giovedì 30 giugno 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 131° pagina.


comunità, anche se distanti da qui. Comunque quel belk non è stato organizzato da delle Fate. Certo, c’erano delle Fate che vi hanno partecipato, per esempio quella che ha perso lo scialle verde. Ma non molte. Se noi guardiamo con la nostra Seconda Vista quello che è successo lassù, noi vediamo molti della stirpe degli Uomini e non pochi della stirpe dei Sileni, ma poche Fate, e nessuna della nostra tribù. Ma a questo punto, penso che sappia anche tu chi è il responsabile…..».

«Il monaco eremita? Aralar Alpan, l’alchimista? Che fosse coinvolto con quello che è successo sul Monte Leccio, era evidente. Ma voi dite addirittura che è stato lui a organizzare il belk su Monte Leccio, a portarvi streghe, stregoni, Fate da luoghi lontani e Sileni dei boschi, e magari anche tutti quei grossi gatti scuri, per fare una festa orgiastica che i nostri sacerdoti ufficialmente condannano? Sarebbe un bello scandalo, per i tranquilli e mediocri sacerdoti delle nostre campagne!».

La Regina Bianca: «Ti sei risposto da solo. Aralar Alpan si è stabilito là per poter essere libero di fare quello che vuole. Ha scelto questa provincia di confine per non dare nell’occhio alla gerarchia dei sacerdoti. Lui è un sacerdote eretico, e per quello che possiamo capire di lui, persegue scopi ben diversi da quelli della maggioranza dei suoi confratelli.

Possiamo vedere molte cose che lui fa, perché lui appartiene al nostro mondo. È un Uomo come tutti gli altri, anche se particolare, proprio come te. Guarda molto lontano, guarda oltre al nostro mondo, e in qualche modo ha richiamato ciò che è troppo distante dalle cose di Kellur. Quando ha a che fare con l’Altrove, la nostra Seconda Vista si fa troppo confusa, e non possiamo capire».

«Volete che lo spii io, vero?».

La Regina Rossa: «Tu dovrai provare a diventare suo amico. Non sarà difficile per te. Siete spiriti simili, ma tu sei più equilibrato di lui. Lui è pazzo, e quello che fa è sicuramente molto pericoloso. Pericoloso per noi e per voi. Per cominciare a capire quello che fa, devi leggere uno dei libri di cui lui è in possesso, quello chiamato Le Dottrine Misteriche di Cthuchulcha. Tu lo conosci, anche se non l’hai mai letto.

Ma prima di darti indicazioni su cosa fare, torniamo alle tue visioni. Hai detto che sai cos’è la montagna scolpita con i sette gradini. Dicci cosa è».

«Un antico mito antidiluviano. Ne parlano alcuni testi, in particolare il Tinsina Entinaga, il Libro dei Giorni Antichi.

Secondo la leggenda, i Giganti scolpirono la più alta montagna di Kellur, nelle terre dell’Estremo Meridione, presso i ghiacci antartici, come sfida agli Dei. Volevano che la Madre Terra stessa portasse per sempre il segno del loro incontrastato dominio. Ci misero trecento anni per scolpire la montagna foggiandola appunto a forma di cono tronco con sette gradini, e in cima alla montagna posero un giardino. Sempre secondo la leggenda, su quel monte erano state create le prime sette coppie umane, da cui sarebbe discesa tutta l’umanità.

I Giganti, foggiando quel monte, volevano dimostrare agli Uomini che erano loro i veri signori del mondo, per farsi adorare da loro come divinità, dopo aver conquistato il globo intero con la forza delle armi. Non gli bastava essere i re ed i principi di tutto, volevano essere simili agli Dei.

Quando venne il Diluvio, l’impero dei Giganti fu distrutto, ma il grande monte dai sette gradini, che si chiamava Kadatlas, il Monte che Toccava il Cielo, la Montagna dalle Sette Balze, rimase intatto, e così anche il giardino posto in cima, dove si rifugiò il Gran Re dei Giganti con la sua famiglia. Ma tale Re era così arrogante e superbo, che non ringraziò gli Dei di averlo risparmiato, ma invece li sfidò ancora, lanciando frecce infuocate contro il cielo, dicendo che sarebbe riuscito nel suo intento di raggiungere il regno divino e spodestarli.

Per tutta risposta, il Dio Supremo, Silen, lo trasformò in una statua di pietra proprio nell’atto di inveire contro il cielo con le braccia alzate. Poi scacciò la famiglia del Re dal giardino del Kadatlas, non appena le acque del Diluvio cominciarono a ritirarsi, e da loro discendono gli attuali Giganti.

Una bella leggenda che viene narrata ai bambini, ma non capisco cosa c’entri con quello di cui stiamo parlando».
La Regina Nera: «Conosciamo anche noi quella montagna. Alle volte la vediamo nelle nostre visioni, nel meridione più remoto del mondo, in mezzo ai ghiacciai, che si erge altissima, ma non è

LOVECRAFT 157: IL CONFRONTO FRA "IL GRAN DIO PAN" DI MACHEN E "L'ORRORE ...

mercoledì 29 giugno 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 130° pagina.


Ci sono luoghi e reami del tutto ignoti a noi, e sono tutti oltre l’abisso oscuro e insondabile che separa il nostro mondo dagli altri».

«Quali altri mondi? Intendete dire i regni dell’aldilà? I regni degli Dei?».

La Regina Nera: «Intendiamo dire tutti gli altri mondi, tutti gli altri cosmi. Non solo i reami degli spiriti dei defunti, o degli spiriti divini, ma di innumerevoli altri mondi di cui voi Uomini non sapete nulla e di cui noi abbiamo sentito parlare solo per sentito dire. Tu lo sai. Conosci molte antiche dottrine, molte antiche leggende, e sai che gli antichi saggi parlano di reami diversi dalla nostra Kellur, popolati da creature spesso molto diverse da noi, che non sono né Uomini, né Fate, né Nani, né Sileni, né Tritoni, né Giganti, né Geni. Creature ignote e senza nome che voi Uomini non avete mai incontrato, se non in rare occasioni. Stiamo parlando di Loro. Coloro che noi non riuscamo a vedere. Tu sai di loro, te ne ha parlato una volta il tuo amico, quello per cui sei venuto».

«Ed è proprio a causa di Loro, che il mio amico se ne è andato. Intendete dire che Loro sono qui?».

La Regina Rossa: «Non lo sappiamo. Non possiamo saperlo con i nostri poteri. Quando noi volgiamo lo sguardo a ciò che sta succedendo, noi vediamo solo una barriera di luce rossa che si stende ovunque, come un limite invalicabile attorno alla Madre Terra, la Luce del Tramonto che delimita il regno dove per noi splende la Luce, anche se tenue, e comincia la Notte più nera. Noi vediamo solo le rosse Frontiere del Giorno, ogni volta che cerchiamo di scoprire il mistero che ci sfiora. E per questo abbiamo paura. Ma quello che puoi vedere tu, Velthur Laran, è molto di più di quanto possiamo vedere noi. Tu puoi vedere oltre quella barriera di luce rossa, perché sei un essere umano, non un essere fatato».

«E come, posso vedere?».

La Regina Bianca: «Tu sicuramente hai già visto qualcosa. Ieri sera il tuo ospite ti ha offerto una coppa del nostro vino, e ti ha procurato visioni. Cosa hai visto?».

«Ho visto qualcosa di mostruoso, di terrificante. Qualcosa che mi ha terrorizzato a morte. Ho visto una distesa di gigli rossi, i gigli della Ibor Lyrenal, la Valle dei Gigli, ma non erano in quella valle, erano in una pianura senza fine, che si stendeva fino all’orizzonte, una distesa senza fine di fiori rossi, immersi nella luce rossa del tramonto. E ho visto una porta nera, dove si stagliava una grigia figura gigantesca, spaventosa, con un groviglio di serpenti in testa e un unico occhio in mezzo al volto, enorme, rosso e con una pupilla bianca e scintillante. Un demone orribile nato da un’allucinazione. E poi ho avuto un’altra visione, più complessa. All’orizzonte ho visto una catena di montagne innevate, interamente coperte di neve, con una montagna più grande delle altre, simile a una torre conica, dalla cima piatta e con sette gradini, una cosa assurda, ma che conosco e di cui ho già sentito parlare in antichi testi.

E ho visto uno strano uomo avanzare verso di me nella pianura di fronte alle montagne, un uomo molto alto, grande, che mi ha detto qualcosa… adesso non sono sicuro di ricordarmi, ma mi ha detto qualcosa come “loro non possono raggiungerci, a meno che non siamo noi a volerlo” e che dovevamo sorvegliare che non lo facessero, perché c’è una legge che ce lo impone… o qualcosa del genere. Poi dietro di lui è comparso un altro essere mostruoso, nero, gigantesco, con due occhi rossi e due grandi ali nere…. Credo che fosse lo stesso essere mostruoso che Hermen Vanth e il suo amico mi hanno raccontato di aver visto in quella notte di plenilunio…. quella in cui hanno visto i fuochi del belk in cima al monte! Quella notte in cui siete fuggite in preda al terrore giù dal monte, da quello che siamo riusciti a capire, io e i miei amici».

La Regina Rossa: «Noi non eravamo in quel luogo quella notte, non ci siamo mai state. Nessuno della nostra comunità c’entra qualcosa con quello che è successo su Monte Leccio».

«Come sarebbe a dire? Lo scialle fatato che Maxtran Akapri ha trovato, e di cui una di voi ha chiesto la restituzione, mostrandogli l’ubicazione del santuario sotterraneo, e la coppa di legno che ha trovato Larsin Arayan, dimostrano entrambi che si trattava di un belk, una festa fatata del plenilunio! Come potete dire che voi non c’entrate niente?».
La Regina Nera: «Perché nessuna di noi è mai stata là! Quella festa non è stata organizzata da noi. Nessuno di noi vi ha partecipato. Da molti secoli nessuna Fata ha festeggiato il plenilunio lassù. Sono stati altri a farlo. Non siamo mica le uniche Fate che vivono nel Veltyan! Ci sono altre

LOVECRAFT 156: CONFRONTO FRA GLI ANTICHI DI DUNWICH E ALTRI ESSERI ALIENI

martedì 28 giugno 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 129° pagina.


«Non so che senso avrebbe farvi delle domande, dato che voi leggete nei miei pensieri come in un libro aperto».

«No, non è così.» soggiunse la Regina Rossa  «Noi non vediamo tutto quello che è nelle vostre menti. Riusciamo a leggere le vostre paure e i vostri desideri, i vostri sentimenti. Riusciamo anche ad avere la visione delle cose a cui pensate, se sono cose semplici e concrete. Sentiamo la vostra volontà, quando è forte e decisa. Vediamo la direzione verso cui camminate, ma i vostri pensieri più complessi e incerti o astratti, noi non li vediamo, non li comprendiamo. Sono troppo difficili ed estranei per noi. Quando voi ragionate sulle cose, quando formulate i vostri discorsi più lunghi ed elaborati, noi non capiamo. Spesso non capiamo neanche quello che ci dite».

«Però voi vedete il nostro futuro come vedete il presente».

«Non è esatto,» interloquì la Regina Bianca «noi vediamo il futuro come voi vedete il presente, cioè in modo molto confuso e incerto…».

«Quindi per questo dobbiamo porvi delle domande il più possibile precise…».

«Più precise sono, e meglio è per voi. Dipende soprattutto da voi» dissero tutte all’unisono.

«Cosa posso offrirvi in cambio delle vostre risposte?».

La Regina Rossa: «Il tuo aiuto. Noi aiuteremo te, tu aiuterai noi».

«In che modo? E perché?».

«Perché anche noi abbiamo paura. Come te. Forse tu credevi che chi conosce il futuro sia esente da paure. Ma come ti ha fatto capire mia sorella, noi non siamo onniscienti. Vediamo cose che voi non vedete, ma tante altre ci rimangono nascoste. E noi abbiamo paura proprio delle cose che non possiamo vedere, esattamente come voi. Tu hai paura perché sta succedendo qualcosa che non capisci, ma non credere che noi ne capiamo proprio tanto più di te. Per questo abbiamo bisogno del tuo aiuto».

«Ma perché proprio del mio? Perché non un altro?».

«Tu sei diverso dagli altri Uomini. Ci sono alcuni di voi che guardano oltre, più lontano. Gli Uomini vogliono spesso guardare più lontano, ma pochi ci riescono veramente. Tu sei uno di quelli. Tu vedi più lontano dei tuoi simili. È di un Uomo come te, che abbiamo bisogno».

«Solo per questo? Io non sono una persona potente, né influente. Non ho mezzi, se non la mia arte medica, e una certa cultura. Anzi, quelli come me sono invisi ai potenti del mio popolo. Seguo una religione diversa dalla maggioranza dei miei connazionali, vengo guardato con sospetto».

Le Triplice Regina rise all’unisono.

La Regina Nera: «Come se a noi importasse qualcosa, dei potenti fra gli Uomini!».

La Regina Rossa: «Non è forse vero che anche noi siamo invisi ai vostri potenti?»

La Regina Bianca: «Forse che non abbiamo anche noi una religione diversa da quella della maggioranza dei Thyrsenna?».

La Regina Rossa: «Ah, mio caro Velthur Laran, mio caro e sapientissimo dottore. Tu ti sottovaluti, tu non stimi te stesso come noi stimiamo te. Spesso noi conosciamo gli Uomini meglio di quanto conoscono se stessi, poiché noi conosciamo il loro Fato, mentre spesso loro no».

«Noi Uomini non conosciamo mai il nostro Fato, fino a quando arriva il nostro ultimo giorno».

La Regina Nera: «Oh, come sei melodrammatico! Lo sbaglio di voi Uomini è di credere che il vostro Fato vi venga da una forza esterna a voi, dagli Dei, o dalle misteriose forze della Natura che stanno sopra o sotto di voi, o dagli strani casi della Vita, non capite mai che in realtà il vostro Fato vi viene solo da dentro, dalle profondità del vostro essere, che sono sempre l’ultimo posto dove andate a cercare la Verità. Se lo faceste, comincereste anche voi a vedere il Fato come lo vediamo noi, forse anche meglio di noi, perché se noi vediamo cose che voi non vedete, anche voi vedete cose che noi non vediamo».

«Ed è per questo che dite di volere il mio aiuto?».
La Regina Bianca: «Eh, mio caro Velthur. Finalmente cominci a capire. Devi sapere che, anche se è vero che noi possiamo vedere molto lontano nello spazio e nel tempo, non possiamo vedere oltre questo mondo, e non possiamo vedere neanche ciò che entra nel nostro mondo provenendo da altri.

LOVECRAFT 155: LA MORTE DI WILBUR WHATELEY NE "L'ORRORE DI DUNWICH".

domenica 26 giugno 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 128° pagina.


Non ci fu bisogno che lo Gnomo gliele presentasse: erano senza alcun dubbio la Triplice Regina delle Fate delle Colline di Leukun.

«Su, che aspetti? Vai da loro, le Tre Madri del Fato ti attendono da tempo».

Velthur non se lo fece dire due volte. Anche se si sentiva ancora più intimorito, si sentiva anche straordinariamente eccitato, nel vedere che quel viaggio non era stato inutile, e che le Fate addirittura lo stavano aspettando.

«Come devo rivolgermi alle Loro Maestà? Non conosco il protocollo del vostro popolo».

«Il protocollo è una cosa per voi Uomini. Va da loro e aspetta che ti parlino».

Mentre si avvicinava alle tre sovrane, le altre Fate e gli Gnomi non si distraevano dalle loro faccende, né si avvicinarono o dimostrarono di provare interesse per la conversazione che ne seguì.

Le tre figure apparivano intente in un’attività insolita per delle regine: stavano filando una grande massa dorata fatta di quella che sembrava paglia.

Fra le molte cose che aveva letto o sentito dai racconti dei contadini, c’era anche la storia secondo cui le Fate, maestre nell’arte di tessere e filare, erano in grado di trasformare la paglia in un sottile tessuto, soffice come il cotone, semplicemente filandolo con le loro mani.

Quando si trovò di fronte a loro, poté osservare meglio i particolari della loro attività..

La Regina Nera passava la paglia tra le dita e questa sembrava sfilarsi ed ammorbidirsi in una tenue massa di sottili fili dorati, la Regina Rossa filava la matassa in un filo che arrotolava in gomitoli con una conocchia, e la Regina Bianca intesseva i gomitoli con uno strano strumento di legno che sembrava quasi una cetra, e che teneva sulle ginocchia.

Dalle sue ginocchia usciva questo strano tessuto fatato che ricordava l’elettro, la lega d’oro e d’argento tanto rinomata nel Regno Aureo, come un lungo tappeto che veniva raccolto in un rotolo avvolto su di un cilindro di legno.

Lavoravano come se la loro vita fosse tutta là, come se non avessero nient’altro da fare tutto il giorno.

Di tutte e tre, quella dall’aspetto più inquietante era proprio la Regina Bianca. Il pallore della pelle, il bianco candido dei suoi lunghissimi capelli, contornati dal velo e dalla tunica altrettanto bianchissimi, la facevano sembrare un fantasma.

Ma Velthur sapeva benissimo cosa rappresentava la scena che aveva di fronte. Tutto aveva un preciso significato, che lui conosceva bene.

La Triplice Regina non era altro che l’immagine terrena della Triplice Dea delle Fate e della stregoneria, la Grande Madre Ianarthi Trimusiakh, i Tre Volti del Fato, le Tre Signore della Vita e della Morte, Colei che intesseva incessantemente il Fato di ogni essere e di ogni cosa.

La Regina Bianca era la Dea Madre della Luce, la Regina Nera era la Dea Madre della Notte, cioè la sua immagine opposta, e la Regina Rossa era la Dea Madre del Crepuscolo, dell’Aurora e del Tramonto, della Penombra, il confine e la differenza tra le sue due sorelle.

La Regina Rossa era la spenta luce rossa che delimita il confine fra il visibile e l’invisibile, fra ciò che è pienamente illuminato e ciò che è avvolto dalle tenebre, fra il noto e l’ignoto. Colei che impediva che la Luce e la Notte travalicassero l’una contro l’altra, Colei che faceva da tramite fra l’una e l’altra. Colei che stava in mezzo a tutto, e dove tutto passava.

Così come la materia informe passava dalle mani della Notte, la matassa del filo passava dalle mani della Regina Nera nelle mani della Regina Rossa, per diventare un filo diritto nelle mani della Luce, la Regina Bianca, che lo intesseva nella struttura dell’esistenza.

Quella struttura megalitica era una reggia e un tempio: le tre colonne rappresentavano i sostegni del mondo, rappresentato dalla straordinaria lastra di pietra sulle loro teste.

A cosa servisse la stoffa che intessevano Velthur però non lo sapeva.

La Regina Bianca parlò.

«Il tessuto che produciamo ogni giorno va a tutto il nostro popolo, diviso in parti eguali. Serve a fare i loro vestiti».

«Non hai niente da chiedere, Velthur Laran?» gli disse la Regina Nera.

LOVECRAFT 153: IL MISTERO DI WILBUR WHATELEY IN "DUNWICH"

sabato 25 giugno 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 127° pagina.


Poi, improvvisamente, vide tutto cambiare attorno a sé, e la vita segreta del bosco delle Fate, o meglio la loro città di alberi e piante, gli si rivelò.

Tutt’intorno a lui, comparvero le dimore del popolo delle Fate, basse e larghe cupole di rami intrecciati su cui i rampicanti erano cresciuti creando mura di verde vivo, e in cui si aprivano piccole finestre rotonde e porte a semicerchio.

Il popolo delle Fate comparve del pari presso le case fatte di piante, femmine e maschi tutti ugualmente di un pallore spettrale, i capelli bianchissimi, a volte ondulati, a volte ricciuti, tutti con i loro grandi occhi neri e a mandorla, in cui brillavano le pupille come stelle d’oro, e che davano sguardi distratti, ma non meno inquietanti, a Velthur.

Stranamente, i maschi erano generalmente un po’ più bassi delle femmine, che apparivano comunque anch’esse di bassa statura. Tutti però erano vestiti di varie tonalità di verde: dal verde scuro al verde erba, al verde smeraldo, fino al verde oliva, con lunghe e semplici tuniche strette in vita da cinture di corda di vari colori.

Si sapeva che le Fate erano ancora più matriarcali dei Thyrsenna, e quindi non c’era da stupirsi che le femmine fossero più alte dei maschi, come anche dimostrava il fatto che di esse si parlasse usando il genere femminile, come per le api e le formiche.

Anzi, le antiche cronache del Veltyan dicevano che era per causa loro, che gli Uomini del Regno Aureo erano diventati un popolo dalle tradizioni matriarcali.

Quando gli antenati dei Thyrsenna si erano stabiliti nel Veltyan pochi anni dopo il Diluvio, fuggendo dalle lontane terre australi a bordo dell’Arca di Manowa, avevano incontrato le Fate che erano sopravvissute al grande cataclisma in cima alle Montagne Albine, e il popolo fatato aveva insegnato molte cose alle Madri dei Thyrsenna, così che la loro società, che prima del Diluvio era stata patriarcale, si era profondamente trasformata.

Quell’epoca era ricordata dalle leggende popolari come un’epoca felice, in cui Uomini e Fate convivevano insieme come fossero un unico popolo. Velthur però dubitava che quell’epoca fosse mai veramente esistita.

«Così è vero quello che ho letto nei miei libri. Il popolo fatato ha il potere di creare qualsiasi illusione agli occhi degli Uomini, così da nascondersi completamente e senza possibilità alcuna di venire scoperti!».

«Ne dubitavi, forse?».

«No, sinceramente no. Ma un conto è sentirne parlare, un conto è vedere».

«Stai per vedere e sentire molte altre cose di cui hai sentito parlare, e penso alcune altre di cui non hai mai udito niente, neanche dal tuo sapiente amico Prukhu. Guarda dietro di te, chi ti stava aspettando!».

Sentendo il nome di Prukhu, il dottore si volse di scatto aspettandosi di vederlo, ma il suo sguardo incontrò qualcosa di molto più sorprendente.

Ora guardava la radura al centro del cerchio di megaliti, ma la vedeva completamente diversa anch’essa dopo che il velo dell’illusione era stato rimosso dai suoi occhi, con qualcosa che strabiliava per la sua magnificenza.

Al centro della radura c’erano altri tre megaliti alti più di tre metri, come tre colonne di pietra: uno bianco come il marmo, l’altro rosso come l’arenaria, e il terzo nero come l’ardesia. Disposti a triangolo equilatero, sorreggevano un’enorme lastra di pietra circolare, larga almeno otto metri, dai bordi arrotondati come tutti gli altri megaliti, come un gigantesco sasso di fiume appiattito, di colore verdazzurro tenue.

Come si fosse stati capaci di erigere una simile primordiale meraviglia in cima al colle, in mezzo a un bosco, era un mistero assoluto. Un mistero dovuto alle arti magiche delle Fate, custodite nella più totale segretezza da esseri come lo Gnomo con cui stava parlando.

E sotto la lastra di pietra, proprio in mezzo ai tre megaliti, stavano sedute su scranni di pietra scavata tre figure femminili, coperte da un lungo velo. Ognuna di loro era vestita di un colore diverso: una di nero, un’altra di rosso, e la terza di bianco.

LOVECRAFT 152: LA FAMIGLIA WHATELEY IN "L'ORRORE DI DUNWICH".

mercoledì 22 giugno 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 126° pagina.


serpentini ossessivamente ripetuti. Il simbolo della spirale era quello più legato al mondo delle Fate, così come anche quello del trifoglio, del triangolo, del serpente e delle api, simboli di vita potente ed inesauribile. Era una delle poche cose che si sapevano con certezza delle Fate, come anche quanto era importante il culto del Caprone Nero, il Dio invocato nel belk, simbolo della forza prorompente e vitale della Natura, la cui figura appariva anch’essa incisa sulla sommità di quasi tutti i monoliti.

Tutte cose che generavano diffidenza ed avversione nel potente clero del Veltyan.

Al centro del grande cerchio c’era una piccola radura che appariva trasfigurata dai raggi di sole del mattino che penetravano tra gli alberi. Un luogo bellissimo e apparentemente del tutto vuoto.

Nessuna traccia di Fate.

Velthur sospirò. Forse proprio non volevano incontrarlo. L’unica cosa che poteva fare era sedersi là in cima al colle e aspettare.

C’era una roccia più piccola, vicino a uno dei monoliti, anch’essa incisa, ma non alta e dritta, bensì più larga e alta poco più di mezzo metro, coperta di muschio verde scuro ma dai riflessi brillanti, che sembrava adatta come sedile. Forse era davvero un sedile.

Guardandolo, a Velthur parve una figura umana accovacciata.

Si sedette contento di avere trovato un sostegno così confortevole.

Ma si accorse subito che c’era qualcosa che non andava.

L’impressione divenne certezza quando sentì una voce cavernosa che veniva da sotto di lui, una voce irosa.

«Togli immediatamente il tuo deretano dalla mia schiena!».

Si rialzò di scatto, spaventatissimo, come se si fosse accorto di essersi seduto sui carboni ardenti.

La roccia si mosse e uno sguardo dai grandi occhi completamente neri, con due malefiche e grandi pupille dorate e brillanti, lo fissò in modo maligno.

La roccia era veramente un essere accovacciato, e il manto di muschio che la ricopriva era in realtà un vellutato mantello verde scuro, che con il suo cappuccio nascondeva la testa dell’essere, che si rialzò lentamente, sostenendosi su di un bastone di legno inciso.

«Non guardarmi con quella faccia, Uomo! Io sono uno dei guardiani della nostra città. So che sai che cosa io sono!».

L’essere stava ora dritto di fronte a lui, e si abbassava il cappuccio per far vedere il suo volto.

Aveva l’aspetto di un uomo molto basso di statura, dal pallore spettrale, con una lunga barba bianchissima e ondulata, in testa aveva una capigliatura corta e ricciuta, altrettanto bianchissima, dai riflessi quasi indaco, due sopracciglia appuntite e folte sopra i due grandi occhi a mandorla, e due orecchie dai lobi incredibilmente allungati.

I suoi lineamenti, quanto mai strani, con un che di caprino come quelli dei Sileni, ma molto più delicati e regolari, non mostravano i segni dell’età. Associati con quella barba bianca e quegli occhi simili a due abissi neri in cui brillavano due grandi stelle dorate, avevano qualcosa di estremamente inquietante, come vedere un bambino a cui fosse cresciuta la barba di un vecchio e con gli occhi di un demone.

Velthur sapeva di trovarsi di fronte a un maschio di Fata, uno dei cosiddetti Gnomi, il cui nome significava “i Sapienti”. Di loro si sapeva ancora di meno che delle Fate, perché avevano ancora meno contatti con gli Uomini delle loro compagne.

Una delle poche cose che si sapeva, era che il loro compito era quello di sorvegliare e proteggere le dimore del popolo fatato, e di custodirne il sapere e le tradizioni. Se li si contrariava, si andava di sicuro incontro a guai seri, più che si andasse contro una Fata.

«Contavo di farti aspettare un po’ prima di rivelarci a te, ma non mi andava di lasciarti usare la mia schiena come sedia. Voi Uomini siete così grossi e pesanti… perciò adesso decido di rimuovere il Velo delle Fate dai tuoi occhi».

Lo Gnomo alzò la mano sinistra con l’indice e il medio protesi, e Velthur sentì come una leggera pressione sulla fronte, e un vago giramento di testa, a tal punto che per un momento pensò ai postumi di quel maledetto calice di vino fatato della sera prima.

LOVECRAFT 150: "IBID" E "L'ORRORE DI DUNWICH".

martedì 21 giugno 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 125° pagina.


«Prendete il sentiero dietro la nostra casa, e seguitelo fino in cima al colle. Là le troverete» gli spiegò Harali.

S’incamminò deciso. Aveva timore di ciò che avrebbe potuto scoprire, ma proprio per questo voleva affrettarsi a risolvere la questione una volta per tutte, se era possibile.

Il sentiero saliva con brevi tornanti, in mezzo a un bosco luminosissimo, dove la luce sembrava filtrare ovunque e diventare di una tonalità quasi spettrale.

Si sentiva che quel bosco aveva qualcosa di insolito, così come ce l’avevano i boschi di Monte Leccio. Ma mentre là gli alberi apparivano scuri e minacciosi nelle forme, e non si udivano suoni né segni di vita, là tutto sembrava di una vitalità intensa e rigogliosa.

Gli alberi erano di un verde estremamente brillante, e così l’erba che ricopriva foltissima il sottobosco.

Noci, castagni, gelsi, noccioli, mandorli, meli costituivano la flora del luogo, come in un gigantesco frutteto naturale.

Sul terreno si vedevano numerose piante di mirtillo rosso e nero, lamponi, ribes, rovi con more che stavano maturando, rose canine, fragoline di bosco e altre bacche, e persino alcune piante di zucca, come se il sottobosco fosse un gigantesco orto di frutti di bosco e vari ortaggi selvatici.

Nulla di stupefacente per Velthur. Sapeva che era una delle massime arti delle Fate, quello di coltivare il bosco come gli Uomini riescono a coltivare un campo, anzi meglio, perché loro non avevano bisogno di abbattere nessun albero.

Sembrava che avessero il potere di guidare la crescita delle piante a proprio favore, facendo prevalere le specie che potevano produrre nutrimento o materiali utili, senza bisogno di arare o strappare le erbacce.

Attaccate agli alberi si vedevano strane rozze arnie di corteccia, in gran numero, e il ronzìo di milioni di api accompagnava il visitatore come un sinistro, ronzante sottofondo musicale in ogni anfratto del bosco.

Tutta la foresta fremeva di una vita segreta, che sembrava dover esplodere da un momento all’altro in uno scoppio di energia vitale.

Ma la cosa più strana del bosco fatato erano le grandi rocce che spuntavano qua e là. Grandi, verticali e massicce, levigate e arrotondate come pietre di fiume, sicuramente non erano state piazzate là dalla natura. Anche perché presentavano tutte delle incisioni sulla superficie liscia, perlopiù complesse immagini geometriche, e qualche figura stilizzata di animali e piante.

Che cosa potessero voler dire quelle figure, e a che scopo fossero stati messi lì quei monoliti, Velthur non lo sapeva. Nei suoi libri a volte si accennava alle iscrizioni delle Fate sulle rocce, ma non se ne dava la spiegazione, perché nessuno ne sapeva niente, se non quegli Uomini che seguivano anch’essi i culti misterici delle Fate, e che erano legati da un giuramento a non rivelarne niente.

Ogni tanto Velthur si fermava per non stancarsi troppo e per osservare il paesaggio attorno, per capirne i particolari anomali, nella speranza di cogliere una presenza senziente. Ma le uniche forme animate erano gli uccelli che cantavano ininterrottamente sugli alberi e gli scoiattoli che correvano arrampicandosi sugli alberi, oltre a una grande quantità di farfalle e di api. Di Fata non se ne vedeva neanche una.

Ma lui sapeva che loro lo stavano osservando. E che lui avrebbe anche potuto cercarle per tutto il bosco, su tutte le colline e non ne avrebbe mai visto neanche una,.se loro non volevano farsi vedere. Apparire era sempre e comunque una decisione esclusivamente loro. Per questo le Fate non potevano essere combattute o catturate dagli Uomini. Se avessero voluto, avrebbero potuto rendersi per sempre invisibili a tutti quanti, senza alcuna possibilità di venire scovate.

Se non si voleva avere a che fare con loro, era inutile cercare di scacciarle o respingerle, l’unica cosa era cercare di evitarle o di ignorarle.
Dopo quasi un’ora giunse alla fine all’ampia sommità arrotondata del colle. Un grande cerchio di monoliti delimitava la cima, per una larghezza di almeno duecento metri. Alti almeno tre metri, sembravano un cerchio di Giganti pietrificati. Su di essi si vedevano giochi di spirali e di arabeschi

LOVECRAFT 149: ANCORA SULLA STORIA DEL "NECRONOMICON"

lunedì 20 giugno 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 124° pagina.


«Alle volte vorrei avere un’istruzione, poter leggere tanti libri e conoscere il mondo fuori dal villaggio, ma non saprei a chi rivolgermi, dove andare. Mia nonna mi ha insegnato a leggere e scrivere, ma qui non ci sono molti libri. Non saprei neanche dove comprarli».

«Ve li potrei fornire io. Che libri vi piacerebbe leggere?».

«Non so neanche che libri potrei leggere. Mia nonna tiene alcuni libri religiosi, mi ha fatto leggere il Tinsina Entinaga, e un poema antico sulla Prima Regina e le sue battaglie per fondare il Regno Aureo….».

«Sì, l’Avilna Thesanal, Gli Anni del Mattino. È la prima opera poetica che i bambini imparano a scuola. Vi piace la poesia?».

«Sì, credo proprio di sì. Penso che mi piacerebbe leggere un libro di poesie».

«Quando torno a casa, ve lo farò avere».

«Tanto, non credo che voi vi farete vedere ancora da queste parti».

«Non è detto. Ammetto che qui è un po’ fuori mano per chi sta ad Arethyan, ma non siamo neanche lontanissimi. Voi non uscite mai dal villaggio?».

«Beh, a volte vado al mercato di Aminthaisan con i miei parenti».

«E ad Arethyan, ci siete mai stata?».

«No, mai».

«Vi piacerebbe venire una volta o l’altra, ed essere mia ospite?».

«Io…. sì. Mi piacerebbe molto».

«Allora, quando volete, la mia porta è aperta per voi. Così potrò ricambiare la vostra gentilezza».

Velthur la vide arrossire, e sorridere come non aveva mai fatto prima da che l’aveva vista per la prima volta.

Finito di mangiare, Velthur chiese di poter tornare a letto e le augurò la buona notte.

Il giorno dopo, voleva subito andare al bosco delle Fate, per poter incontrarsi con loro.

Riuscì a dormire, ma verso il mattino fece dei brutti sogni, confusi e sgradevoli, che non riuscì neanche a ricordarsi quando si svegliò, richiamato dal bussare alla porta della sua camera.

La figlia maggiore della matriarca lo chiamava a consumare la colazione assieme agli altri membri della famiglia.

La donna sbirciò dalla porta, chiedendogli se stava bene, e che era molto dispiaciuta del fatto che il vino fatato gli avesse fatto così male.

Velthur le disse di aspettare un attimo, che si infilasse i suoi vestiti, poi uscì dalla camera chiedendo dove potesse lavarsi un poco.

Mentre la donna lo conduceva alla fontana accanto alla casa, il dottore le disse che, se davvero erano dispiaciuti di quello che era successo, di non offrire mai più ad alcun ospite il vino fatato.

Gli rispose che sua figlia Harali gli aveva raccontato cosa si erano detti la sera prima, e gli promise che non l’avrebbero più fatto.

Velthur non ci credeva, ma in fin dei conti sapeva che non poteva farci niente. Chissà quanti otri di vino drogato c’erano in quel paese degradato, vino fatato che scorreva a fiumi nelle notti di plenilunio, consumato insieme dalla gente del paese, la gente del bosco e dai visitatori che venivano di nascosto a partecipare ai culti misterici e a farsi praticare la divinazione dalle Custodi del Fato.

Sethir sembrava sinceramente dispiaciuto. Disse che non aveva mai visto uno urlare ed agitarsi subito come aveva fatto lui, e gli chiese cosa avesse visto di così spaventoso.

Gli rispose che aveva visto dei mostri orribili che neanche voleva ricordare, senza aggiungere particolari.

Non voleva perdersi a descrivere i particolari delle sue visioni, che senz’altro ricordava molto bene e che l’avevano impressionato, perché non aveva voglia di discorrere ancora con il vecchio furbacchione.

Eppure un particolare lo ossessionava con il suo ricordo. Quello dello strano, gigantesco uomo dai grandi occhi neri che gli aveva detto quella frase apparentemente priva di senso.

Fece colazione rapidamente, salutò i suoi ospiti e chiese loro la strada per raggiungere le dimore delle Fate nel bosco.

LOVECRAFT 148: STORIA DEL "NECRONOMICON" O "AL AZIF"

domenica 19 giugno 2016

LOVECRAFT 147: LA TRAMA DE "L'ANTICA GENTE DEI MONTI".

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 123° pagina.


La ragazza, dall’aspetto per niente attraente, pareva timida e imbarazzata, ma nello stesso tempo pareva piacevolmente interessata al dottore, tanto che Velthur si aspettava che gli chiedesse di passare il resto della notte con lei.

Velthur pensò che se glielo avesse chiesto, magari le avrebbe detto di sì. Le bruttine non le dispiacevano, ed era parecchio tempo che non giaceva con una donna. Pensò che mescolare il sangue di quella gente con il proprio non sarebbe stato un male, nella speranza di rinvigorire un poco quella gente isolata che chiaramente era segnata da troppi accoppiamenti fra consanguinei.

Ma lei non si spinse a tanto, e per il galateo dei Thyrsenna, era sempe la donna a dover fare l’invito per prima, e quindi Velthur non ci provò neanche. Tra l’altro, non sarebbe stato dell’umore giusto.

«Quando avete gridato… avete visto qualcosa, vero? Il vino di frutti di bosco provoca visioni. È per questo che lo si beve…».

«Voi l’avete mai bevuto? A me ha fatto venire delle allucinazioni spaventose. Anche molto belle, ma con particolari orrendi e terrificanti. Ho visto dei veri e propri mostri…. è per quello che ho urlato. State sicura che non lo berrò mai più, e che non salti in testa a vostro zio di offrirmelo di nuovo, o non avrò rispetto della sua bianca barba!».

«Mi spiace…. Non vorrei che per questo voi non voleste più avere a che fare con noi. Sarebbe il primo visitatore a non rimanere soddisfatto della nostra ospitalità».

«Ma no, non ce l’ho con voi, ma solo con la leggerezza di vostro zio. E vi do un consiglio medico: non bevete più quella roba e non offritela più a nessuno. Fa male alla salute, e rischia di farvi diventare pazzi. Avete capito?».

«Io l’ho bevuto una sola volta, e ha dato anche a me visioni brutte e incubi. D’allora non ho più voluto assaggiarlo».

«E avete fatto bene, perché così avete dimostrato di essere più sensata di vostro zio! Se proprio non volete buttarla via, vendetela a qualche sacerdote!».

Harali rise.

«Non amate molto neanche voi i sacerdoti, vedo! Non li ama neanche mio zio, e tanti altri da queste parti»

«Sapete quanti kametheina etariakh commerciano in birra verde, birra all’assenzio? Se vendete il vino fatato ad uno di loro, gli fate un favore! Comunque sì, non amo i sacerdoti. Io sono un Avennar, perciò non posso guardare di buon occhio quella gente».

«Cos’è un Avennar?».

«Oh, lasciate stare…. qua non ce ne sono. Credo di essere l’unico Avennar da qui fino ad Enkar. Comunque, gli Avennarna sono i seguaci di una religione che non segue il culto di Sil».

«Come le Fate, i Sileni e le streghe, che seguono altri Dei? Seguite Dei stranieri?».

«No, non seguiamo nessun Dio o Dea. È troppo difficile da spiegare. Perdonatemi, non amo parlare della mia religione. Mi ha già procurato abbastanza guai. Sappiate comunque che spesso abbiamo dovuto subire persecuzioni da parte dei sacerdoti di Sil».

Harali sembrava interessata all’Aventry, di cui non aveva mai sentito parlare. Velthur provò a spiegarle i princìpi fondamentali della sua religione, cioè la dottrina della reincarnazione e del principio primo e impersonale di tutte le cose, l’etica della razionalità e del controllo delle emozioni e degli istinti, il concetto di evoluzione dello spirito attraverso le varie reincarnazioni per raggiungere la perfezione finale e la liberazione dal mondo fisico, la venerazione per i Santi, cioè quegli uomini e donne dell’Aventry che avevano dimostrato le più alte virtù in vita e che si credeva avessero conquistato perciò la perfezione nell’aldilà e perciò la liberazione dal ciclo delle rinascite..

«Voi siete la prima persona che sembra sinceramente interessata alla mia religione e che sembra capirla, fra la gente di campagna. È strano, perché è una religione per la gente di città….».

Velthur avrebbe voluto dire “per persone con una certa istruzione e non per analfabeti”, ma si guardò bene dal dire qualcosa di offensivo con quella ragazza che cercava solo di essere gentile con lui, e che era affascinata da lui probabilmente proprio perché aveva una cultura, e apparteneva ad un mondo dal quale era esclusa per nascita.
«Alle volte vorrei avere un’istruzione,

sabato 18 giugno 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 122° pagina.


Poi, mentre guardava incantato quella visione incredibile, sentì le grida. Non erano grida umane, parevano grida di uccelli ma con qualcosa di vagamente umano, e ripetevano un suono acuto, che suonava come “tekeli-li”. Poi li vide, che volavano a stormi nel cielo rosso e purpureo sopra di lui, verso la montagna dalle sette balze.

Erano enormi uccelli che sembravano essere gabbiani, bianchissimi, ma con il becco e le zampe di un rosso sangue.

Poi guardò di nuovo verso il basso, verso la pianura, e vide una figura umana che gli si avvicinava. Un uomo molto alto e possente, con una folta capigliatura e una grande barba nere, che avanzava vestito di poveri abiti invernali e grigi e con un bastone in mano. Sembrava un Gigante, ma non era altrettanto alto.

A quel punto Velthur cominciò a sentire di nuovo l’angoscia e il terrore pervaderlo più che mai. Mentre quell’uomo avanzava, sentì un orrendo presentimento, come se la vera minaccia fosse rappresentata proprio da lui.

Lo sconosciuto si fermò proprio di fronte a lui, fissandolo con i suoi grandi occhi scurissimi, neri come la sua barba e i suoi capelli, che contrastavano sinistramente con il suo colorito pallidissimo, di un biancore quasi lunare, cadaverico. Il bianco pallore del terror panico.

E l’uomo parlò fra le grida degli uccelli, e disse una frase senza senso.

«Loro non possono raggiungerci, a meno che non siamo noi a volerlo. Dobbiamo sorvegliare che nessuno li lasci entrare. Sempre. È questa la legge che ci governa».

Non appena ebbe finito di parlare, dietro di lui, proprio alle sue spalle, emerse dal basso un’altra figura, nera, gigantesca, indistinta, una sorta di fantasma nero con due grandi occhi rossi e tondi, luminosi come braci ardenti, dalle cui spalle si aprirono due enormi ali nere.

A quel punto Velthur lanciò un urlo, e crollò a terra di fronte all’entrata.







CAP. XIII: LE TRE MADRI DEL FATO



Velthur era furioso. Non tanto contro Sethir, ma contro se stesso. La curiosità aveva avuto la meglio sul suo buon senso, e aveva bevuto quella roba senza avere la minima idea di cosa stava assumendo.

Quella gente ignorante che viveva in quella zona depressa del paese finiva con l’avvelenarsi con porcherie fatte con erbe intossicanti e frutto di fermentazioni nocive, e i visitatori dovevano stare attenti a non assumere le loro pessime abitudini.

Il peggio era che spesso tutto questo aveva delle giustificazioni religiose. Colpa delle streghe, le sciamane di campagna che assumevano sostanze allucinogene per avere contatti e rivelazioni dal mondo degli spiriti della natura e da quello degli spiriti dei defunti. Così la gente si intossicava poco per volta, sviluppava malattie e spesso finiva per impazzire.

Quando si era svegliato, era notte fonda e si era ritrovato in un letto, con una delle donne più giovani della famiglia che lo stava vegliando, e che dopo avergli chiesto come si sentiva, si scusò con lui per suo zio.

«Mio zio Sethir offre sempre un calice di vino fatato agli ospiti. In genere li rende allegri, non si aspettava che vi facesse tanto male. Nessuno è mai caduto a terra svenuto con una sola coppa, come è successo a voi. In genere, ce ne vogliono almeno due, e lui non permette mai che nessun ospite arrivi a tanto E poi quell’urlo spaventoso che avete lanciato prima di cadere…. ci siamo veramente spaventati tutti. Siete sicuro di sentirvi bene, adesso?».

«A parte un notevole mal di testa, mi sento bene. Ho anche fame. Magari se mangio qualcosa, il mal di testa mi passa».

«Venite, allora. Vi preparo qualcosa da mangiare. Gli altri sono andati quasi tutti a letto, ormai».

La ragazza, che si chiamava Harali, gli preparò una zuppa di legumi, cereali e pollo e delle fette di pane nero che effettivamente gli fecero passare il mal di testa.

LOVECRAFT 146: HALLOWEEN, WALPURGA E LA STREGONERIA

venerdì 17 giugno 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 121° pagina.


fino all’orizzonte, dove un gigantesco sole rosso brillava sopra una distante catena di montagne, come un grande arco di ombre viola, che delimitava quel prato infinito che era ricoperto solo di fiori rossi, miliardi e miliardi di fiori rossi. Non era la Valle dei Gigli, ma una terra sconosciuta.

In quel momento, mentre Velthur comprendeva di vivere un’incredibile allucinazione, si ricordò dove aveva sentito quell’aroma e quel sapore amarognolo che avvertiva nel vino fatato.

Assenzio, si disse. Quelle maledette mettono assenzio fermentato nel loro vino, e per questo provoca allucinazioni. E ci dev’essere anche qualcos’altro, un elemento segreto…. se è questo che la gente beve alle loro feste, non c’è da stupirsi che impazzisca. Maledette.

Poi la visione cambiò rapidamente. Il sole calò improvvisamente, nel giro di pochi secondi, e sullo sfondo del cielo che diveniva sempre più rosso e cupo, comparve una sorta di figura nera, una macchia che assunse la forma come di una porta, un arco di pietra che divenne prima grigia, poi bianca, di un biancore lunare, spettrale. Una porta aperta sul buio. Era come si sulla pianura di luce rossa si fosse aperta una porta sulla notte, o forse una galleria nera.

Sembrava una bocca pronta ad ingoiare chiunque vi fosse passato accanto.

A quel punto, vedendo quella porta spalancata sul vuoto nero, Velthur cominciò a sentire angoscia, un’angoscia immensa ed irrazionale. Sapeva che dalla porta nera stava per uscire qualcosa che non aveva nome, qualcosa di spaventoso. E infatti gli parve di vedere emergere qualcosa dal buio, una figura grigia vagamente umana, che gli dava l’idea di essere altissima, e che aveva due particolari mostruosi: sulla testa aveva un unico occhio bianco e rosso, enorme, che gli occupava quasi tutto il volto senza tratti, e al posto della capigliatura aveva un cespuglio di serpenti che si agitavano come un cumulo di lunghi vermi neri su di un corpo in decomposizione.

Stava quasi per urlare, quando la visione cessò. Per qualche istante gli si annebbiò la vista, poi tutto sembrò tornare quasi normale. Fuori dalla finestra vide di nuovo le colline, gli alberi, le case e i campi nella stretta valle con la strada lastricata che serpeggiava verso nord, ma la luce del sole manteneva un colore anormalmente rosso.

Si voltò indietro e guardò il vecchio che sogghignava con quell’aria furba. Avrebbe voluto prenderlo a pugni.

«Mi avete drogato! Questa roba contiene assenzio!».

«Solo un poco, solo un poco, dottore. La ricetta è segreta, non so quante altre erbe ci sono dentro. Diventa rischioso se se ne beve più di un calice, lo dicono sempre le Fate agli Uomini che invitano alle loro feste. Vedrete, poco a poco l’effetto passerà e non vi sentirete male. Avete visto qualcosa di strano, per caso? A volte succede. Non a tutti, ma a molti sì. Si hanno visioni preveggenti, visioni bellissime, a volte».

Alterato dal vino, Velthur cominciò a urlare.

«Mi hai drogato, maledetto vecchio! Ho visto qualcosa di orribile, di spaventoso! Non voglio più bere questa roba!».

«Vi passerà, dottore. Sedetevi e rimanete calmo, guardatevi attorno…. vi piacerà, vedrete».

«Non mi piace affatto, invece! Mi hai teso una trappola! Lasciatemi andare, non voglio le vostre droghe!».

Si avviò barcollando verso la saletta d’entrata, con la sua bisaccia in spalla, deciso ad uscire da quella casa e nascondersi da qualche parte in attesa che l’effetto del vino drogato finisse.

Ma appena aprì la porta, fu di nuovo assalito dalle allucinazioni.

Come quando aveva guardato fuori dalla finestra, anche dalla porta gli appariva un paesaggio estraneo ed irreale.

Di nuovo c’era la luce rossa che pervadeva il cielo, ma più cupa. Di nuovo c’era una vasta pianura, ma non c’era più la distesa di fiori rossi. Ora c’era solo una brughiera sconfinata, che di nuovo finiva di fronte a una catena di montagne innevate, ma più basse e più vicine, a parte una, svettante, altissima e simile a una torre. Anzi, sembrava essere proprio una torre, perché appariva scolpita a forma di torre a cono tronco, costituito da sette diversi gradini. L’immagine era particolarmente irreale anche perché in cima alla montagna scolpita, oltre le nevi che coprivano il penultimo gradino, si intravedeva come una foresta verde che cresceva sulla cima piatta.

LOVECRAFT 145: L'ANTICA GENTE DEI MONTI

giovedì 16 giugno 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 120° pagina.


Sethir era quello che nella tradizione contadina si chiamava “grande zio”, cioè il fratello più vecchio della matriarca della famiglia, il corrispettivo del patriarca in una famiglia fondata solo sulla linea femminile.

Non aveva mai lasciato la sua famiglia materna, aveva praticato il “matrimonio notturno” con due donne di un’altra famiglia e non aveva seguito l’educazione dei suoi pur numerosi figli, mentre aveva dedicato tutto il suo impegno all’educazione dei figli delle sorelle e delle nipoti.

Un contadino thyrseniakh vecchio stampo, che viveva secondo le tradizioni più antiche del Veltyan.

D’altra parte, in quel luogo il tempo sembrava essersi fermato a diversi secoli prima.

La matriarca, una donna curva sotto il peso di una vecchiaia precoce, causata dalla troppa fatica, lo accolse benevolmente chiedendogli subito consigli per la sua schiena.

Velthur le promise di inviarle un rimedio alchemico contro il dolore non appena fosse tornato ad Arethyan. Velthur pensò che sarebbe stata una buona cosa farsi delle amicizie in quel luogo quasi dimenticato dagli Dei, per avere un aggancio con chi poteva dargli tante informazioni utili.

Non si sapeva cosa avrebbe portato il futuro, e considerava la possibilità di dover tornare là altre volte. Anzi, ne era quasi sicuro.

In attesa della cena, Sethir gli presentò la sua numerosa famiglia, i fratelli e le sorelle, i nipoti e i pronipoti, uno stuolo chiassoso e confusionario, in cui si vedevano alcune tare tipiche delle unioni fra consanguinei, forse addirittura di incesti. Eppure, anche se non pochi membri sembravano vittime di minorazioni mentali, un’aria di prosperità e di serena allegria sembrava dominare in casa.

Una casa dove si vedevano oggetti quanto mai strani. Oggetti che parevano avere un’origine fatata.

Su di una mensola della grande cucina, infatti, Velthur notò un calice di legno meravigliosamente inciso il cui interno era di un colore blu-purpureo

Si accorse che era uguale identico a quello che Larsin aveva trovato su Monte Leccio. A lui non era ancora arrivata una Fata che si fosse presentata di fronte a casa sua, richiedendone la restituzione, come era successo a Maxtran Akapri.

«Quello è un calice delle Fate. Ve l’hanno regalato loro?».

«No, ce l’ha dato un Sileno. Un parente di Prukhu, guarda caso. In cambio di un cesto di mele. Ci bevo il vino di frutti di bosco fatto dalle stesse Fate. Volete assaggiare?».

Indicò un otre di terracotta con un piccolo rubinetto di bronzo, in un angolo della cucina.

«Perché no? Grazie. Non ho mai avuto occasione di assaggiarlo».

Sethir gli riempì il calice di legno fino all’orlo. Troppo, per Velthur. Non sapeva cosa ci avessero messo, ma sarebbe stato troppo scortese rifiutare.

Era proprio di un colore blu-porpora, e il suo aroma, oltre che di mirtilli e di more, profumava di resina di pino e di qualcosa di indefinibile, sicuramente un’erba, ma non avrebbe saputo dire quale.

Lo sorseggiò e lo trovò gradevole, per fortuna meno forte di quanto si aspettava.

L’effetto fu quasi immediato. Non era il semplice stordimento dell’alcool, ma qualcosa di molto più intenso. Gli sembrava di galleggiare a mezz’aria e di non sentire più il suo corpo.

Temette di essere stato drogato.

Si guardò attorno, e gli sembrò di vedere il mondo con occhi nuovi, come se lo vedesse per la prima volta. Nulla di ciò che vedeva gli appariva familiare. Era come se la casa attorno a lui fosse stata rovesciata come un guanto.

Sethir rise, ma la sua risata gli arrivò come lontana e vibrante, incupita e alterata.

«All’inizio fa uno strano effetto, ma poi ci si fa l’abitudine. Il mondo ti sembra migliore, dopo. Vedrete, vi piacerà sempre più».

Lo sguardo di Velthur si posò su una delle finestre della cucina, verso la luce calante del sole. Il rosso del tramonto sembrò diventare molto più acceso, di uno scarlatto come mai l’aveva visto. La luce rossa sembrava invadere la stanza, posarsi sui volti di Sethir e dei suoi parenti, trasfigurandoli. Barcollando, si avvicinò alla finestra, domandandosi se quello che vedeva era frutto del vino, o se davvero il tramonto stava incendiando il mondo come un diluvio di sangue infuocato.
Guardò fuori dalla finestra dai vetri sporchi e quello che vide non aveva alcun senso. Non c’erano più le Colline di Leukun, né la strada, né i boschi. C’era solo una pianura senza fine, che si stendeva

LOVECRAFT 144: LA CONCLUSIONE DE "IL COLORE VENUTO DALLO SPAZIO"

mercoledì 15 giugno 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 119° pagina.


«Macché! Si sa che le Fate non vogliono avere niente a che fare con le leggi e i governi degli Uomini. La verità è che la nostra alkati è una strega, e perciò ha commercio con loro».

«Ah, però…. Un’alkati strega che ha rapporti con le Fate…. saranno contenti i sacerdoti del paese».

«I sacerdoti? Sono molto amici delle Fate anche loro. Non lo danno a vedere, ovviamente, ma anche loro vanno a chiedere consulti. Come ho detto, vengono anche sacerdoti, qua. Uno lo vedo ogni tanto spesso. Un eremita di Monte Leccio… un tipo strano».

«Intendete dire il Reverendo Padre Aralar Alpan?».

«Sì, credo…. cioè, lo conosco solo di vista, ma so che vive a Monte Leccio, e su di lui circolano parecchie chiacchiere. Per esempio, che partecipi al belk. I nostri sacerdoti dicono che appartiene a una setta misterica, e che è un uomo di grande sapienza. Un alchimista di quelli tosti, pare».

Velthur si sentì fortunato. Aveva trovato un chiacchierone che gli avrebbe fornito probabilmente molte interessanti informazioni.

«Un po’ lo conosco anche io. Ma molto poco. Sono passato per il suo eremo su Monte Leccio, per puro caso. Anche là le Fate si riuniscono per il belk da qualche tempo, pare. Non si capisce perché, dato che non ci sono mai state Fate lassù, se non forse in un lontano passato, a sentire certe leggende».

«Allora è per quello che si è stabilito lì, forse. O forse ce le ha portate lui, chissà».

Fino a quando arrivarono al paese di Tulvanth, la conversazione si spostò su cose più normali. Sethir parlò della sua famiglia, Velthur invece parlò della sua professione di medico.

Tulvanth non era che un piccolo gruppo di vecchie case contadine arroccate sul fianco della collina. La strada lastricata passava davanti a una piccola piazza con la casa dell’alkati, l’edificio in cui si svolgevano le riunioni delle matriarche e dei loro fratelli primogeniti delle varie famiglie e che decidevano le regole della comunità e che fungeva anche da tribunale locale.

Aveva un’aria fatiscente ed in disuso, e per le strade non si vedeva nessuno. Dava proprio l’idea di un paese ai confini della civiltà, semiabbandonato, in decadenza.

Un luogo da streghe, insomma. Un luogo dove donne ai margini della società civile praticavano culti primitivi e segreti in compagnia di Fate e Sileni, dove l’analfabetismo, la povertà, le unioni fra consanguinei facevano sì che la gente si rivolgesse a tutto quello che non piaceva ai poteri costituiti del paese, dove persino i sacerdoti, la prima delle classi dominanti del Regno Aureo, scendevano a patti con tradizioni più antiche di loro.

Niente di strano che anche l’alkati locale fosse una strega, e che anche i sacerdoti là fossero amici delle Fate. Bisognava che lo fossero, per poter svolgere il loro compito indisturbati.

Era il tardo pomeriggio, ormai. Velthur era arrivato prima del previsto grazie a Sethir, ma era comunque troppo tardi per affrontare il bosco delle Fate.

Il dottore chiese al vecchio se c’era una locanda dove potersi fermare per la notte.

«Ma neanche per sogno. Siete ospite in casa mia. E poi la locanda del paese fa schifo, vi assicuro».

Benedetta l’ospitalità degli umili, anche se Sethir era contento di ospitare un dottore nella speranza che lo aiutasse a curarsi i dolori della vecchiaia. Il paese era così degradato ed isolato da non avere neanche un medico, lì tutto dipendeva dai rimedi della tradizione popolare e dalla conoscenza delle erbe delle streghe di campagna, e dalle loro presunte capacità taumaturgiche. E dal popolo fatato.

La casa dei Frontiakh era un po’ più avanti del paese sulla strada lastricata, che proseguiva con ampie anse lungo i fianchi delle colline verso altri paesi, fino a terminare in mezzo alla bianca muraglia delle Montagne della Luna, non lontano dall’antico Zerennal Baras, il Giardino delle Rose, il favoloso e quasi mitico regno dei Nani che scampò alle acque del Diluvio.

Un’altra tentazione per la fantasia di Velthur, di intraprendere un viaggio anche per quella strada, nella speranza di poter ottenere il permesso, dato a pochi Uomini, di visitare il regno sotterraneo dei Maestri dell’Alchimia Antica.

La casa dei Frontyakh  appariva anch’essa vecchia e fatiscente all’esterno come tutte le case di Tulvanth, ma all’interno aveva un’aria più ospitale.

LOVECRAFT 143: LA TRAMA DE "IL COLORE VENUTO DALLO SPAZIO".

martedì 14 giugno 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 118° pagina.


messo un bel po’ di tempo per capirlo. Anche io all’inizio mi dicevo che le Fate erano delle brutte bastarde, non capivo che siamo noi Uomini ad essere dei poveri ignoranti che non sanno come muoversi nella vita. E la colpa non è di nessuno. Né nostra, né delle Fate. Semplicemente la vita è così. Misteriosa e ambigua».

«Però… siete bravo a raccontare le storie, Sethir! E capisco benissimo cosa intendete dire: le Fate ti possono dare solo dei vaghi suggerimenti, ma non possono dirti cosa devi o non devi fare. Il Fato, in effetti, ce lo costruiamo da soli, anche se sembra scritto nel nostro sangue, no? Voi mi ricordate un mio amico che ho perso qualche tempo fa, e che spero di poter ritrovare nel bosco delle Fate. Un Sileno di nome Prukhu. Anche lui era molto bravo a raccontare storie, come la gran parte dei Sileni».

«Ah, Prukhu??? Siete amico di Prukhu?? Il vecchio Prukhu, che vive dalle parti di Arethyan?».

«Sì, proprio lui. Anche io vengo da Arethyan. Lo conosco da tanti anni, ma qualche mese fa ha dovuto venire qui, al cospetto della Regina delle Fate, e da allora non l’ho più visto….».

«Ah, siete di Arethyan, il paese vicino al Santuario di Silen? Ditemi, l’avete visitato? Io non ci sono ancora stato, ma tutti ne parlano, e dicono che è una cosa meravigliosa e antichissima, che viene da prima del Diluvio. È vero?».

La conversazione quindi si spostò per un po’ sul Santuario d’Ambra, inevitabilmente. Velthur si maledisse per aver detto di venire da Arethyan. Non ne poteva più di parlare di quel benedetto tempio ipogeo.

Poi però riuscì a riportare il discorso su Prukhu.

«Eh, il vecchio Prukhu! Ogni tanto veniva a far visita anche a casa mia. Quante storie che mi ha narrato! Adesso però è un po’ di tempo che non lo vedo più. Però vedo suo figlio, Menkhu. Lo conoscete?».

«No! Non mi ha mai detto di avere un figlio!».

«Veramente ne ha parecchi, di figli e figlie. Credo una dozzina. Proprio come me. Credo anche che abbia avuto due mogli. La prima è morta di parto e si è risposato. Poi, quando i figli sono diventati grandi, ha cominciato a vivere presso gli Uomini, come fanno a volte i Sileni. Però suo figlio Menkhu mi ha detto che adesso è ritornato alla vita dei boschi, e che non avvicina più nessun Uomo. Una cosa molto strana. A lui piaceva partecipare alle feste campestri. Gli piaceva dormire nei fienili, stare con la gente umana. Quando ho cercato di chiedergli il perché, Menkhu non ha voluto dirmi niente. Dice che sono cose che riguardano solo i Sileni e che lui non poteva parlarmene.

Mah… mi è dispiaciuto molto. Spero che un giorno si rifaccia vedere. Era simpatico».

Velthur non rivelò a Sethir il vero motivo del perché Prukhu non si faceva più vedere nel regno degli Uomini. In fin dei conti, non sarebbe servito certo né a Prukhu né tantomeno a lui.

«Anche la sua famiglia vive da queste parti?»

«Ma sì, certamente. Qui è pieno di Sileni nei boschi.  Non ha idea di quanti ce ne sono. Sono timidi, e si nascondono quasi tutti, e quindi sembra che non ci siano, ma vi assicuro che sono numerosi. Quanti siano, ovviamente, è impossibile saperlo, ma se si va nei boschi qui attorno si vedono tracce dappertutto. Li vedrete se andrete dalle Fate».

«E ditemi: c’è la possibilità di incontrare la Regina delle Fate in persona?».

«La Regina? Guardate, non c’è nessuna Regina, se intendete il capo delle Fate. Cioè, la Regina è un modo per indicare tre persone diverse: le Tre Madri del Fato. O meglio la Triplice Madre. La gente di fuori crede che sia una persona sola, ma in realtà sono tre Fate diverse, che governano la tribù del posto. Siccome le Fate e i Sileni parlano di loro come se fossero una persona sola, la gente si è messa in testa che è una sola, ma in realtà sono tre. E sono sempre state tre, per tradizione».

«Sì, avevo sentito questa storia. O meglio, l’ho letta in un libro sul popolo fatato. Ma almeno una delle tre, la si potrebbe incontrare, là nel bosco?».

«Se ne incontrate una, le incontrate tutte e tre. Si fanno vedere solo quando sono assieme. Sì, alcuni le hanno incontrate. La nostra alkati, per esempio, ogni tanto le vede».

«Ah, questioni amministrative, immagino….».

LOVECRAFT 142: IL COLORE VENUTO DALLO SPAZIO

lunedì 13 giugno 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 117° pagina.


È questo che bisogna sapere ogni volta che si va a chiedere un responso alle Fate: rendersi conto che quello che dicono può voler significare cose diverse. Altrimenti, rischi di venire ingannato».

«Insomma, delle belle imbroglione, queste Fate!»

«Sì e no. In realtà le Fate sono come la vita, o meglio come il Fato di cui portano il nome. Nella vita quante cose sono chiare? Vi è mai capitato, con il senno di poi, di dirvi: “che stupido sono stato a non capire prima quello che i fatti della vita volevano dirmi”?».

«Innumerevoli volte. E a dire il vero, il motivo per cui sto andando dalle Fate è proprio perché non voglio, per l’ennesima volta, trovarmi a dire proprio questa frase!».

«E allora vi racconto un’altra storia, per farvi capire meglio ciò di cui sto parlando. Un ricco athum,  si recò dalle Fate per sapere chi era che aveva svaligiato la villa di sua madre, rubando tutti gli oggetti di valore che vi si trovavano. Sperava di poter recuperare almeno una parte dei loro averi, perché fra le cose che i briganti avevano depredato, c’erano molti cimeli e gioielli di famiglia.

In cambio, offrì tutto il vino degli otri delle sue cantine.

La Fata con cui parlò gli chiese se era sicuro di volerlo sapere, perché quello che avrebbe saputo forse gli avrebbe recato un dolore più grande di quello che aveva provato quando era stato derubato.

L’uomo ammise che in quel caso forse non lo voleva sapere, perché il messaggio era chiaro: doveva esserci di mezzo qualcuno molto vicino a lui. Rispose quindi che più che voler sapere chi erano i colpevoli, voleva sapere come fare per riavere ciò che era stato tolto alla sua famiglia.

La Fata gli disse che se voleva trovare la refurtiva, l’avrebbe trovata in una grotta sulle colline, che era un magazzino dei briganti che nascondevano là i bottini delle loro scorrerie.

Il nobile patrizio si recò là con dei gendarmi e con tutti i suoi servi armati fino ai denti, e trovò effettivamente gran parte degli oggetti rubati dalla sua villa e anche molte altre cose rubate.

I gendarmi poi, che volevano assolutamente catturare i briganti, si appostarono nella caverna e attesero che questi comparissero. Ne risultò un combattimento, e alcuni dei briganti furono uccisi, e altri catturati, fra i quali il loro giovane capobanda, un uomo di grande avvenenza e prestanza fisica.

Quando si seppe che quella banda di briganti era stata catturata, e che il capobrigante sarebbe stato decapitato sulla piazza del paese vicino alla villa, la sorella più giovane del nobile patrizio sparì nella notte. Fu cercata dappertutto fino a quando fu scoperta dai gendarmi intenta a cercare di far evadere il capobanda dei briganti, di cui era l’amante.

Si venne a sapere quindi che era stata lei a far entrare nottetempo i briganti nella villa, una notte che i suoi familiari si erano allontanati in visita a dei parenti, e gli schiavi erano stati spinti ad ubriacarsi dalla fanciulla.

Al nobiluomo si spezzò il cuore, perché la fanciulla fu imprigionata con l’accusa di complicità, ma lei non poté neanche vedere la fine del processo, perché si suicidò in carcere dopo l’esecuzione del suo amato.

Disperato e pieno di rimpianto, volle tornare dalle Fate, per chiedere loro quale sarebbe stata la domanda che avrebbe dovuto porre per permettergli di riavere la refurtiva senza causare la tragedia e la vergogna familiare che l’aveva poi colpito. Forse voleva capire dove aveva sbagliato, e anche se non poteva tornare indietro, voleva imparare a evitare altri tragici errori futuri.

Le Fate gli risposero che avrebbe potuto fare due domande diverse: una era “cosa devo fare per riottenere la refurtiva senza dover scoprire chi è stato a rubarmela”, e loro gli avrebbero dato il nome del colpevole con cui avrebbe potuto mercanteggiare per riottenere il maltolto, ma non avrebbe risolto il suo problema familiare di cui non si era neanche reso conto.

E l’altra domanda sarebbe stata “come devo fare per impedire che succedano altre disgrazie in famiglia” e allora loro gli avrebbero detto di mandare sua sorella in un monastero per tre anni. Cosa che gli avrebbe fatto mangiare la foglia, ma almeno sua sorella sarebbe stata ancora viva.

Il nobiluomo poi aveva chiesto ancora quale secondo loro sarebbe stata fra le due la domanda migliore da porre, e loro gli risposero che era un ben misero Uomo se credeva che potessero essere le Fate a dover guidare le scelte degli Uomini, dicendo loro quale era la scelta migliore da prendere.
Capite la morale della storia? Bisogna saper porre le domande giuste, per avere le risposte giuste. Ma è sempre col senno di poi, che ci accorgiamo di aver posto le domande sbagliate. Eh, io c’ho

LOVECRAFT 141: LA CONCLUSIONE DE "IL CASO DI CHARLES DEXTER WARD"

domenica 12 giugno 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 116° pagina.


«Bene, allora le racconterò di quella donna molto povera, che si preoccupava per il suo unico figlio, e per il futuro che avrebbe avuto. Sperava che le Fate le dicessero che suo figlio avrebbe avuto una vita migliore della sua, o che le avrebbero indicato il modo di ottenerla.

Arrivò qui con il figlio, e si recò nel bosco delle Fate, supplicandole di risponderle. Portava in dono cibi e bevande perché non aveva altro da offrire.

Le Fate comparvero, e una di loro profetizzò su suo figlio, ponendogli le mani sul capo. Le disse che il figlio avrebbe avuto una vita uguale a quella di tanti altri, fino a quando non avesse trovato un grande tesoro.

La donna chiese anche se lei avrebbe potuto fare in tempo a vedere la fortuna del figlio, e la Fata rispose che sì, avrebbe fatto in tempo, ma che purtroppo non avrebbe potuto goderla a lungo, a causa di una persona malvagia, ma che sarebbe riuscita comunque a vendicarsi del torto subìto.

La donna chiese allora che cosa intendeva dire, e la Fata rispose che l’unica altra cosa che poteva dire è che se suo figlio avesse rinunciato alla sua fortuna, allora non ci sarebbe stata ombra di malvagità nelle loro vite, e che il figlio avrebbe vissuto comunque una vita tranquilla, serena e lunga, anche se da povero.

La donna si ritenne soddisfatta, e pensò di aver ricevuto un responso comunque molto favorevole, anche se in parte oscuro, e se ne ritornò a casa aspettando fiduciosa il futuro.

Passarono gli anni, e il figlio divenne grande. Un giorno conobbe una bellissima e giovane  athum, una nobile patrizia che viveva in una splendida villa giù in pianura. La giovane s’innamorò del ragazzo, pur essendo povero e di umili origini, e volle addirittura sposarlo. Lei era rimasta orfana di entrambi i genitori, e nessuno poteva perciò opporsi al suo matrimonio, anche se i parenti superstiti e gli amici e conoscenti del suo ceto potevano solo disapprovare il matrimonio con uno di così umili e oscure origini.

Quindi il matrimonio avvenne, e il giovane povero si trovò ad essere un ricco signore con una bellissima moglie. La madre capì che era quello il tesoro destinato a suo figlio, e non considerò nemmeno la possibilità che suo figlio potesse rifiutare un tale tesoro, e anche se pensava che presto se ne sarebbe andata da questo mondo, le bastava sapere che il suo unico figlio avrebbe avuto una vita felice.

Ma il fratello della nobildonna era pieno di gelosia e di rabbia. Non voleva che un povero contadino potesse far parte della famiglia. Cercò di convincere la sorella ad adottare il “matrimonio notturno”, così che il suo innamorato non avrebbe veramente fatto parte della famiglia, e lui, il fratello, sarebbe stato il tutore legale dei figli della sorella ed eredi del casato.

Ma la fanciulla fu irremovibile, e le nozze furono celebrate ufficialmente. Allora il fratello meditò l’uccisione del cognato e ci riuscì, pare spaventando il suo cavallo e facendolo cadere. Il ragazzo si spezzò l’osso del collo e morì sul colpo.

La madre capì che il giovane non era morto per una disgrazia, e meditò vendetta. Dicono che riuscì ad avvelenare l’assassino del figlio, pare con l’aiuto e il benestare della vedova, che tra l’altro aspettava un figlio, e temeva per il futuro del nascituro.

Quando il fratello morì, la vecchia fu accusata della sua morte, fu processata e condannata alla decapitazione.

Prima di morire, qualcuno che sapeva tutta la storia della profezia della Fata, le chiese se non aveva il rimpianto di avere voluto sapere la verità dalle Fate, dato che se non fosse andata da loro non avrebbe fatto nessuna differenza nelle scelte sue e di suo figlio.

Lei rispose così: “quando si chiede a una Fata di predire il futuro, bisogna dare più attenzione a quello che non dice, che a quello che dice”».

«E che cosa vuole dire, questo?».

«Vuole dire che la Fata senz’altro non le aveva detto che il figlio sarebbe stato ucciso dopo aver trovato la sua fortuna, ma non le aveva neanche detto che avrebbe avuto una vita felice. Le aveva detto solo “che avrebbe avuto una vita come tante altre fino a quando non avesse trovato un tesoro”. Le aveva detto una cosa ambigua, che poteva essere letta in diversi modi. Poteva essere una promessa, e nello stesso tempo una minaccia.

LOVECRAFT 140: MERLINO IN "CHARLES DEXTER WARD"?

sabato 11 giugno 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 115° pagina.


L’uomo, che si chiamava Sethir Frontiakh, era diretto a Tulvanth, in cui viveva, e che era il paese più vicino alle Colline di Leukun.

Il nome della località chiaramente non era stato scelto a caso, dato che Tulvanth nella lingua dei Thyrsenna significava “confine del fato” o qualcosa del genere.

Sethir, dalla lunga barba senza baffi, grigia ed appuntita come voleva la tradizione dei vecchi contadini, e dai grigi e furbi occhi chiarissimi, stava tornando a casa dopo aver portato il proprio granturco da macinare ad uno dei mulini ad acqua che si trovavano lungo il fiume Eydin ad Aminthaisan.

Velthur salì sul carro a fianco del vecchio e si misero a chiacchierare per far passare il tempo.

«State andando al bosco delle Fate, vero?».

«Come avete fatto ad indovinare?».

«Indovinare? Non c’è neanche bisogno di indovinare. Anzi, non avrei neanche dovuto domandarvelo! Eh, li si vede bene, quelli che vanno al bosco delle Fate. Li si riconosce tutti quanti. Con quell’aria da viandati pellegrini, che vanno lungo questa strada nella speranza di poter incontrare qualche Fata che gli dia risposte sulla loro sorte, o sulla sorte di persone a loro care, o anche per ricevere solo un consiglio in cambio di qualche favore».

«Ne vengono in tanti qui, per visitare le Fate?».

«Oh sì, tanti e da sempre. Da quando esiste il villaggio, perché loro erano già là da molto prima. Dai tempi del Diluvio. Vengono in tanti, ma non tutti riescono a parlarci. Solo a chi comoda a loro. E non si riesce a capire perché alcuni riescano ad avere udienza, e altri no. Capita che persone importanti e rispettabilissime vengano qui, e non ottengano un ragno dal buco, mentre invece emeriti briganti e malfattori, o poveracci senza arte né parte, vengano ricevuti subito e senza tanti problemi.

Un vecchio carico di esperienze deve andarsene con le pive nel sacco, mentre magari invece un ragazzino sciocco e frivolo che le visita solo per gioco, trova risposte alle sue domande.

I più saggi dei nostri contadini dicono che è così proprio perché le Fate vedono il futuro, e vedono anche le conseguenze dei loro responsi. E quindi sanno anche a quali persone è meglio darli, e a quali no, perché avrebbero conseguenze nefaste. Ma in realtà, non si capisce molto di quella gente. Noi che ci viviamo vicino forse non ne sappiamo molto di più di chi non le ha mai viste in vita sua.

Le Fate mantengono gelosamente i loro segreti, e noi non cerchiamo certo di carpirli, per non inimicarcele. Meglio averle come amiche che come nemiche».

«Voi siete mai stato da loro? Avete chiesto anche voi qualche responso?».

«Mai. Le ho viste parecchie volte, ovviamente. Le ho incontrate e ho parlato loro, e ho scambiato doni, ma non ho mai chiesto niente di più.

Non ho mai voluto sapere il futuro, o scoprire cose del passato. Né ho mai sentito il bisogno di farlo. Sarà che sono stato fortunato e ho avuto una vita abbastanza tranquilla. Penso che le gente che va dalle Fate a cercare risposte siano tutte persone che soffrono, o che hanno tanta paura.

Anche voi, immagino che volete andare da loro perché c’è qualcosa che vi angoscia, o perché avete avuto un grande dolore nella vostra vita, e vorreste trovare qualcosa che lo spenga, o lo renda meno violento....».

«Sì, ma preferisco non parlarne».

«Oh, scusate. Non volevo sembrare impiccione, era solo per chiacchierare. Ma io ne ho viste tanti di visitatori, di tutti i tipi, salire su questa strada a piedi, in cocchio, a cavallo, su di un carro. Contadini come me, gente di città, poveri e ricchi, persino molti sacerdoti, anche se magari diffidano i fedeli a non seguire i culti praticati dalle Fate. Poi sono loro i primi a cedere alla tentazione, e sul loro conto si narrano le storie più belle ed intriganti fra tutte quelle che sentiamo qui. Quante storie che si sentono! A centinaia, una per ogni visitatore!».

«Beh, dato che avete il tempo di raccontarmele, ditemene almeno qualcuna. Può darsi che dopo mi decida a raccontare io il perché sono venuto qui. Così potrete aggiungere la mia storia al vostro repertorio».

LOVECRAFT 139: LA TRAMA DE "IL CASO DI CHARLES DEXTER WARD"