mercoledì 31 agosto 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 185° pagina.


Larsin aveva ormai raggiunto Syndrieli, e aveva abbracciato lei e il bambino, come per proteggerli. E andando a passo svelto, li stava conducendo via da quel delirio collettivo.

Velthur neanche se ne accorse, ipnotizzato da quello che vedeva, e che non aveva alcun senso.

La Regina, imperturbabile, continuava a compiere il rito della benedizione, con le braccia tese in avanti quasi a voler compiere un grande abbraccio, mentre la gigantesca figura dietro, che sembrava essere incappucciata, tese le braccia a sua volta verso l’esterno, come a voler scimmiottare la sovrana, e a quel gesto avvenne una cosa ancora più terrificante e assurda.

Scaturirono come delle fiamme dai suoi piedi invisibili, dall’orlo del suo manto di nebbie scure, ma dopo pochi secondi Velthur capì che non erano affatto fiamme, ma qualcosa di molto più strano.

Erano come serpenti luminosi, esseri che splendevano di luce propria, una luce scarlatta, più brillanti ancora del sole che illuminava gli alberi spogli facendoli sembrare una foresta infernale.

I serpenti di fuoco scarlatto salirono lungo la figura, attorcigliandosi e divenendo un groviglio che sembrava uscire e agitarsi dalle spalle, poi lentamente si spensero come delle braci che si estinguono lentamente nel caminetto, ma lo fecero in modo rapidissimo, divenendo di un colore grigio plumbeo, simili anch’essi a nuvole temporalesche.

Poi si unirono l’uno all’altro, si compattarono in due forme che uscivano dall’immenso corpo nero, e divennero due gigantesche ali nere spiegate.

Allora l’essere gigantesco si librò in volo, sopra la Polenta Verde, e con una velocità incredibile si innalzò verso le nuvole, scomparendo in lontananza all’orizzonte come un immenso uccello nero.

Solo allora la Regina sembrò in certo modo riscuotersi, abbassare le braccia e volgersi attorno, parlando con i Giganti e con lo Sposo Regale, i quali sembravano guardarsi  attorno anch’essi sconcertati.

Le urla però continuavano, la maggior parte della gente si agitava e correva intorno, altri  piangevano rotolandosi per terra, altri si erano rannicchiati ai piedi degli alberi, guardando verso il cielo, terrorizzati. Altri ancora pregavano, sempre urlando e piangendo, invocando pietà per le loro cattive azioni e le mancate opere di devozione agli Dei.

Velthur cercò disperatamente attorno a sé qualcuno che conoscesse. Larsin e Syndrieli erano scomparsi con il bambino, Menkhu e Harali chissà dov’erano, dispersi nella folla.

Una parte di lui avrebbe voluto fuggire e basta, l’altra gli diceva di restare, per cercare di aiutare tutta quella gente che pareva impazzita, anche se era terrorizzato. Sicuramente ci sarebbero stati dei feriti o persone colte da malore.

Poi, come era cominciato, tutto finì. La luce rossa improvvisamente scomparve,  sostituita dalla pallida luce velata di un normale sole della fine di autunno.

La gente urlava ancora, ma gli schiamazzi sembravano diminuire e tra l’altro la gran parte della folla non piangeva più, non sembrava più così spaventata. Velthur ebbe l’impressione che la gente attorno a lui si stesse lentamente svegliando rendendosi conto di essere stata vittima di un incubo.

Quel giorno sarebbe stato ricordato come il Giorno del Prodigio Scarlatto, e sarebbe rimasto per sempre come il caso più strano nelle cronache del regno di Exinedri II.

Ma solo del suo, perché il regno della sovrana successiva sarebbe stata segnata da eventi anche molto più strani.





CAP. XVII:  RIORDINANDO LE IDEE



Velthur, Menkhu, Larsin, Syndrieli, e la madre, i fratelli e le sorelle di Syndrieli, stavano seduti insieme a tavola in casa dei Ferstran, dove ci si era riuniti per cercare di parlare di quello che era successo la mattina del giorno prima.

La campagna e il paese erano state in preda a un’esagitazione incredibile tutta la giornata, i testimoni del prodigio celeste avevano affollato  i templi per fare offerte e pregare Sil di rivelare il significato del segno che aveva mandato tramite la sua immagine fisica, il sole.

LOVECRAFT 212: LA DEGENERAZIONE PROGRESSIVA DEL POPOLO DI K'N-YAN

lunedì 29 agosto 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 184° pagina.


Velthur si domandò se la sua fosse imperturbabilità regale o semplice inconsapevolezza, magari dovuta a un temporaneo stato di confusione mentale. Magari non si era affatto ripresa dal mancamento che aveva avuto nell’ipogeo e di cui aveva parlato Azyel.

A quella distanza, Velthur non poteva distinguere molto della voce della sovrana, ma intuiva che il rito procedeva come se niente fosse, anche quando le cose degenerarono ulteriormente.

Mentre Velthur se ne stava ad osservare le reazioni della folla al prodigio celeste, Larsin si era messo a correre verso Syndrieli, che si stava avvicinando con il piccolo Loraisan. In vista non c’erano né gli altri membri della loro famiglia, né Menkhu, che dovevano trovarsi sull’altro lato della Polenta Verde, verso la strada.

Larsin si era allontanato di parecchi metri, quando si udì un urlo lacerante, orribile. Sembrava un grido in certo modo femminile, ma non era comunque un urlo umano. Velthur in seguito l’avrebbe descritto come una via di mezzo fra una donna che veniva uccisa, il grido di un uccello rapace e quello di un maiale che viene sgozzato. Un suono che faceva gelare il sangue nelle vene, e che continuava, lunghissimo, senza posa.

E quel che era peggio, era che Velthur lo sentiva avvicinarsi.

Poi la vide. Una piccola donna dal fisico minuto, vestita di una pesante tunica verde scuro, e con lunghi capelli bianchi spettinati, agitati dal vento. Una Fata che fuggiva terrorizzata tra gli alberi, a braccia spalancate, urlando senza fine. Gli occhi neri strabuzzati in modo terrificante, come finestre sul buio della notte. Sul vuoto.

Doveva trattarsi di una delle misteriose amiche di Aralar. Forse la stessa che aveva perduto lo scialle verde, la vera causa remota di tutto quel trambusto.

Velthur guardò nella direzione da cui fuggiva, ma non si scorgeva niente.

Muovendosi sconvolto fra gli alberi, alla ricerca di un pericolo sconosciuto, si accorse che il delirio della folla era peggiore di quel che gli era sembrato all’inizio.

Vicino a lui, un uomo si gettò a terra indicando il cielo e urlando: «Il sole! Il sole ruota su se stesso!. Precipita! Sil sta per apparire nella Sua Gloria!».

Ma il sole non stava né ruotando né precipitando. Si limitava a splendere di quella brillante luce rossa.

Una donna anziana gli prese il braccio e gridò: «Guarda! Guarda l’occhio nel sole! C’è un occhio dentro il sole che ci sta guardando tutti! È l’Occhio di Sil che ci sta guardando tutti per giudicare le nostre colpe e fare giustizia di ogni malvagità!».

Ma non c’era nessun occhio nel sole. Semplicemente era rosso come il sangue, come una brace ardente nel caminetto.

Velthur si svincolò dalla presa della donna, e solo allora vide qualcosa di veramente terrificante.

Si accorse che in cima al tumulo la Regina non era da sola con i due Giganti e il suo sposo, ma c’era qualcun altro, o meglio qualcos’altro. Qualcosa che non era né umano né era alcunché di conosciuto.

C’era una figura nera, alle spalle della Regina. Una figura che torreggiava più dei Giganti stessi. Sarà stata alta almeno quattro metri, forse più. Ed era completamente nera. Sembrava ammantata e incappucciata, come avvolta in un sudario, ma appariva confusa, come se fosse fatta di nebbia, come certe nuvole temporalesche che prendono temporaneamente delle forme conosciute, con figure di persone o di animali o di volti.

Quel che sconcertava più di tutto, era che né la Regina né il suo consorte né tantomeno i Giganti sembravano minimamente accorgersi dell’ancora più gigantesca figura che se ne stava dietro di loro, immobile.

Velthur non poté fare a meno di lasciarsi andare al panico, a quella visione.

«Lassù! Dietro la Regina! Non vedete cosa c’è? Fate qualcosa!».

Ma la gente urlava per conto suo, e anziché guardare in cima alla Polenta Verde, guardava il sole, e diceva di vedere cose assurde nel suo disco luminoso. Altri urlavano di vedere cose altrettanto assurde in altre parti del cielo.

LOVECRAFT 211: LA RESIDENZA DI ZAMACONA A TSATH

domenica 28 agosto 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 183° pagina.


«Temo di sì. Spero di sbagliarmi, ma temo proprio che sia così. Troppe cose che non riusciamo a spiegare, troppe cose che ci spaventano».

Rimasero là a chiacchierare ancora per circa un’ora, cercando di spostarsi su argomenti più ameni. Velthur sperava che, parlando con Larsin di argomenti il più possibile neutri, lo potesse rassicurare e spingere a fidarsi di più di lui, così che potesse decidersi a raccontargli qualcosa di cosa gli era successo, e il perché di quella repentina trasformazione, che aveva sorpreso tutti quanti.

Poi si accorsero di un certo fermento fra la gente attorno, presso cui stava passando la voce che la Regina era uscita dal Santuario e stava salendo sul tumulo per celebrare finalmente il rito della benedizione generale.

Velthur e Larsin cominciarono quindi a cercare una posizione lungo la riva che offrisse una buona visuale della cima del tumulo, e non dovettero faticare molto prima di trovarla, in un punto dove gli alberi erano fitti solo sulla riva, ma subito dopo lasciavano il posto a un vasto prato.

Per pura coincidenza, Larsin scorse in lontananza Syndrieli, che portava il piccolo Loraisan in una sacca sulle spalle.

Larsin la chiamò e la donna gli rispose alzando il braccio sinistro, per far capire che l’aveva sentito.

Fu allora che si poté scorgere la figura della Regina, accompagnata dai due Giganti e da quello che pareva essere lo Sposo Regale, che saliva fra le viti del tumulo.

«Sembra che si sia ripresa bene, la nostra beneamata sovrana. Chissà se Azyel gli si è di nuovo nascosto vicino…».

Subito dopo che Velthur aveva pronunciato quelle parole, cominciò ad accadere tutto quanto.

Il sole spuntò improvvisamente dalle nuvole che sembravano venire spazzate via da una mano di vento furioso nell’alto dei cieli. Ma era un sole che non aveva nulla di normale, perché diventava sempre più rosso di secondo in secondo, come se stesse tramontando.

Ma la sua luce non era quella del tramonto,  perché il suo disco non era la pallida sagoma che si scorge quando è all’orizzonte. Era rosso come il sangue, ma sfolgorante come un sole estivo. Era qualcosa di assolutamente innaturale.

La sua luce tinse il mondo di nuovi colori, inusitati per una mattina prossima all’inizio dell’inverno. Era come se si fosse entrati in una nuova, quinta stagione che prima non era mai esistita né tantomeno era mai stata immaginata.

Naturalmente, la folla immensa cominciò a gridare al miracolo, al prodigio divino.

La religione dei Thyrsenna, in un ormai remoto passato all’origine della sua storia, si era fondata principalmente sull’interpretazione magica di eventi naturali.

Nei tempi remoti, i sacerdoti erano stati indovini che basavano i loro pronostici sul comportamento degli animali, sulla caduta dei fulmini e sui movimenti degli astri. Poi, man mano che la civiltà thyrseniakh si era evoluta, la religione si era spiritualizzata e i sacerdoti avevano abbandonato molte delle pratiche superstiziose ereditate dai loro antenati.

Ma la fede primitiva del volgo era rimasta attaccata a quelle pratiche antiche, e quando succedeva qualcosa di insolito nel cielo, la gente delle campagne vi vedeva solo segni divini e messaggi celesti.

La gerarchia teocratica del Veltyan tollerava tutto questo, anche se ufficialmente era sempre molto cauta nel riconoscere la veridicità dei presunti segni celesti.

Ma quella luce in pieno giorno,  quel sole insanguinato come una sfolgorante lanterna rossa non l’aveva mai visto nessuno a memoria d’uomo. Nessuno, nelle cronache storiche, aveva riferito di un segno celeste di quel tipo.

La folla era in tumulto e molti si lasciavano andare ad atteggiamenti di esaltazione religiosa, alzando le braccia al cielo e intonando litanie in onore di Sil, gettandosi a terra e rotolandosi in preda a una sorta di delirio. Sembrava, a dire il vero, una delle orge dionisiache del belk, dove si faceva a gara a chi perdeva di più il senno.

Dalla sua posizione, Velthur notò che la Regina era arrivata in cima al tumulo e ora stava dritta, tendendo le braccia in avanti e ruotando su se stessa, nel classico gesto di benedizione della folla. Sembrava che per lei non stesse succedendo niente.

LOVECRAFT 210: I RITI ORGIASTICI DI K'N-YAN E LA RELIGIOSITÁ CONTEMPORANEA

sabato 27 agosto 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 182° pagina.


«Velthur, ti prego. Non sono affari tuoi. Io sto bene, adesso, no? Erkan sta bene, non hai motivo di preoccuparti».

«Oh no, figuriamoci! Perché dovrei preoccuparmi del fatto che non capisco niente di ciò che sta succedendo? E tu, Azyel….non si poteva provare a tenere Harali lontana da Aralar? Certamente lo saprai che l’eremita pazzo l’ha fatta diventare una sua adepta. Sì, proprio così: una sua consorella, pensa un po’! Forse a te non te ne importa niente di lei, come penso che non te ne importi di nessun essere umano, perlomeno di quelli che non sono vostri seguaci. Ma a me sì. Non voglio che quella ragazza si trovi con la vita rovinata per colpa di un pazzo.

Lo sai che cosa è venuta a fare qui, stamattina? Non solo per assistere al rito di benedizione regale, ma anche per cogliere i gigli rossi per le pozioni alchemiche del suo maestro spirituale! Lo sapevi tu? A che cosa gli servono, quei fiori? Lo sai, tu?».

«Io…. no. Non lo sapevo. È una cosa che non sono riuscito a leggergli nel pensiero, non ne sapevo nulla. Ma non è vero quello che dici, Velthur. Al popolo delle Fate interessa ogni essere vivente, sia esso umano o fatato o silenico o animale o vegetale o di ogni altro tipo possibile. A noi interessa il fato di tutti e di ciascuno. Anche quello di Harali. Ma le Tre Madri hanno letto il suo fato come hanno letto il fato di tutti quelli che sono o saranno coinvolti in questa storia. E il destino di Harali è buono, se si farà sacerdotessa monaca, come è sua intenzione.

La sua vita sarà lunga e serena, e dedicata allo studio e alla conoscenza di tutto ciò che è buono. Non resterà a lungo con Aralar. Certo, sarà la sua adepta, e seguirà i suoi insegnamenti, e sarà la sua erede spirituale. Ma non resteranno assieme a lungo. Questo l’hanno visto chiaramente le Tre Madri del Fato. Tu non ti devi preoccupare di lei, devi solo starle vicino e aiutarla nella sua educazione. Vuole imparare tante cose e tu puoi insegnarle molto».

«Allora vedrò di far sì che si allontani prima possibile da lui! Ma tu, vedi di scoprire a cosa gli servono i gigli rossi, altrimenti comincerò a pensare che mi sei del tutto inutile. Anzi, a dire il vero, comincio già a pensarlo… E adesso, per favore, sparisci! O tiro fuori di nuovo l’amuleto di Prukhu…».

A quel punto, Azyel pensò di fare un piccolo dispetto al dottor Laran.

Lanciò qualcosa che doveva essere un’imprecazione nella lingua fatata, agitando il bastone nell’aria, e cambiò in un secondo l’illusione che gli dava l’aspetto di un vecchio umano. Il suo volto divenne mostruoso, solcato da una serie di orribili rughe che formavano un gioco serpentino sui lineamenti, con delle sfumature bluastre, violacee e grigiazzurre, che ricordavano un cadavere in avanzato stato di decomposizione.

Gli occhi divennero enormi, e molteplici come quelli di un gigantesco insetto, due enormi grappoli di bulbi oculari che sporgevano mostruosamente come fruttescenze marce. E ognuno di quei piccoli occhi era giallastro, con le pupille e le iridi rossastre che si muovevano ognuno per proprio conto.

Dalla sua bocca storta e bavosa e irta di zanne altrettanto storte e giallastre, uscì un grido stridulo e orrendo che avrebbe potuto essere quello di uno sciame di vespe che ridono tutte assieme.

«Ah, maledetto! Sparisci! Sparisci, Gnomo malefico!».

Ma l’orrida visione illusoria doveva averla vista solo Velthur, perché la gente che chiacchierava o passeggiava qua e là fra gli alberi rimase quasi impassibile. Avevano visto solo un distinto signore di mezza età che sembrava prendersela con un vecchio mendicante che lo molestava, mentre un robusto contadino li guardava sorpreso.

Azyel, ripreso l’aspetto del vecchio arcigno, si allontanò ridacchiando con andatura leggermente claudicante. Doveva divertirsi molto con i suoi magici travestimenti.

«Non ti sta molto simpatico quello Gnomo, vero?».

«Perché, a te sì? È un viscido. Ha un fare ambiguo e losco».

«A suo modo, è semplicemente un soldato. Combatte e lavora per il bene della sua nazione, esattamente come ho fatto io, anche se in modo del tutto diverso. Come stai facendo anche tu, in fin dei conti. Ed è un nostro alleato. Magari vorremmo avere alleati migliori, ma in guerra è così. Non sempre puoi sceglierti gli alleati che vuoi».

«È questo che pensi? Che siamo in guerra?».

LOVECRAFT 209: LA PROSTITUZIONE SACRA A K'N-YAN

venerdì 26 agosto 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 181° pagina.


«Oh, non preoccuparti, che so fare anch’io il mio mestiere! Quel matto dell’eremita c’ha provato a parlare con gli Akapri, ma gli hanno dato il benservito! Maxtran è deciso ha tenere l’osso per sé e la sua famiglia, e mette alla porta tutti i furbetti che cercano il suo favore per introdursi nella sacra Polenta Verde. Lui ha cercato di offrire i suoi servigi alchemici, inoltre ha cercato di abbindolarlo facendogli vedere che ha tradotto tutti i testi incisi sulle pareti del Santuario. Aveva le sue frecce al suo arco, e una buona mira, anche.

Ma Maxtran è poco suggestionabile e non si lascia impressionare dalle virtù degli uomini di cultura. Anzi, ti dirò: li odia! Prova un sordo rancore per tutti quelli che hanno ricevuto un’istruzione. Sai com’è la gente incolta, no? Spesso prova invidia per chi è andato a scuola, sa leggere e scrivere bene, ti sa intortare con belle parole…. e adesso che anche Maxtran è un personaggio in vista, ha modo di vendicarsi di tutti quelli che l’hanno fatto sentito inferiore.

Perciò se uno va da lui e magnifica la sua cultura, fa proprio ciò che è necessario per farsi sbattere fuori in malo modo!».

Il finto vecchio ridacchiò con quel suono sinistro che a Velthur parve plateale. Come sapeva creare bene, lo Gnomo malefico, l’illusione di un vecchio umano, così bene da sembrare un attore di teatro.

«Avessi visto la scena! Gli ha dato del ciarlatano, e poi ho visto chiaramente nella mente di Maxtran che ogni volta che vede Aralar, gli torna in mente la spaventosa visione di tutti quei gatti che vi guatavano nel bosco. Quindi l’eremita non solo gli sta antipatico, ma addirittura lo spaventa. Con quello sguardo da pazzo, poi….».

«Beh, mi fa piacere. D’altra parte, se Maxtran si fosse dimostrato conciliante con lui, avrei provveduto io a metterlo in guardia. Ma a proposito, vorrei chiederti una cosa a cui penso che potrai rispondermi: cosa sono quei gatti? Sono davvero i gatti della Valle dei Gigli, venuti qui assieme a quei fiori?».

Il riso morì sulle labbra di Azyel. Nonostante i suoi poteri, non si era aspettato la domanda di Velthur, e non gli piaceva per niente.

«I gatti sono i guardiani. Non posso dirti altro. Sono animali, sì, ma non come gli altri animali di questo mondo. I gatti normali, si sa, vedono nel buio. I grandi gatti guardiani vedono oltre il buio, e lo sorvegliano. È l’unica cosa che ti posso dire, non ti posso dire altro. Tutto il resto di quello che sappiamo di loro fa parte dei Grandi Misteri, e non posso rivelarlo ai profani».

«E immagino che i gigli rossi sono legati ai gatti, vero? Quando compaiono i gigli rossi, compaiono anche i gatti grigi. Ma anche quello fa parte dei Grandi Misteri, no?».

«Sì, ovviamente sì. Ma se tu diventassi un adepto del belk, potresti saperne di più anche tu. Un Uomo sapiente come te verrebbe iniziato in breve tempo, perché darebbe prestigio alla Congrega del Belk. Saresti sopra tutti i più grandi stregoni, secondo solo alle Tre Madri del Fato….».

«Ah no! Potrai irretire altri, ma non me! Non mi convincerai ad entrare nelle vostre conventicole e a partecipare alle vostre deliranti orge notturne!».

Velthur allora si rivolse a Larsin, che fino ad allora aveva osservato Azyel rimanendo in silenzio, senza nemmeno salutarlo.

«Lo sai, Larsin, che questo Gnomo si incontra di nascosto nel bosco con tuo figlio Erkan, facendo leva sulla sua passione per le Fate? Vuole spingerlo a diventare un seguace del belk. Lo sapevi?».

«Sì, Velthur. Lo so. Da qualche tempo. E mi va bene così, ti assicuro».

Dopo un momento di sconcerto, Velthur si mise a gridare.

«Ma dico, che ti è successo? Prima diventavi furioso ogni volta che Erkan nominava le Fate! Lo prendevi a sberle, se solo ne accennava, ormai! E adesso così all’improvviso ti va bene??? Ma che razza di padre sei? Credi che basti smettere di bere, per diventare una persona seria? Sei impazzito anche tu, Larsin?».

«Velthur, ti giuro….  ho i miei buoni motivi. È sempre qualcosa che riguarda quello che le Fate mi hanno detto. Io non mi preoccupo per Erkan. Non parliamone, ti prego».

«Larsin, dimmi la verità. Quando sei stato sulle Colline di Leukun, ti hanno fatto bere il loro vino? Quello fatto di frutti di bosco e certe erbe come l’assenzio…. capisci cosa intendo dire?».

LOVECRAFT 208: CONFRONTI FRA "K'N-YAN" E "I TOPI NEL MURO".

giovedì 25 agosto 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 180° pagina.


occhi neri, sarà anche che è il più piccolo, fatto sta che noi pensiamo sempre a lui prima che a tutti gli altri».

«A proposito: perché non mi parli di come è andata, là alle Colline di Leukun? Mi hai detto che hai parlato anche tu con le Fate, che ti hanno detto qualcosa che ti ha dato la pace, ma non mi hai spiegato cosa. Proprio non lo posso sapere?».

«No, Velthur. Comunque è una cosa che non ha importanza. Niente cambierebbe, per te, se tu lo sapessi».

«Ti hanno detto di non dirmelo? In fin dei conti, ci sono stato anche io da loro prima di te, e ti ho raccontato cosa mi hanno detto. Perché tu non potresti fare lo stesso con me?».

«Perché è una cosa mia, dottore! Non riguarda altri che me, le mie sofferenze, le mie difficoltà. Ho chiesto il loro aiuto e me l’hanno dato. Non ho voglia di parlarne perché significherebbe parlare di me, e io adesso non ne ho voglia. Forse quando questa storia sarà finita, forse quando tutto tornerà tranquillo. Ecco, l’unica cosa che mi hanno detto e che mi sento di dirti, è che presto le cose torneranno tranquille. Non per sempre, ma per un bel po’ di tempo. Tranquille per tutti noi, intendo. Per il nostro tranquillo paesino. Per il resto, sono cose che riguardano me, e la mia famiglia. Lasciami stare, per favore».

«È stato Azyel a spingerti a farlo, vero? Quello Gnomo malefico che ronza attorno a tuo figlio Erkan, ti ha parlato e ti ha convinto ad andare con lui alle Colline di Leukun. Me lo ha detto lui. Mi ha detto che voleva aiutarti, e sembra che ci sia anche riuscito, considerando che non bevi più e sembri davvero più sereno. Posso almeno sapere che cosa ti ha detto, per convincerti?».

«Meglio che lo chiedi a lui. In fin dei conti, lui dice che è qui per aiutare soprattutto te…».

In quel momento, fra la gente che sostava o vagava fra gli alberi spogli, Velthur notò un vecchio piccolo e curvo, incappucciato di grigio e dal naso adunco, che avanzava tenendosi con il suo bastone. Un vecchio che Velthur e Larsin non avevano mai visto.

Parlò con voce gracchiante a Velthur, come se lo conoscesse.

«Eh, la Regina, la Regina…. Dev’essere una donna molto impressionabile, se è svenuta dentro il Santuario di Silen. Chissà se se la sentirà di salire in cima alla Polenta Verde….».

«Come? La Regina è svenuta dentro l’ipogeo? Chi ve lo ha detto?».

«Oh, l’ho vista io stesso. Ero là, e la vedevo che guardava ammirata la magnificenza del Santuario…. la si vedeva così turbata, quasi con le lacrime agli occhi per la meraviglia. E quando si è trovata sotto il grande toro d’ambra, rimirando la mummia di cristallo del Gigante…. è caduta a terra come un cadavere! Si sono spaventati tutti, ma lei si è ripresa dopo poco tempo. Ha detto che non poteva immaginare niente di così bello…. ».

«Come facevate ad essere là, vecchio? Solo le autorità e i sacerdoti possono stare là dentro con lei».

Il vecchio ridacchiò.

«Ho i miei privilegi. I privilegi che dà l’invisibilità…. Lo sai bene, dottore!».

E gli strizzò l’occhio grigio argenteo, in segno di intesa. Subito dopo, il suo volto sembrò sciogliersi come cera, come un oggetto che viene visto dietro l’aria calda che sale da un fuoco. Comparve il riflesso di un occhio completamente nero, dalla pupilla dorata.

Ma fu un istante, perché lo Gnomo riprese il suo insospettabile travestimento.

«Azyel! Dovevamo immaginarlo che ti saresti servito della tua abilità per spiare la Regina!».

«Se tu avessi i miei poteri, spieresti molto più di me, dottore…. »

«E oltre allo svenimento della Regina, sei riuscito a scoprire qualcosa di interessante?».

«Per il momento no, ma spero di farlo quando mi riavvicinerò a lei, in cima al tumulo. Credo che sarà allora che succederà qualcosa».

«Allora, hai solo perso tempo! Era Aralar Alpan che dovevi sorvegliare! È andato a parlare con gli Akapri perché sta cercando di diventare un kamethei etariakh del Santuario. Ed è chiaro il perché: se ci riuscisse, potrebbe entrare e uscire dal tempio tutte le volte che vuole e in qualsiasi momento, così riuscirebbe a trovare quello che cerca, e che tra l’altro non sappiamo ancora che cos’è! E invece hai voluto vedere la Regina da vicino, come un popolano qualsiasi! Bella spia della Triplice Regina delle Fate, che sei!».

LOVECRAFT 207: L'ORRIBILE SPLENDORE DELLA CAPITALE DI K'N-YAN

mercoledì 24 agosto 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 179° pagina.


della fattoria, anche perché da quel lato c’erano molti più alberi, che spesso schermavano la vista della cima del grande tumulo, anche se ormai avevano perso quasi tutte le foglie.

Il sole stava spuntando dalle cime delle montagne a nord-est, quando arrivò il corteo regale, passando per il sentiero fiancheggiato di filari di noci che dalla strada lastricata portava alla fattoria degli Akapri e da lì poi alla Polenta Verde.

Da Enkar erano arrivati gli uomini e le donne della guardia degli Shepenna della città, per poter tenere a freno la massa della plebe devota. E in particolare, al fine di impedire loro di salire sul tumulo, quando la Regina vi fosse salita per la benedizione del tempio ipogeo e del popolo.

All’inizio, tutto si svolse con sufficiente ordine. L’entrata del Santuario d’Ambra fu sgombrata per far entrare la sovrana e i dignitari del regno che l’avevano accompagnata fin là.

Menkhu e Harali, più curiosi, avevano provato ad avvicinarsi nonostante la calca, per poter godere della fuggevole visione della Kyrenni, ma non videro pressoché niente, se non le figure svettanti e scure dei due Giganti.

Velthur, che era del tutto indifferente alla Kyrenni e alla sua corte, restò seduto presso il fiume, ai piedi di un grande noce, meditando sul perché si trovava là.

In fin dei conti, non poteva provare né simpatia né interesse per una sovrana che era il capo della religione ufficiale del Veltyan, che aveva o perseguitato o semplicemente tolto molti diritti ai seguaci dell’Aventry come lui. Se gli fosse capitato di vivere a Veyan, la lontana capitale del Veltyan, o in un altro dei principali centri del Regno Aureo, non gli sarebbe stato permesso di esercitare la professione medica se non con pazienti che fossero anch’essi degli Avennarna.

Solo là, vicino agli estremi confini del paese, dove le leggi teocratiche venivano applicate con molto meno rigore, uno come lui poteva permettersi di avere come pazienti i devoti seguaci del culto tradizionale di Sil e degli altri Dei.

Se non fosse stato per il monito delle Tre Madri del Fato riferito da Azyel, lui avrebbe voluto trovarsi a casa sua, a passare una tranquilla mattina di riposo e di lettura dei suoi libri. E per questo sperava che, se doveva succedere qualcosa, allora si sbrigasse ad avvenire, così che potesse salvare almeno una parte della giornata.

Alla possiblità che quello che sarebbe successo avrebbe potuto sconvolgere anche lui, non pensava affatto. Purtroppo per lui.

Mentre aspettava in riva al fiume che la Regina finisse la sua visita all’ipogeo, comparve Larsin con il suo mantello di feltro rosso scuro.

«Siamo fortunati, non piove e non c’è la nebbia, anche se non è certo una giornata molto serena! Ma non mi aspettavo di trovarti qua, dottore».

«Non avrei voluto, infatti, ma dovevo adempiere a una promessa. La tua famiglia, dov’è? Non vengono?».

«Oh no, ci sono tutti, a parte la mia donna, che verrà dopo con il piccolo Loraisan. Io sono venuto prima, con gli altri bambini e con i fratelli di Syndrieli. Loro se ne stanno là, nella calca vicino all’entrata del santuario. Io ho preferito farmi una passeggiata intorno per incontrare gli amici».

«Perché portare Loraisan, che è così piccolo e fragile? In questa stagione, non starebbe meglio a casa?».

«Syndrieli vuole che riceva la benedizione anche lui, assolutamente. È convinta che se riceverà la benedizione della Regina, crescerà grande e forte e non sarà più gracile e debole. E poi la nostra stessa matriarca ha voluto che tutti i bambini della famiglia fossero presenti, perché dice che la benedizione della Regina probabilmente non potranno mai più riceverla in vita loro. Sono state irremovibili, io che potevo fare? Sono loro due, a comandare in casa nostra, lo sai bene».

«Va bene, ma spero che Loraisan sia coperto bene».
«Oh, non preoccuparti. Syndrieli è quasi ossessiva in queste cose. Una vera fanatica! Gli altri nostri figli poi cominciano a diventare gelosi… non solo di lei, anche di me. Devo dire che lui è diventato il nostro prediletto. Sarà perché pare così gracile, e non sappiamo se riuscirà a diventare grande, sarà perché è tutto quello che ci è rimasto di Thymrel, sarà perché è bellissimo, con quei grandi

LOVECRAFT 206: GLI SHOGGOTH DI N'KAI

martedì 23 agosto 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 178° pagina.


Voleva che Harali si rendesse conto che Aralar era pericoloso, ma per far questo doveva rimanere suo amico. L’unica cosa era cercare di starle vicino, di tenersi informato su tutto quello che lei faceva e su quello che invece combinava l’eremita.

Mentre cercava di trovare le parole giuste per non contrariarla, notò che lei portava sotto il braccio un cestino di vimini, coperto da un panno. Un angolo rialzato gli fece intravedere cosa c’era dentro.

«State raccogliendo fiori, per caso?».

«Oh sì! Gigli rossi. Avete visto quanti ne crescono, qui? È incredibile, sono completamente fuori stagione, eppure fioriscono come se fosse primavera! Li sto raccogliendo per il Reverendo Padre, mi ha detto che gli servono per le sue pozioni alchemiche…. anche se non so ancora perché».

Velthur e Melkhu si guardarono. Ecco una cosa che sarebbe stato molto interessante scoprire.

«Ho notato che questi fiori sembrano crescere in abbondanza anche sul Monte Leccio….».

«Sì, è vero. Spuntano nella radura in cima, e qualcuno anche vicino all’eremo. Ma qui, sopra il Santuario d’Ambra sono molti di più. Vedete là in cima, fra le viti? Ne spuntano di più sopra il tempio, sembra. Forse nel terreno c’è un elemento che li nutre meglio. Comunque, sono molto resistenti. Se si recide il fiore, subito dopo ricresce da dove è stato tagliato. È una cosa incredibile. Nessun giglio, nessun fiore che io conosca, cresce in questo modo, e persino nel tardo autunno. Mi domando persino se siano veramente dei fiori…».

«Me lo domando anche io, Harali. E credo che non siamo neanche gli unici a domandarcelo. A proposito: lui dov’è? Non lo vedo qui, e non credo possibile che non abbia voluto venire».

«È alla fattoria degli Akapri, mi ha detto che deve parlare con loro. Credo che voglia farsi accettare come kamethei officiante del Tempio, al fianco del sacerdote Maxtran e di sua figlia Maxaleni».

«Sì, immaginavo una mossa del genere. Sappiamo bene che ci tiene molto al Santuario d’Ambra…. Ma mi stupisce che gli Akapri stamattina possano avere il tempo di parlare con lui, considerando a quante cose dovranno prepararsi….a meno che non voglia partecipare lui stesso alla cerimonia. Certo, diventare un sacerdote del Santuario di Silen gli permetterebbe di poter entrarci tutte le volte che vuole, e farci ciò che vuole… ».

Velthur si trattenne. Era sul punto di raccontarle tutti i retroscena, ma pensò che non sarebbe stato il caso spifferarle tutto subito. Poco per volta, le avrebbe messo tante pulci nell’orecchio. In fin dei conti, non poteva sapere niente, quella povera ragazza cresciuta in mezzo ai boschi, di tutta quell’assurda storia piena di particolari loschi, folli e spesso irreali.

Mentre parlavano, il sole era ormai prossimo a spuntare nel cielo dal clima variabile. Le nuvole erano una tavola piatta di cirri, come un soffitto grigio chiaro che si stava tingendo di un rosso intenso.

«Com’è rossa quest’alba! Tinge persino le montagne!» esclamò Menkhu appoggiato al suo bastone da pastore, osservando con aria sognante le cime delle montagne bianche ad oriente, che ora apparivano di un rosa intenso, mentre le nuvole soprastanti apparivano del colore del sangue.

E naturalmente, fu allora che la gente cominciò ad arrivare a frotte.

Velthur vedeva che c’erano ormai gran parte dei suoi compaesani e della gente delle fattorie attorno, ma stava venendo anche un sacco di gente che non aveva mai visto e che sicuramente arrivava dai paesi più vicini, oltre che probabilmente dalla città di Enkar e forse anche dai paesi più a monte lungo il corso del fiume, per non parlare dei pellegrini che venivano da città e paesi di altre province.

C’era da domandarsi che fine avrebbero fatto i campi degli Akapri sotto il peso di tutta quella massa umana che stava crescendo in modo impressionante di minuto in minuto.

Resi nervosi e infastiditi dalla crescente folla, Velthur, Menkhu e Harali si spostarono in un’altra area, verso il fiume.
L’Eydin, scendendo dai monti e uscendo nella  pianura, faceva una grande ansa verso sud-est fra Aminthaisan e Arethyan, mentre invece la strada lastricata andava quasi in linea retta fra i due villaggi. La Polenta Verde, con la fattoria e i possedimenti degli Akapri, si trovava proprio in mezzo a quell’ansa, così che il fiume passava dal lato opposto del grande tumulo rispetto a dove passava la strada. E quindi fra la Polenta Verde e il fiume si concentrava meno folla che dal lato della strada e

LOVECRAFT 205: IL REGNO DI N'KAI E LE MONTAGNE DELLA FOLLIA

lunedì 22 agosto 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 177° pagina.


monastica, e poi fonderò un eremo femminile accanto al suo. Così potremo vederci spesso io e voi, magari proprio qui al Santuario di Silen. Non siete contento?»

Velthur rimase impietrito. Era come se gli avessero mollato un pugno in piena faccia per tramortirlo e poi gli avessero gettato un secchio d’acqua fredda in testa per risvegliarlo.

Menkhu, da parte sua, rimase a bocca aperta e con gli occhi strabuzzati.

Harali Frontyakh, vedendo lo sguardo di Velthur, si rese conto che non aveva preso bene la cosa.

«Per il momento mi ospita lui, in attesa che io venga riconosciuta come inizianda eremita dalla Shepen di Enkar. Poi, una volta consacrata sacerdotessa eremita, potrò fondare il mio eremo, vicino a quello di Aralar. Magari dall’altro lato di Monte Leccio. Non abbiamo ancora deciso.

Pensate, dottore. Potrò avere anche io la mia biblioteca personale, potrò leggere e approfondire la mia conoscenza nella teologia, negli antichi misteri, nella storia del mondo, nell’alchimia e in molto altro ancora. Non sarò più una contadina ignorante, ma una Reverenda Madre.

Capisco che a voi non possa interessare molto, perché voi siete un Avennar, e io invece diventerò una sacerdotessa di Sil, ma cercate di capire che almeno realizzerò il mio sogno di diventare una persona colta…».

«Harali. Nessuna persona può essere più felice di me nel sapere che la vostra esistenza d’ora in poi sarà dedicata allo studio e alla conoscenza, e se questo significa diventare per voi sacerdotessa della vostra religione, la cosa non mi riguarda affatto e io dico che voi dovete fare ciò che ritenete giusto per la vostra vita, perché la vita è vostra;  ma permettetemi di chiedervi perché avete scelto proprio Aralar Alpan come vostra guida spirituale.

Ci sono molti monasteri femminili in questa provincia, dove potreste realizzare le vostre aspirazioni in altro modo. Vi assicuro che alcuni di loro hanno delle biblioteche degne di questo nome e senz’altro superiori a quella che può avere Aralar….».

«Il Reverendo Padre Aralar è un uomo davvero eccezionale. Io non me ne intendo, ma sono rimasta molto impressionata dalla sua biblioteca e dalla sua straordinaria conoscenza. Mi ha aperto un mondo, forse anche più di uno. Certo, quegli odori spaventosi che vengono dal suo laboratorio alchemico…. sto cercando di abituarmi. Lui dice che a lungo andare certi odori non li sentirò più. Ma le cose che lui mi spiega sono affascinanti, è un uomo che ha viaggiato molto, che conosce molto bene il mondo. Parlare con lui è come viaggiare lontano pur rimanendo a casa. Ero molto più eremita finché vivevo a Tulvanth, che adesso nel suo eremo».

«Harali, pensateci. Quell’uomo, questo è vero, non è come gli altri. Ma non è affatto una cosa positiva! Credo che i suoi esperimenti alchemici siano pericolosi. E inoltre pratica la stregoneria, di questo sono sicuro. Se lei è una donna religiosa, devota, come può diventare amica e addirittura consorella di un uomo che va contro gli stessi dettami della sua religione? Gliel’ha detto che lui pratica e addirittura organizza il belk sulla cima del colle?».

Harali rise.

«Ma lo sappiamo benissimo entrambi che da queste parti ci sono non pochi sacerdoti che hanno commercio con le Fate e praticano la stregoneria! Per me è una cosa normale. Se sapesse cosa combinano i sacerdoti delle mie parti….Non che voglia farlo anche io, ma non mi sembra una buona ragione per non approfittare dell’occasione che lui mi ha offerto».

«Come lo avete conosciuto? Non sapevo niente della vostra amicizia».

«Oh, ci conoscevamo da tempo. Mio zio vi ha raccontato che ogni tanto viene dalle mie parti. Mia nonna ha voluto ospitarlo un paio di volte a casa nostra. Anche lei è rimasta impressionata dalla sua sapienza e dal suo spirito religioso. Magari un po’ particolare, ma senz’altro molto intenso. Poco dopo che io e voi ci siamo conosciuti, ho voluto andare a visitare il Santuario d’Ambra e ci siamo incontrati qui, per puro caso, o per volontà di Sil. E lui mi ha proposto di diventare la sua consorella. Mi è sembrata subito un’idea bellissima».

Velthur conosceva abbastanza la gente per sapere che quando un giovane è preso dall’entusiasmo di un ideale, non c’è forza che possa dissuaderlo, a meno che non si tratti di una persona estremamente insicura. Niente di quello che avrebbe potuto dire sarebbe servito a farle cambiare idea, ma solo ad allontanarla da lui, peggiorando la situazione.

LOVECRAFT 204: I LEGAMI FRA K'N-YAN, YOTH E N'KAI.

domenica 21 agosto 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 176° pagina.


I colpi tonanti non si sentivano più,  mentre invece, illuminati da un’innaturale luce rossa, c’erano tre creature impazzite ognuna in modo diverso: un eremita che leggeva un libro in modo spiritato, un dottore in preda a una crisi isterica, una gatta inferocita non si sa contro chi o che cosa.

La scena gli era apparsa così assurda da essere, oltre che spaventosa e disorientante, quasi esilarante.

Quando si erano allontanati da quel luogo e Velthur si era calmato, e gli aveva spiegato cosa era successo, la cosa era apparsa ancora più assurda a Menkhu, a tal punto da spaventarlo e affascinarlo allo stesso tempo.

Si era convinto che l’eremita fose uno stregone avvezzo alla magia nera.

Soprattutto, lo affascinava quel particolare del suo progetto di costruire un tappeto volante con cui viaggiare in giro per il mondo, una cosa che invece Velthur considerava una pura follia. Ma ormai non era più certo nemmeno il dottore, di cosa fosse follia oppure no…

Da quella mattina, avevano parlato parecchie volte di quello che era successo, e soprattutto del fatto che Velthur non aveva più avuto il coraggio di andare a trovare l’eremita pazzo, anche facendosi accompagnare da Menkhu.

All’inizio, Velthur era riuscito ad aggrapparsi alla spiegazione che gli intrugli alchemici di Aralar fossero sfuggiti a qualche ampolla avvelenando l’aria, e facendo uno strano effetto sia a loro due che alla gatta Ashtair, ma era una spiegazione monca, perché Menkhu era rimasto abbastanza lontano dalla casa, che tra l’altro aveva la porta e le finestre chiuse. Gli stranissimi rumori che aveva sentito non potevano essere frutto di allucinazione.

Anche quella mattina parlarono di cose inerenti a quel giorno di terrore. In particolar modo, del libro Le Dottrine Misteriche di Cthuchulcha, che forse era il vero fulcro di quegli strani fenomeni.

«Allora, quando vai a Enkar a prendere quel libro maledetto?».

«Non riesco a trovare il coraggio. Ho preso un impegno con il mio amico, gli ho fatto acquistare il libro, ma non ho il coraggio né di farmelo mandare, né di andare a Enkar a prendermelo. Ho paura di quel libro, di quello che ci può essere scritto. Ho paura che abbia veramente il potere di rendere pazzi, o di evocare forze ignote».

«Beh, vai a prenderlo e poi lascialo nella tua biblioteca fino a quando non avrai trovato il coraggio di leggerlo».

«Non ne sarei capace! Non resisterei alla tentazione di leggerlo subito. Sono troppo curioso…. e nello stesso tempo ho paura».

«Secondo me sei già diventato matto come Aralar. In ogni caso, sei terribilmente complicato. Comunque, se non vuoi andarci tu, andrò io a prenderlo ad Enkar, e poi lo terrò in custodia io, lo nasconderò in una caverna, oppure lo affiderò a qualche mio amico fattore che lo terrà in cantina…. sperando che non ammuffisca nel frattempo!»

«Tu, da solo, a Enkar? Ma non sei mai stato in una città. Non è un posto per Sileni!».

«Mi credi un bambino? Cosa hanno di così spaventoso le città? Mi piacerebbe tanto vederne una.

Mio padre mi ha raccontato che una volta è stato a Enkar, e che all’inizio ha avuto paura nel vedere così tanta gente, ma poi si è divertito un mondo! Dai, dammi i soldi per pagare il tuo amico e mandami a prendere il libro!»

Stavano ancora discutendo su cosa fare con quel libro, che una figura femminile in lontananza alzò la mano in segno di saluto verso di loro, dal sentiero che conduceva alla fattoria degli Akapri.

Quando fu a pochi metri di distanza da loro, Velthur quasi non credette ai suoi occhi.

«Harali! Non immaginavo che sareste venuta qui! Avete letto il libro che vi ho fatto avere tramite questo grosso mascalzone di Menkhu?».

«Come avrei potuto mancare questa occasione, mio caro dottore? Da sola, sarebbe bastata come pretesto per uscire dal mio paesello sperduto nei boschi…. ma ora che ho deciso di andarmene da Tulvanth, avevo una ragione in più per venire, dato che d’ora in poi vivrò qua vicino».

«Ah, davvero? E dove? Avete trovato lavoro ad Aminthaisan, o in qualche villa nobiliare?».
«Oh no, no. Niente del genere. Mi farò monaca eremita anche io, per servire la Luce di Sil. Vivrò presso l’eremo del Reverendo Padre Aralar Alpan, che voi già conoscete. Lui mi inizierà alla vita

LOVECRAFT 203: GLI ZOMBI DI K'N-YAN

sabato 20 agosto 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 175° pagina.


Menkhu ormai portava sempre i rozzi vestiti da pastore che usava anche suo padre, e come lui si faceva dare cibo dai contadini od ospitare nei fienili dalle fattorie locali in cambio di lavoretti o per intrattenere le famiglie nelle sere che si facevano sempre più lunghe.

Pareva che fosse un buon affabulatore anche lui, anche se non forse al livello superlativo di suo padre. Forse perché non aveva ancora la stessa pluridecennale esperienza in merito e anche la vastissima conoscenze di storie, fatti antichi e moderni e leggende provenienti da tutto il paese ed oltre.

C’erano tanti modi con cui un Sileno poteva rendersi utile, perché quelli della sua stirpe erano più alti e molto più forti degli Uomini, anche se non come dei Giganti, e in più avevano il potere di vedere nel buio come i gatti, e di avere un udito e un olfatto molto più fine di qualsiasi Uomo. Difficilmente un malintenzionato non ci avrebbe pensato diverse volte ad avvicinarsi ad una fattoria sorvegliata da un Sileno.

Il fatto poi che avesse quel pelo di un rosso carota fiammante, creava un’ambivalenza nei suoi confronti. Alcuni seguivano la superstizione che i rossi sono malvagi per natura, altri quella invece secondo cui sarebbero dotati di poteri magici. Questi ultimi lo consideravano una specie di portafortuna, e ci tenevano parecchio alla sua amicizia. Anche perché, appunto, un Sileno di pel rosso metteva ancora più paura di uno di un altro colore.

Non aveva mai vissuto con gli Uomini prima d’allora, ma ora sembrava averci preso gusto. Il mondo umano finiva sempre per incuriosire i Sileni, perché se da un lato la vita del popolo della foresta era libera e senza padroni e priva di preoccupazioni che non fosse quella di procurarsi il cibo e un buon riparo, dall’altra non aveva tutte quelle cose strane e curiose che gli Uomini possedevano, e che affascinavano e divertivano i Sileni.

Così, questa ambiguità di atteggiamento faceva sì che i Sileni vivessero, per scelta, perennemente ai margini della società umana, cercando di goderne i vantaggi senza subirne le catene.

Ma Menkhu aveva un motivo in più per avvicinarsi al mondo degli Uomini.

Non era solo l’approfittare del vino, della birra e del sidro, e dei cibi che non si potevano trovare nella foresta, come i formaggi, i salumi, gli ortaggi e i funghi sott’olio, le marmellate, la panna e i dolci, le carni e i pesci affumicati.

Non erano solo le mille luccicanti e belle cose che possedevano gli Uomini nelle loro case e nei loro templi, né le grandi feste campestri, e i prodigi alchemici con i metalli e altre sostanze.

Era anche il fatto che tutto gli stava apparendo come una straordinaria avventura.

Tutto quello che stava succedendo, più che spaventarlo lo appassionava, o meglio trasformava la paura in una sorta di piacere.

Se ne era accorto quella mattina in cui aveva bussato all’eremo di Aralar Alpan, dopo aver osservato in distanza l’eremita ed il dottore entrare nella piccola casa di pietra intagliata.

Se ne era rimasto là, seduto sotto un albero a poca distanza, aspettando pazientemente che il dottore uscisse dall’eremo. Poi aveva notato arrivare la grossa gatta, che si era messa a grattare sulla porta prima che le venisse aperto.

La gatta si era comportata in modo strano: gli era passata accanto come se non avesse nessuna paura degli estranei, e gli aveva mandato un miagolìo gentile, come per salutarlo, poi aveva proseguito tranquilla e sicura di sé. Era quasi come se l’avesse invitato a seguirla.

Poi dopo qualche minuto che era entrata in casa, Menkhu aveva cominciato a sentire degli strani rumori, come degli echi profondi e tonanti.

Ci volle un po’ per capire che stavano venendo dall’interno dell’eremo, perché anche con il suo fine udito da Sileno, il suono appariva così innaturale da non capacitarsi che venisse da dentro la casetta di pietra. Sembrava quasi che nel piccolo edificio ci fosse una sorta di pozzo, o di caverna, dal cui fondo provenivano dei colpi, o dei tuoni, che risalivano da un profondo abisso vuoto sotto il monte.

Solo dopo aver accettato l’assurda evidenza, si era deciso a bussare alla porta dell’eremo, ma non aveva ricevuto nessuna risposta. Sembrava invece che i colpi si facessero sempre più forti e lunghi.

E quando aveva aperto, si era trovato di fronte al più assurdo degli spettacoli.

LOVECRAFT 202: L'INGEGNERIA GENETICA DI YOTH

venerdì 19 agosto 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 174° pagina.


Se non mi credi, vedrai tu stesso la mattina del prossimo giorno di usiltin, quando andrai alla Polenta Verde, e vedrai assieme a tutto il popolo riunito la Regina con i Giganti affiancati, sopra la folla. Io sarò accanto a te anche allora, senza che nessuno se ne accorga, e ti mostrerò i pensieri di tutti quanti, non solo della Regina e delle sue due enormi guardie scure, ma anche di tutti gli altri dignitari, e vedrai quanto meschini e vuoti siano i loro pensieri.

Ti farò vedere il terrore dei Giganti  e ti farò rendere conto che molte delle tue paure non hanno ragione di essere.

Tanto grossi per niente! Essere grandi non significa essere potenti e coraggiosi, ricordatelo!»

La cosa che in seguito, ripensando a quella conversazione, Erkan si ricordò sempre per prima invece, fu che aveva pensato che razza di mondo potesse essere quello delle Fate, dove non è possibile nascondere niente a nessuno, nemmeno i propri sentimenti, e dove non era possibile mentire.

Gli Uomini non potevano vivere senza mentire, agli altri o a se stessi. Erkan, e qualunque altro Uomo, non potevano neanche immaginare una vita, una comunità, un regno dove la menzogna era bandita da una perenne trasparenza di tutte le menti e di tutte le azioni.

Da quel giorno cominciò a domandarsi se un Uomo potesse sopportare di vivere in compagnia delle Fate per tutta la sua vita.

Solo molto tempo dopo riuscì a convincersi che sì, era possibile, grazie a quelle grandissime forze dell’animo umano che sono l’abitudine e la rassegnazione, forse le risorse più potenti dell’essere umano.

Erkan guardò il corteo regale allontanarsi lungo la strada lastricata, sentendo un nodo alla gola perché il suo amico segreto Azyel gli aveva smontato i suoi miti infantili.

Non poteva capire che, anche se uno Gnomo non poteva mentire, aveva comunque cercato di presentargli la verità in un modo tale che potesse essere utile a un fine ben preciso: far sì che il bambino non avesse altri miti personali che quello del popolo fatato.

Spesso neanche un adulto può capire che la verità non è mai neutrale, e sicuramente non lo poteva capire un bambino come Erkan.

Verso sera, un corriere proveniente a cavallo dalla villa dei Tezanfalas, che si trovava fra il paese di Aminthaisan e la Polenta Verde, annunciò all’alkati di Arethyan che la Regina avrebbe visitato il Santuario d’Ambra la mattina di usiltin, in modo che il popolo non dovesse abbandonare il lavoro per assistere alla cerimonia di benedizione.

Velthur, anche se era un Avennar e non era certo interessato a ricevere la benedizione della sacra Kyrenni, aveva deciso di andare anche lui. Inoltre, era facile che in quel grande assembramento di persone qualcuno potesse sentirsi male, o che avvenissero degli incidenti a causa della calca.

Inoltre, quello Gnomo malefico di Azyel gli aveva detto che lui e Menkhu avrebbero fatto meglio ad andarci, perché sarebbe successo qualcosa di importante e non potevano mancare.

Non sapeva dire cosa doveva succedere, perché le Fate non avevano saputo vedere un’immagine chiara al riguardo, avevano visto solo che molta gente sarebbe stata sconvolta da ciò a cui avrebbe assistito. Ma cosa sarebbe successo, non erano riuscite a scoprirlo. L’unica immagine che vedevano, legata all’evento della benedizione della Regina, era una luce rossa in cielo. Guarda caso.

La mattina di usiltin, molti contadini si erano recati presso il Santuario d’Ambra ancor prima del sorgere del sole, per poter essere in prima fila quando fosse giunta la Regina.

Al popolo non sarebbe stato permesso di entrare nel tempio nel momento della visita regale. Solo i kametheina e gli athumna avrebbero potuto entrare nella sala sotterranea, mentre gli etarna, i plebei, avrebbero atteso fuori il momento in cui la Kerynni sarebbe salita in cima alla Polenta Verde per benedire il tempio e il popolo riunito.

Fra i mattinieri, ovviamente, c’erano Velthur e Menkhu. Aspettando pazientemente e molto tranquillamente il grande evento, rimasero appoggiati a un noce di uno dei filari presso l’entrata dell’ipogeo, conversando in attesa dell’evento. Azyel non si era fatto vedere, ma l’Uomo e il Sileno erano convinti che lo Gnomo fosse presente, magari invisibile, magari abilmente camuffato da cespuglio o da pietra, o magari anche da essere umano.

LOVECRAFT 201: GLI INNATURALI "GYAA-YOTHN" DI K'N-YAN

giovedì 18 agosto 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 173° pagina.


A me interessano invece i Giganti della sua guardia. Chissà quali imprese gloriose hanno compiuto, chissà quale potenza dimostrano in battaglia. Vorrei poter combattere al loro fianco, essere un soldato come lo è stato mio padre quand’era giovane».

«I Giganti…. già, i Giganti. I giovani Uomini vorrebbero tutti essere come loro. Credono che loro siano l’incarnazione della potenza, perché sono alti, grandi e grossi e dai muscoli possenti…. Ma vuoi sapere cosa sono i Giganti, dentro di loro? Vuoi sapere veramente quanto sono potenti? Sai bene che nessuno può nascondere i propri sentimenti a uno del nostro popolo, te l’ho dimostrato.

Mi crederai se ti dico cosa vedo nelle loro anime, se te lo dico? O dovrò mostrarti i loro sentimenti e i loro pensieri in una chiara visione proiettata nella tua mente?».

«Forza, allora. Dimmelo! Lo voglio sapere!»

«Ah, mio giovane Erkan. Cosa credi che provino i Giganti ogni volta che vedono la gente come te, che si affolla attorno alla vostra augustra e sprezzante Kyrenni? Cosa credi che pensino, ogni volta che devono guardare le masse umane dei Thyrsenna nelle vostre grandi città? Te lo dico io: paura. Loro hanno paura di voi, una paura ancestrale. Sai perché camminano così imperiosamente, guardando indifferenti di fronte a loro? Per non dovervi vedere in faccia, per non dover scoprire nei vostri occhi odio e terrore e desiderio di ucciderli. Loro sono terrorizzati da voi, e cercano continuamente di non farlo vedere!» 

«Ma come è possibile? Come potrebbero avere paura di noi, che siamo tanto più piccoli e deboli di loro?».

Lo Gnomo mandò una risata sibilante, sinistra. Erkan pensò che la sua risata era quanto di più inquietante avesse sentito, persino del rumore di zoccoli in giro per la casa che aveva sentito nella notte prima della scomparsa di Thymrel. Sembrava il sibilo di un serpente.

«Voi Uomini giudicate la potenza dalle dimensioni. Non siete neanche capaci di vedervi per quello che siete! Nelle lontane terre d’Oriente vive un gigantesco animale chiamato elefante, che prova un terrore folle per il più piccolo topolino, perché ha paura che gli entri nel naso e gli arrivi fino al cervello per divorarlo!

Quando vedi uno scorpione o un serpente velenoso, mio piccolo e buon Erkan, non hai forse paura di loro e ti allontani spaventato? Eppure il serpente e lo scorpione sono molto più piccoli di te, molto di più di quanto un Uomo sia più piccolo di un Gigante.

I Giganti vivono nella paura degli Uomini, perché sanno che gli Uomini sono moltitudini, e che sono molto più pericolosi e feroci del più velenoso e aggressivo dei serpenti.

Hanno paura perché questo mondo è ormai vostra proprietà, e loro hanno perso il loro dominio da millenni. Loro sono i poveri e dispersi superstiti di una stirpe quasi estinta, mentre voi siete diffusi ovunque. I più forti siete voi, Erkan. Non te ne sei mai accorto? Questo mondo appartiene ormai agli Uomini, non lo sapevi? Fate, Giganti, Nani e Sileni sono ormai figure di contorno, i protagonisti qui siete voi.

Sai perché sono solo due? Te l’hanno raccontata la storia della venuta dei Giganti nel Veltyan? Vennero secoli fa da oltre il mare con una nave, un piccolo gruppo di supestiti disperati che fuggivano dall’avanzata degli Uomini nelle lontane terre oltre l’Oceano Meridionale. Erano solo trentatre, gli ultimi resti di un popolo che un tempo era stato numeroso e potente.

Prima di allora, i Thyrsenna credevano che i Giganti si fossero tutti estinti con il Diluvio.

La Kyrenni di quel tempo li accolse benevolmente e dette loro come sede una montagna ai confini orientali del Veltyan.

Ella sperava che si moltiplicassero in poche generazioni, così che un un giorno il Veltyan avrebbe avuto un imbattibile esercito di Giganti che lo difendessero ai suoi confini, minacciati dall’invasione dei cavalieri nomadi dell’Oriente.

Per il momento, si accontentò di averne solo due nella sua guardia personale, come segno di prestigio e di potenza.

Ma si sbagliò, perché i Giganti non divennero numerosi, la loro stirpe crebbe molto lentamente, e ancora adesso sono solo due i guerrieri che i Giganti della montagna di Tituan forniscono alla Regina. Gli altri se ne stanno nei loro rifugi, lontano dagli Uomini, paurosi e solitari.

LOVECRAFT 200: K'N-YAN E IL MITO DI AGARTHI

mercoledì 17 agosto 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 172° pagina.


Le guardie umane invece, anch’essi con le loro armature di sottile e resistentissimo acciaio adamantino, tenevano d’occhio che nessuno si avvicinasse troppo, e da alcune sembrava emanare un disprezzo palpabile.

Al contrario la Regina, quando passò di fronte ai Ferstran, accennò un saluto benevolo sollevando la mano sinistra in segno di benedizione, ed elargì un sorriso, come lo elargiva a tutti i fedeli sudditi che si erano riuniti per ammirarla come un’apparizione divina.

Portava la dorata corona cilindrica e turrita del Veltyan, che come un casco le racchiudeva il capo e nascondeva i suoi capelli.

Aveva quarant’anni, ma ne dimostrava trenta. Merito delle costose pozioni alchemiche che ritardavano l’avanzare dell’età.

Erkan, guardandola, pensò che gli sarebbe piaciuto essere uno della guardia reale, e marciare accanto ai due Giganti, e conoscere le storie delle imprese guerresche a cui avevano partecipato, e magari ricevere altri sorrisi benevolenti dalla Regina, ogni giorno della sua vita.

Ma mentre fantasticava, guardando il retro della carrozza che proseguiva verso la villa dei Tezanfalas, sentì una voce che usciva da un cespuglio alla sua destra, una voce maschile, profonda, vibrante e non umana, che riusciva a udire distintamente nonostante il rumore delle trombe, del corteo, degli schiamazzi e delle urla del popolo entusiasta.

«Sai cosa pensava la Regina, mentre vi guardava? Sai cosa nascondeva il suo sorriso così affabile?».

Erkan si voltò, e fra le foglie del cespuglio sempreverde notò due grandi occhi neri dalle pupille brillanti. Era Azyel, lo Gnomo che aveva incontrato diverse volte intorno alla fattoria nelle settimane precedenti, e con il quale aveva quasi fatto amicizia.

Però, solo lui pareva vederlo, e anzi lo Gnomo gli aveva chiesto di non parlare di lui con i suoi familiari.

«Sì, Erkan. La bella Regina dalla lunga veste di seta purpurea e dalla corona d’oro splendente, cosa credevi che pensasse di te, di tutti voi, mentre vi guardava e fingeva di elargirvi sguardi di benevolenza e affetto? Pensava: “maledetti mangiatori di castagne e di lumache, pieni di parassiti e di sporcizia. Perché a gente ignorante e bifolca come questa è stato dato il privilegio di trovare un tesoro antico come questo?” Questo pensa, questo continua a pensare da quando le è stata annunciata la scoperta del Santuario di Silen e le è stata descritta la sua magnificenza. La Regina vi disprezza tutti quanti, nonostante siate il suo popolo».

Erkan gli rispose bisbigliando, per non farsi sentire da suo padre. Sapeva che per farsi capire dal popolo fatato non era necessario parlare a voce alta. Anzi, non era necessario neanche aprire bocca. Bastava solo concentrarsi sulle parole da dire.

«Perché dovrebbe disprezzarci? Solo perché mangiamo castagne e lumache? A me piacciono sia le lumache che le castagne, che male c’è a mangiarle?».

«Perché castagne e lumache sono il cibo dei poveri. Le mangia chi va per i boschi e i campi in cerca di cibo, non le mangiano i ricchi, se non per condire i loro cibi raffinati di cui voi poveri contadini non sapete niente. La sua vita non è la vostra, non ha niente a che vedere con voi.

Ma una Regina delle Fate non penserebbe e non agirebbe mai così. Una Regina delle Fate mangia le stesse cose del suo popolo, veste la stessa stoffa, una stoffa che tra l’altro fa lei per tutto il suo popolo, e vive nelle stesse case in cui vive il suo popolo.

Che sovrana è, quella che non è vicina al suo popolo e alla sua vita? Come potresti essere leale a un capo del genere, sapendo cosa pensa di te e della tua gente? Come si può amare una Regina così, piena di inutili orpelli, vanità e superbia? Non ammirarla, non amarla, perché lei non ricambierà il tuo amore, e non avrà riconoscenza per i sacrifici che potresti fare per lei. Non così le nostre Tre Madri, che sono veramente delle madri per il popolo, e non solo di nome, come questa».

«Non me ne importa niente della Regina! Il Veltyan non è la Regina! I soldati combattono per il bene del Regno Aureo, per il bene dei Thyrsenna, non per la Regina.

LOVECRAFT 199: CARATTERI DELLA RELIGIONE DI K'N-YAN

martedì 16 agosto 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 171° pagina.


Una delle parti trasparenti era una sorta di cabina in cui si vedeva la Regina, seduta su di un trono di quarzo alchemico di color verde smeraldo, simbolo del Regno Aureo, che salutava il popolo riunito lungo i lati della strada, che veniva tenuto indietro dalle guardie reali e soprattutto dalle temibili figure dei due Giganti alti tre metri, figure magnificenti ed incredibili, dentro le loro armature anch’esse di acciaio adamantino come la carrozza, ma con l’interno laminato d’argento, per dare alle corrazze un aspetto specchiante.

I due Giganti erano la principale attrazione, subito dopo la grande carrozza regale. Perché, se da quelle parti non si era mai vista una Regina, del pari non si era mai visto un Gigante, che ormai erano una stirpe rara e generalmente molto isolata dal mondo degli Uomini.

Dopo essere passato per il paese, il corteo regale proseguì per la strada lastricata, passando di fronte al sentiero che conduceva alla fattoria dei Ferstran, i quali ovviamente erano tutti là, o quasi, proprio all’imboccatura del sentiero.

La più emozionata, ovviamente, era la piccola Eukeni, che sperava di poter vedere la Regina dentro la carrozza, per poter fantasticare di essere al suo posto.

Ma la sua avidità di vedere la Regina non era superiore a quella di suo fratello Erkan di vedere i due Giganti della guardia reale.

Il suo più grande stupore fu nel vedere che i Giganti avevano una pelle scurissima, che si  poteva vedere solo sui loro volti barbuti e sulle mani. Da quelle parti non si era mai visto nessuno con la pelle tanto scura, né si era mai immaginato che potessero esistere persone, umane o no, con la pelle di quel colore.

Anche se le storie che arrivavano dai porti del Regno Aureo parlavano spesso delle isole dei Mari del Sud dove vivevano popoli barbarici dalla pelle scura, di fatto la gente semplice si figurava semplicemente genti dal colorito scuro come un contadino abbronzato sotto il sole estivo, ma non di quel colore bruno che rendeva i Giganti, agli occhi della gente di Arethyan, ancora più terrificanti della loro statura e delle loro armature scintillanti.

Stranamente poi, le loro lunghe capigliature e le loro barbe che uscivano da sotto gli elmi erano di un castano chiaro, che sotto la luce del sole assumeva toni di biondo cenere, e questo rendeva ancora più strano e impressionante il loro aspetto.

«Padre, ma sono bruni quasi come un guscio di castagna!» gridò Erkan non appena poté osservarli che avanzavano ai lati dei cavalli della carrozza regale, con le spade sguainate.

«Perché i loro antenati vennero secoli fa dalle calde terre oltre i Mari del Sud, dove il sole è tanto forte che scurisce la pelle di chiunque».

«E le loro barbe e le loro chiome sono chiare, invece! E i loro occhi sono neri! Una volta la sacerdotessa Thanxiel mi ha raccontato che i Giganti erano pallidissimi, con i capelli bianchi e gli occhi splendenti, e avevano sei dita nelle mani e nei piedi».

«Quelli di cui parlava erano i Giganti di prima del Diluvio. Erano una razza diversa da questa. Questi sono i Giganti della Montagna, i loro lontani discendenti, e sono molto diversi. Ma se noti, anche loro hanno sei dita nelle mani, e sicuramente ce le hanno anche nei piedi».

Solo allora Erkan si accorse che era proprio così. Neanche le Fate avevano sei dita nelle mani e nei piedi. Per la prima volta, Erkan vide qualcosa che lo affascinava più del popolo fatato.

Larsin aveva avuto la saggezza di dire ai suoi familiari di starsene abbastanza discosti dal sentiero, perché sapeva che se fossero rimasti troppo vicini al corteo mentre passava, le guardie avrebbero potuto respingerli brutalmente.

I due Giganti guardavano impassibili di fronte a sé, indifferenti ai gruppi di piccoli Uomini che correvano abbandonando il loro lavoro nei campi e nelle fattorie verso la strada per osservare uno spettacolo che ai loro occhi probabilmente non avrebbero più potuto vedere in vita loro, perché si faceva fatica a credere che la Regina potesse tornare là un giorno, per quanto prodigioso e magnificente fosse il Santuario d’Ambra. Abituati a sentirsi esclusi dal centro dell’impero, non potevano ancora rendersi pienamente conto di essere adesso al centro dell’attenzione.

LOVECRAFT 198: LA RELIGIONE DI K'N-YAN

lunedì 15 agosto 2016

LOVECRAFT 197: IL DECADIMENTO DELL'ARTE E DELLA SCIENZA A K'N-YAN

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 170° pagina.


E siccome la casa è grande, la nostra famiglia è numerosa e abbastanza prospera, direi che un bambino in più o in meno non fa differenza, anche se fa differenza per me. Loraisan per me è un figlio come un altro, né più né meno».

«Lodevole, mia cara, ma considera comunque il mio consiglio».

La conversazione poi si spostò su argomenti più frivoli, cioè su come prepararsi all’arrivo della sovrana, su come organizzare i festeggiamenti e via dicendo. Da quel che si diceva, la Regina, dopo la visita al Santuario, sarebbe salita in cima al grande tumulo per dare una benedizione generale al luogo e al popolo raccolto ai piedi del tumulo stesso.

Essendo non solo la Madre della Nazione, ma anche l’immagine di Sil sulla Madre Terra, la Regina era anche il rappresentante supremo del clero dei Thyrsenna, perciò la sua benedizione aveva un valore particolare.

Nei giorni seguenti, l’alkati di Arethyan decretò che il paese fosse tenuto quanto più possibile pulito e in ordine per la visita della Regina. Bisognava cercare di nascondere alla meno peggio l’indigenza e la sporcizia, per dare meno possibile l’impressione di essere uno squallido villaggio di straccioni di confine.

Inoltre, annunciò che la monarca sarebbe arrivata ai primi giorni del mese dell’Arciere. Sarebbe passata prima per Enkar, per fare visita ai due Shepenna della provincia, poi sarebbe venuta assieme a loro ad Arethyan, provenendo da sud sulla strada lastricata che andava lungo il corso dell’Eydin, dentro la sua carrozza di adamantino acciaio alchemico, progettata e costruita per proteggerla da ogni pericolo. Sarebbe stata preceduta, affiancata e seguita dai suoi cavalieri, dalle sue amazzoni, dai due Giganti della guardia regale, dai membri della sua famiglia e diversi Sommi Maestri.

Sarebbe passata per Arethyan e avrebbe proseguito nella campagna, fino alla villa della famiglia patrizia dei Tezanfalas, dove sarebbe stata ospitata per tutto il periodo della sua visita al Santuario d’Ambra.

Molti si domandarono perché la Regina non avesse aspettato la primavera seguente per fare la visita al Santuario di Silen, e se ne dispiacquero. Non semplicemente per il fatto che era una stagione migliore per viaggiare, ma anche perché ci sarebbe stato più tempo per organizzarsi, e magari in quell’occasione sarebbe venuta molta più gente, dato che la notizia avrebbe avuto il tempo di giungere a province più lontane. Non tutte le contrade del paese erano provviste di una sfera di cristallo alchemico che potesse far giungere le notizie all’istante, e molti dovevano ancora arrangiarsi con i messaggeri a cavallo.

Pareva però che la Regina avesse una grande impazienza di vedere quel luogo di cui le avevano raccontato cose mirabolanti. E pareva addirittura che tale visita non sarebbe stata l’unica.

Una mattina di turmutin, il settimo giorno del mese dell’Arciere, le trombe d’oro rosso del corteo regale annunciarono al popolo di Arethyan che l’eletta sovrana di tutti i Thyrsenna stava arrivando con il suo seguito.

Ci mise pochissimo, il suono delle trombe, a venire accompagnato dalle grida di giubilo dei paesani, alcuni dei quali correvano per le strade verso la strada lastricata che, fiancheggiando il fiume, incrociava la strada principale del villaggio.

Il sacerdote Atar Kalpur ordinò al più forte dei suoi schiavi di salire in cima al tempio di Sil per suonare le bronzee campane tubolari con la mazza di ferro, per celebrare il grande evento.

Ne risultò un bel frastuono.

Il corteo regale non si fermò passando per il villaggio, ma procedette comunque abbastanza lentamente perché il popolo riunito potesse ammirarlo in tutta la sua magnificenza, e osservare la Regina che salutava tutti con la mano e con molti sorrisi.

L’enorme carrozza della Regina, trainata da ben otto cavalli e con sei ruote di bronzo e acciaio, pareva un enorme diamante con i bordi ornati d’elettro. In parte era trasparente, essendo fatta principalmente di adamantino acciaio alchemico, simile al cristallo più brillante, in parte sembrava fatto di specchi dorati. In realtà si trattava di altre lastre di acciaio alchemico, rivestite all’interno di un sottile strato di elettro.

domenica 14 agosto 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 169° pagina.


Ero quasi tentata di vedere se la cosa avrebbe funzionato, mettendogli un coltello sotto la gola, ma lui si è stancato di me prima che potessi realizzare i miei propositi.

Però ho sempre un caro ricordo di lui, e non sono riuscita ad abbandonare del tutto la speranza di ricondurlo a Sil e agli Dei. Lo ricordo sempre nelle mie preghiere. Per questo mi dispiace sentire che non stia tanto bene. Ma chissà, forse sarebbe l’occasione buona per tornare alla carica….».

«Oh, io non voglio certo scoraggiarti dal riprovarci, ma secondo me è irrecuperabile. È sempre stato strano, e adesso mi sembra che lo diventi sempre più… di recente poi lo si vede spesso in compagnia di un giovane Sileno di pel rosso, un tizio di nome Menkhu. Pare che sia il figlio del vecchio Prukhu, il quale invece non lo si vede più in giro. Questo Menkhu va spesso a trovarlo a casa sua.

I pettegolezzi del momento dicono che il dottore abbia cominciato a frequentare il belk, perché pare che sia andato qualche giorno anche lui alle Colline di Leukun a parlare con le Fate. E poi, si sa, quasi tutti i Sileni vanno al belk anche loro. Anzi, l’hanno inventato loro, no?».

«E tua cugina Tarkisi, la strega, lei che conosce bene le Fate, che cosa ne dice? Lei sì che va al belk, no?».

«Oh, mi ha gentilmente fatto capire che non sono affari miei. Quindi niente ulteriori chiacchiere da quel fronte. D’altra parte, lo sai, le streghe sono legate da un patto di segretezza, come tutti quelli che partecipano al belk».

«Peccato. Comunque la cosa è davvero sospetta. Un Sileno di pel rosso, eh? Sono i peggiori. I più dediti alla stregoneria…. Velthur frequenta proprio cattive compagnie….».

Per i Thyrsenna, capelli e peli rossi erano sempre stati visti come un segno di malvagità. Chi era di pel rosso, era cattivo, a qualsiasi stirpe o popolo appartenesse. Questo soprattutto perché era la caratteristica comune alle popolazioni barbariche del freddo nord, che tante volte avevano invaso il Veltyan nel corso dei secoli, attirate dal clima temperato e dalla magnificenti ricchezze della civiltà.

«E dimmi, mia cara, cosa pensate di fare con il piccolo Loraisan? Vi farete chiamare mamma e papà da lui? Gli direte che è stato adottato? Certo, non lo potrete più nascondere…. con tutto il chiacchierare che ha generato la scomparsa di sua madre…. e certamente per lui sarà doloroso sapere che è stato abbandonato senza un motivo poco dopo essere nato».

«Ma noi non sappiamo se è stato veramente abbandonato! Non sappiamo che fine abbia fatto Thymrel né perché sia scomparsa! Gli diremo la verità e basta perché, come hai detto tu, in un paese piccolo la verità non la si può nascondere. Qui ormai sanno tutti la storia di sua madre, e se noi gli raccontassimo una storia diversa, lui verrebbe a sapere la verità da altri. E poi lui magari ci odierebbe a morte, perché gli abbiamo nascosto la verità».

«Allora forse dovreste affidarlo ad altri, farlo crescere con un’altra famiglia che potrebbe nascondere le sue vere origini, e magari non fargli sapere che è un figlio adottato, o che magari sua madre è morta di parto, così che crescendo non si tormenti all’idea che possa essere ancora viva, e si perda in inutili ricerche…. Secondo me sarebbe la cosa migliore per lui. E poi voi avete già sette figli, cosa ve ne fate di un figlio in più? Va bene che sono altre due braccia per i campi, ma la vostra famiglia è molto numerosa, non mi sembra che abbiate questa urgenza di avere altri rampolli».

Non si poteva dire a una Reverenda Madre o a un Reverendo Padre di farsi gli affari suoi e di non fare commenti sulle decisioni prese nelle famiglie d’altri. Né si poteva dire loro che stavano sproloquiando o blaterando una serie di sciocchezze.

Si poteva al massimo dire che si sarebbe considerato il loro consiglio, e poi limitarsi a fare quello che si voleva. In fin dei conti, costava solo la fatica di ingoiare l’irritazione nell’ascoltarli. Bastava considerarli come il ronzìo di un moscone passeggero.

Syndrieli aveva imparato a farlo da molto, come la maggior parte dei Thyrsenna, perlomeno quelli non così stupidi e remissivi da non poter capire di venire infastiditi.

«Ne parlerò con Larsin. Ma siccome questo bambino l’abbiamo visto nascere in casa nostra, e siccome abbiamo aiutato sua madre - che era sola e derelitta - a metterlo al mondo, e siccome è l’unica cosa che ci resta di lei, penso proprio che lo faremo anche crescere qui in casa nostra.

LOVECRAFT 196: "K'N-YAN" E LA FANTASCIENZA SOCIOLOGICA

venerdì 12 agosto 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 168° pagina.


riconoscono le nostre dottrine, non accettano i sacri dogmi della nostra religione. Rischia di perdere il pronto raggiungimento del Cielo Etereo, se comincia ad avere commercio con le Fate…».

E cominciò a farle la predica su quanto pericolose per la salvezza dell’anima fossero le Fate e i loro culti segreti votati a Dei oscuri e poi tanti altri discorsi maternalistici come la sua professione richiedeva, quella più vecchia del mondo dopo la caccia, la pesca e lo spionaggio, e immediatamente seguita dalla prostituzione.

Syndrieli, che era una donna devota e obbediente ai sacerdoti, era anche una donna pragmatica e poi sapeva difendersi bene dagli sproloqui della Reverenda Madre Thanxiel.

«Forse non doveva farlo, certo, ma quando è tornato dal bosco delle Fate, mi ha detto che avrebbe cercato di non bere più di un bicchiere al giorno, o anche niente, se ci fosse riuscito, e che si era fatto una ragione della scomparsa di Thymrel, e che voleva continuare a vivere e a lavorare per me, per i nostri figli, ma anche per il piccolo Loraisan, che è tutto quello che gli è rimasto di Thymrel.

Capisci…. lui si era preso una cotta per Thymrel. Era come una figlia per lui, ma era anche qualcosa di più. Non che io fossi gelosa. Larsin è sempre corso dietro alle donne.  Ha avuto parecchi matrimoni notturni durati magari una stagione o due, poi è sempre tornato da me. È uno di quegli uomini che non si accontentano di frequentare una donna sola, ma che poi accettano di averne tra i piedi una soltanto. E ho sempre accettato di essere io, quella povera disgraziata. In fin dei conti, prima è sempre stato un buon compagno, e soprattutto un buon padre, una dote rara in un uomo.

Io non so cosa gli abbiano detto le Fate, non ha voluto parlarne, ma lui mi ha spiegato che gli hanno detto ciò che aveva bisogno di sentirsi dire per andare avanti, e tanto mi basta.

Gli ho chiesto se d’ora in poi sarebbe andato al belk, o se avrebbe praticato la stregoneria, e lui ha detto che non ne voleva neanche sapere di quelle cose. Quindi, perché pensare che va incontro all’ira di Sil e degli Dei? Ieri è andato persino a fare delle offerte, di fronte alla statua di Sil in fondo al nostro sentiero. Io sono contenta così, e tanto mi basta».

«Non sai nemmeno cosa si sono detti lui e quell’infedele apostata del dottor Laran?».

«No, non ha voluto dirmelo. Sai, io non sono mai stata contenta dell’amicizia fra lui e il dottore, appunto perché temevo che potesse metterlo su una cattiva strada. Però devo dire che il dottor Laran non ha mai cercato di convertirlo.

Ma questa volta credo che lo devo addirittura ringraziare. È cambiato anche il dottore, devo dire, ma non in meglio. È sempre teso, sembra avere paura di qualcosa. Mi hanno detto che fa domande a tutti quanti, per sapere se tutto va bene, se stanno tutti bene…. a un certo punto qualcuno gli ha chiesto se per caso temesse che arrivasse un’epidemia, e lui pare abbia risposto: “sì, di follia!” Poi però ha aggiunto che stava solo scherzando, e che gli dispiaceva di aver allarmato qualcuno, perché non c’è niente di cui aver paura, almeno non più del solito. Peccato che l’abbia detto in un modo che nessuno ci ha creduto. È dimagrito, anche. Cioè, magro lo è sempre stato, ma adesso lo è ancora di più. Così alto, poi… sembra un palo di legno».

«Peccato. Spero che non si sia sciupato. L’ho sempre trovato un uomo attraente, così colto, intelligente…. per un certo periodo di tempo ho praticato il matrimonio notturno con lui…. i vantaggi di non essere regolarmente sposata. Oggi purtroppo la maggior parte dei kametheina etariakh segue le abitudini della gente di città e degli alti sacerdoti… io però ho sempre tenuto duro. Niente matrimonio di convivenza, per me».

Syndrieli vide, insperatamente, la possibilità di essere lei a fare la morale all’amica.

«Tu con lui??? Una sacerdotessa con un infedele nemico degli Dei??? Ma scherziamo? E se l’avessero saputo? Non avresti rischiato di venire sconsacrata?».

«Ma io l’ho fatto anche per cercare di convertirlo! Dopo l’amore, parlavamo sempre di religione, e io cercavo di convincerlo ad affidarsi a Sil… invano. Lui continuava a dirmi che era troppo legato alla dottrina dell’Aventry, e che non vi avrebbe rinunciato per nulla al mondo, anche se ammetteva che se fosse stato minacciato di morte, forse avrebbe abiurato la sua fede per salvarsi la vita. Convinto, ma non martire, mi ha detto.

LOVECRAFT 194: MASSIFICAZIONE, DIVERTIMENTO E RELIGIONE A K'N-YAN.