito del cervo bianco, ad ucciderlo, o ad attirarlo nel lago con un incantesimo.

Dopo questo avvenimento, la Valle dei Gigli cominciò a conquistarsi una pessima fama nella regione.

Nelle valli vicine, da tempo si erano diffuse un sacco di leggende, nate dall’ingigantimento dei fatti da parte del folklore popolare, a tal punto che ormai erano diventati indistinguibili dalle pure e semplici chiacchiere.

Uno storico locale, il segretario della Shepen della Valle, aveva scritto tutti gli avvenimenti misteriosi della Valle dei Gigli, e sui suoi scritti si sarebbero basati anche tutti gli altri libri che avrebbero parlato del mistero di quel luogo, compreso il libro di Perun Oyarsun, che Velthur teneva in mano in quel momento.

Comunque, l’episodio dello strano cervo bianco sembrò segnare l’inizio di un’isteria collettiva. Si moltiplicarono gli avvistamenti di luci scarlatte nella notte nei boschi e sulle cime, e molti altri raccontavano di aver visto anche loro il misterioso cervo bianco dalle corna e dagli zoccoli scarlatti sia di giorno che di notte, sia nei boschi che nei prati, e molti dicevano che aveva “occhi che splendevano come stelle rosse”.

In quel periodo, arrivarono alcuni emigranti che presero a lavorare come minatori nella locale miniera d’argento, e uno di loro era un Teudan, un uomo delle tribù nordiche che vivevano oltre la grande catena ad arco delle Montagne Albine ai confini settentrionali del Veltyan.

I Teudanna, alti e selvaggi uomini dai capelli rossi e dagli occhi verdi, erano notoriamente un popolo pieno di paurose superstizioni e di spaventose e feroci leggende che popolavano il loro folklore di creature da incubo e da terrori senza nome, che funestavano la loro immaginazione primitiva, riempiendoli di paure oscure.

Il terrore della stregoneria li accompagnava sempre, e quando quell’uomo, ascoltando la sera i racconti della valle assieme ai suoi compagni di lavoro, venne a sapere la storia del cervo bianco, si impaurì enormemente. Era un uomo enorme e massiccio, con il fisico di un orso e un volto minaccioso che incuteva timore a chiunque, ma in quel momento sembrò spaventarsi come un bambino.

Il giorno dopo decise di andarsene, senza neanche ritirare la paga dell’ultimo mese. I suoi compagni cercarono di fermarlo, ma lui disse che avrebbe preferito fuggire nudo e disarmato dalla valle, piuttosto che rimanere là un’ora di più.

Chiedendogli perché se ne andasse, rispose solo che aveva troppa paura per parlarne, e che l’unica cosa che poteva dire era che la gente della Valle dei Gigli avrebbe dovuto abbandonare le loro case in massa ed emigrare altrove, perché avrebbero potuto andare incontro a un destino peggiore della morte.

Nessuno riuscì a fargli dire di più, ma un altro minatore, che conosceva qualcosa delle tradizioni dei Teudanna, disse che nel Grande Nord esistevano strane leggende di creature, animali leggendari, bianchi e rossi, che erano i messaggeri del mondo ultraterreno, e che la loro comparsa annunciava l’apertura delle porte invisibili del Regno delle Nebbie, che per i nordici era il regno dei morti e delle oscure divinità dell’oltretomba.

PETER KOLOSIMO 106: LA MISTERIOSA CIVILTÁ DEL BENIN IN AFRICA


sabato 13 febbraio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 34° pagina.


Quando si udiva quel suono, che non si capiva da dove provenisse, forse dal cielo stesso, un senso di minaccia sembrava travolgere tutti i villaggi della valle.

Il fenomeno poteva avvenire in qualsiasi momento, di giorno o di notte, con il bel tempo o con una tormenta di neve, e durava parecchi minuti. Poi il suono sembrava perdersi in lontananza.

Avveniva con frequenza irregolare, talvolta a distanza di giorni, talvolta più volte nello stesso giorno. Ma in ogni caso, generava un senso di terrore perché non si capiva in alcun modo cosa lo provocasse, e da dove venisse.

Poi arrivò la primavera, e il fenomeno cessò, ma in compenso avvenne qualcosa d’altro, qualcosa di molto più pauroso.

C’era una famiglia di nome Eryadhin che viveva al centro della valle, presso il lago, che si chiamava Lago Bryel, dal nome della prima matriarca  di quella famiglia, quando si erano stabiliti là per primi.

Tutta la riva occidentale del lago era aperta su di un vastissimo prato, dove i gigli scarlatti crescevano in numero incredibile, e quasi sembravano aver scacciato ogni altra specie di fiori. Oltre all’erba, crescevano solo loro. Gli Eryadhin avevano la casa sulla riva settentrionale, in mezzo agli alberi . Era una famiglia di pastori, con un grande gregge di pecore, e anche filatori di lana. Fornivano indumenti di lana a gran parte della valle e li si poteva definire benestanti. Avevano persino potuto mandare una delle figlie a studiare alchimia tessile nella città universitaria di Enkar.

Una sera, al tramonto, alcuni membri della famiglia videro venire dal bosco, attraverso il prato di gigli rossi, un essere molto strano.

Si trattava di un cervo, ma di un cervo dall’aspetto irreale.

Il suo manto era completamente bianco, senza la più piccola macchia sul pelo. Di un biancore spettrale, diafano, che sembrava quasi splendere di luce propria. Ma i suoi occhi, i suoi zoccoli e le sue corna erano invece del colore del sangue, di un rosso così acceso da essere tutt’uno con i fiori del grande prato.

Inoltre era enorme, grande come un cavallo, e le sue forme non erano esili come quelle di un cervo normale, ma massicce e tozze come quelle di un cavallo da soma.

Si avvicinava lentamente e senza timore alla fattoria di legno, e vedendolo avanzare, il giovane figlio maggiore andò a prendere arco e frecce in casa per colpirlo.

Pensava che sarebbe stato uno straordinario trofeo di caccia, ma si sbagliava.

Provò a colpirlo diverse volte, ma le frecce gli passarono letteralmente attraverso. Come se niente fosse, continuava ad avanzare. Gli Eryadhin e i loro schiavi, che erano accorsi tutti a vedere il prodigio, poterono vedere le frecce che gli attraversavano il corpo bianchissimo, che sembrava quasi fatto di neve e luce.

Allora, poiché il cervo era ormai in prossimità del cortile della casa, il terrore si impadronì degli abitanti, e cercarono di barricarsi in casa. Pensavano fosse uno spirito, forse la manifestazione di una divinità.

Lo strano essere rimase fermo nel cortile, immobile, fino a quando comparvero due gatti, e successe qualcosa di ancora più strano.

I due gatti si avvicinarono con il pelo ritto e miagolando orrendamente, con movenze d’attacco, ma il cervo rimase immobile di fronte a loro.

I due animali continuarono una sorta di danza del terrore attorno al misterioso essere per parecchi minuti, correndogli attorno e urlando in un modo che attirò molti altri gatti che uscirono dal bosco e si unirono anch’essi allo strano assedio dei loro due compagni.

Alla fine lo strano cervo bianco sembrò non poterne più di quella baraonda miagolante, e indietreggiò verso il prato. Il branco di gatti lo inseguì per un certo tratto, fino a quando non si mise a correre nel prato, verso le montagne. Scomparve in un lampo.
Gli Eryadhin e i loro schiavi parlarono ovviamente della cosa con la gente del vicino villaggio, ma nessuno dichiarò di aver visto anche lui lo strano essere. Tuttavia parecchie persone dissero che in quei giorni i loro gatti si comportavano molto nervosamente, e al tramonto sembravano miagolare

PETER KOLOSIMO 105: ATLANTIDE ERA NEL SAHARA?


venerdì 12 febbraio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 33° pagina.


Il loro comportamento, non appena erano giunti nella valle con i primi pionieri, era stato molto strano. Sembravano perennemente nervosi, inquieti, e la notte ululavano alle ombre con lunghi, lugubri ululati, che facevano letteralmente impazzire i contadini.

Se non erano nervosi e aggressivi, sembravano come paralizzati. Rimanevano in allarme come se ascoltassero qualcosa che sentivano solo loro.

Le cagne non riuscivano a portare a termine le gravidanze, abortivano tutte dopo una settimana o due. E se venivano liberati dalle catene, fuggivano e sparivano tutti uno dopo l’altro.

Alla fine i contadini si rassegnarono: i cani non volevano saperne di quella valle, e già quello aveva suscitato ogni genere di superstizione, ma d’altra parte si trattava di gente molto povera e disperata, alla ricerca di una vita migliore, e lì nella Valle dei Gigli, a parte i problemi con gli animali, l’avevano trovata.

Infatti i raccolti erano sempre molto ubertosi. La Valle sembrava essere protetta dalle altissime cime contro le intemperie. Le estati erano torride, ma gli inverni erano miti, non cadeva mai molta neve. Non c’era mai siccità, i boschi erano sempre ricchi di frutti selvatici e funghi. I frutteti di mele prosperavano un po’ dappertutto nella valle, e producevano mele dolcissime, che davano un ottimo sidro.

In più c’era anche una ricca e vasta miniera di rame, che procurava prosperità a molti.

Molti artigiani del rame lavoravano il minerale grezzo della miniera, e vendevano i loro prodotti ai mercanti che passavano di là.

Certo, non si potevano tenere cani da guardia, ma in fin dei conti non ce n’era bisogno: né animali feroci, né briganti, né le tribù di predoni dell’oriente o del settentrione arrivavano in quel luogo.

In compenso, i valligiani erano riusciti ad addomesticare quei grossi e scuri gatti selvatici, che erano sì molto strani, ma erano degli ottimi sostituti dei cani da guardia, dato che erano grossi quasi quanto un cane di media stazza, ed erano molto attaccati ai loro padroni.

Ma anch’essi si comportavano in modo strano, a volte. E cominciarono a correre molte dicerie e superstizioni anche su di loro.

Si sa, i gatti vedono nel buio e a volte sembrano guardare nel vuoto, come se fissassero qualcosa che è visibile solo a loro. Ma i gatti della Valle dei Gigli, non sembravano semplicemente fissare a volte nel vuoto, sembrava che tenessero d’occhio delle vere e proprie presenze accanto a loro.

A volte, soprattutto la sera, li si vedeva appostarsi di fronte alla porta d’entrata, e guardarla come se si aspettassero che qualcuno fosse sul punto di entrarvi.

Dopo molti anni, nella Valle dei Gigli correvano molte strane dicerie sul conto dei suoi gatti addomesticati. Si narrava che alcuni gatti, in piena notte, dormendo accanto o sopra il letto dei padroni, si svegliassero all’improvviso e cominciassero a vagare per la casa come se inseguissero qualcosa di invisibile che volava nell’aria. E, a volte, rizzavano il pelo e cominciavano a miagolare e lanciare zampate nell’aria, come se aggredissero un nemico invisibile.

Altre volte, si diceva, si riunivano in gruppi nei campi e nei cortili, come soldati schierati pronti alla difesa, e sembravano fissare qualcosa che si muoveva nell’aria.

La gente della valle cominciò a considerarli degli amuleti contro gli spiriti maligni, come una sorta di guardiani contro i demoni, che invece terrorizzavano i cani.

Passarono  parecchi anni dagli episodi della ragazza morta nella radura e del contadino divenuto muto per una sconosciuta visione spaventosa.

Fu nel 2789 che ricominciarono ad avvenire altri fenomeni paurosi, che andavano molto aldilà delle strane luci notturne sulle cime o nelle profondità dei boschi, o delle sparizioni rimaste irrisolte, e che comunque non erano certo moltissime. Erano molte di più le morti per incidenti acclarati, o per malattia, o per faide fra famiglie.

Fu nell’inverno di quell’anno, che cominciarono a udirsi quegli strani suoni in tutta la valle.

Era come un suono basso, profondo ma fortissimo, che non si riusciva a capire da dove provenisse, e che si propagava nella valle fino alle cime inviolate. Stranamente, però, non provocava valanghe. Sembrava qualcosa di simile al suono musicale di un corno, o di una tromba, e a volte sembrava di poter udire una sorta di coro di voci.

PETER KOLOSIMO 104: IL "GRAN DIO DEI MARZIANI" DEL SAHARA


giovedì 11 febbraio 2016

"I FIORI DELLìIGNOTO" di Pietro Trevisan: pagina 32.


La sua lettura si era interrotta all’episodio di Axili, la ragazza morta di spavento nella Radura delle Fate. L’episodio che aveva segnato l’inizio del terrificante mistero che aveva portato alla sua fine la gente della Valle dei Gigli.

Riprese a leggere quel capitolo che aveva già letto diverse volte molti anni prima.

Dopo l’episodio del misterioso decesso di Axili, la ragazza trovata morta di terrore nella Radura delle Fate, avvenuto nel 2768 d. F.R., il libro narrava come una strana paura avesse contagiato la Valle dei Gigli, e di come addirittura fosse stata costruita una serie di tempietti, di piccole edicole dedicate a Sil lungo il bordo dei prati che delimitavano il bosco e che lo separavano dal vicino villaggio.

Per un po’ di tempo non avvenne niente di particolare, anche se nella notte la gente continuava a dire di vedere strane luci scarlatte nel bosco, e in più anche gli avvistamenti di strane luci che vagavano sulle cime si moltiplicarono.

Ma dopo alcuni mesi successe qualcos’altro, ma non nel bosco dove si trovava la Radura delle Fate, bensì da tutt’altra parte del grande bacile rotondo della strana valle, vicino al lago centrale.

Una sera di primavera, subito dopo il tramonto, un vecchio contadino tornava da solo a casa dal lavoro dei campi, a piedi, quando fu attirato da qualcosa che aveva scorto presso la riva del lago, in mezzo a un piccolo gruppo di betulle.

Ma quando vide cos’era, fuggì terrorizzato verso casa, lasciando dietro di sé la falce che portava in spalla, inseguito da una risata lunghissima e fragorosa.

Quando arrivò a casa, provò a spiegare cosa lo aveva spaventato, provò a balbettare qualcosa, e l’unica cosa che riuscì a dire fu: «ho udito una risata lunga, lunga, che mi inseguiva….» Poi non riuscì a dire più niente, e addirittura perse per sempre la facoltà di parlare. Siccome era un povero analfabeta, non poté mai scrivere cosa avesse visto, e non riuscì in alcun modo a farlo capire a gesti.

Il giorno dopo, i parenti si recarono nel luogo indicato dal povero contadino, ma non trovarono nulla, se non la falce che lui aveva abbandonato presso il sentiero.

Tuttavia sentirono un odore spaventoso, che non assomigliava a nulla di conosciuto, e trovarono parecchi rami spezzati fra le betulle, anche a una notevole distanza dal suolo, come se una forza sconosciuta, simile a una tromba d’aria o a un macigno scagliato dall’alto, avesse travolto gli alberi.

Questo servì solo a gettare ancora di più un’ombra di terrore nella valle intera.  

Il povero contadino visse nel terrore il resto della propria esistenza, che arrivò tre anni dopo.

Passò dell’altro tempo, e non successe niente per diversi anni. Ci fu qualche sparizione misteriosa, ma la si attribuì a disgrazie naturali.

I bordi della valle, dalle alte pareti rocciose che delimitavano un fondovalle piatto come una pianura aperta, avevano gole profonde e burroni che si aprivano in modo minaccioso, e in cui era facile perdersi o precipitare.

Qualcuno pensò anche a lupi od orsi, ma nella Valle dei Gigli non si erano mai visti né lupi né orsi, e stranamente neanche animali di nessun altro tipo, a parte i pesci e i rospi del lago centrale, api e insetti, topi, corvi, serpenti, lucertole, qualche piccolo uccello e una strana razza di gatti selvatici dal pelo scurissimo e striato, fra il grigio scuro e il nero, e dagli occhi azzurrissimi.

Nemmeno le aquile e i falchi si avvicinavano alla corona di vette che circondavano la valle, e nei boschi e sui pendii non si vedevano né cervi né stambecchi.

Quella era stata forse la maggiore stranezza di quella valle. Gli unici animali degni di nota che vivevano in quella strana regione erano quelli portati dall’uomo. Ma anche con quelli c’erano dei problemi.

Vacche e pecore parevano avere delle grosse difficoltà a figliare. Molti piccoli nascevano morti, altri deformi. Qualcuno pensò che le acque della valle fossero velenose, ma non era possibile che fosse per l’acqua, perché invece i bambini nascevano assolutamente normali. Anzi, sembrava che nascessero e crescessero straordinariamente forti e robusti, in ottima salute.

I cani, invece, erano un altro dei dolorosi misteri di quel luogo. Sembravano essere tutti terrorizzati da non si capiva bene cosa.