lunedì 31 ottobre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 236° pagina.


assurdamente venisse conservato in un sarcofabo ripieno di liquido imbalsamante, perché potesse conservarsi nei secoli.come si faceva con tutti i membri delle classi abbienti, in omaggio alla vecchia credenza popolare che il mondo dell’aldilà non fosse sostanzialmente diverso da quello dell’aldiqua e che conservare il corpo del defunto avesse la sua importanza.

Come l’avessero messo nel sarcofago, però, non era ben chiaro. Pareva che avessero sovrapposto le varie parti una sopra l’altra come una pila di orrorifiche frittelle: le ossa e le cartilagini sotto di tutto, con i visceri avvolti nella cassa toracica, poi sopra i muscoli e il grasso, poi sopra il sistema circolatorio, infine quello nervoso e per finire la pelle come un orrido sudario. Il tutto poi immerso nell’azzurro liquido alchemico imbalsamante, con la tradizionale lampada perenne ai piedi del corpo, per accompagnare l’anima del defunto lungo il tenebroso passaggio all’Aisedis.

Ma il rito funebre era stato officiato in tutta fretta, e quasi in segreto, anche se con tutti gli orpelli e gli ornamenti possibili. Axili aveva presenziato lei la sepoltura, alla quale era stata presente anche la giovane Harali, che era stata avvertita subito da Menkhu, non appena era arrivato alle Colline di Leukun.

Lei naturalmente si era fiondata subito ad Arethyan, dove era andata subito a parlare con il dottore Velthur per farsi riferire da lui cosa era successo, dopo che Menkhu aveva provato a spiegarle, senza riuscirci, cosa era successo ad Aralar. Menkhu poté dirle solo che “un essere misterioso o una forza ignota aveva smembrato l’eremita, ma mantenendo intatti tutti i pezzi”. Una cosa non molto chiara da dire.

Si era presentata alla porta del dottore, coperta solo dal grigio mantello incappucciato dei monaci eremiti, per chiedergli la sua versione dei fatti. Velthur fu felice di accoglierla in casa e di parlargli. Sarebbe stata l’occasione di sapere se aveva qualcosa da raccontargli riguardo gli ultimi giorni di Aralar e quello che stava facendo.

Aveva gli occhi cerchiati, una cosa che non favoriva la sua già scarsa bellezza. Si capiva che non aveva dormito e che probabilmente aveva pianto molto.

«Che cosa farete adesso, Harali? Tornerete nella vostra famiglia, a Tulvanth?».

«No di certo, dottore. Chiederò di poter proseguire l’opera di Aralar. Glielo devo. Ma soprattutto, è tutto quello che mi rimane di lui. Mi aveva dato il suo sapere, mi aveva coinvolto nella sua ricerca della verità, mi aveva trasmesso la sua passione, e adesso questa sua passione è l’unica eredità che mi lascia, a meno che non mi permettano di vivere ancora nel suo eremo, studiare i suoi libri e vivere come è vissuto lui».

«Intendete dire che proseguirete nelle stesse ricerche alchemiche che stava compiendo lui?».

«Io non so neanche cosa stesse facendo, dottore. Lo so che voi vorreste sapere da me qual è l’esperimento che lo ha ucciso, ma non ne so niente. Lui mi aveva detto di andare a passare il Tinsi Garpen Silal a casa della mia famiglia, perché lui sarebbe stato molto impegnato nelle sue ricerche, e che preferiva non avere nessuno attorno per quel periodo. Eravamo d’accordo che sarei tornata dopo la festività e che lui mi avrebbe mostrato se era riuscito nel suo intento.

Diceva sempre che l’alchimia è soprattutto una forma di elevazione spirituale, e che quello che faceva non era solo per la sua crescita spirituale, ma anche per quella di tutti coloro che cercano la verità. E quando lo diceva, io non potevo dubitare che non ne fosse veramente convinto.

Ma forse si è sbagliato in qualcosa, se ha fatto la fine che ha fatto…. ».

Una fitta di senso di colpa invase Velthur, non poteva confessarle che temeva che in realtà Aralar non aveva commesso nessuno sbaglio, e che la vera causa della sua morte era lui. Un senso di colpa che ora gli imponeva di occuparsi di lei, di proteggerla da tutta quella storia assurda, se poteva.

«E non avete paura di fare la stessa fine, se intraprendete la sua stessa strada?».

«Ma io non ho certo la pretesa di fare le stesse cose che faceva lui! Tra l’altro, come ho detto non so neanche cosa stesse facendo! C’ho messo un po’ per convincere la Reverenda Madre Axili Kalpur che non ero a parte degli esperimenti di Aralar. Certo, qualcosa avevo visto…. L’avevo visto utilizzare i gigli rossi che gli raccoglievo in giro per i campi per fare quegli strani fili che sembrano d’ambra…. So che aveva usato anche altre sostanze vegetali, miele, resine varie, altre erbe…. Ma più in là non so niente. Non so neanche a cosa servissero quei fili!

LOVECRAFT 264: ANCORA SU E. DERBY NE "LA COSA SULLA SOGLIA".

domenica 30 ottobre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 235° pagina.


e brillante, e sembrava quasi che la luna fosse più grande e vicina e più fulgente. I suoi mari apparivano di un azzurro più intenso, meno schermato dagli arabeschi di bianche nuvole che a volte avvolgevano il globo del satellite nel loro manto splendente. Strano, perché era proprio quando era avvolta di più dalle nubi, che la luna splendeva, e non quando si diradavano e permettevano di vederne le terre e i mari.

Proprio in quelle notti comparve una cometa, grande e rossa, che appariva nel cielo ad occidente appena il sole tramontava, con la coda nella direzione contraria al sole.

Per i Thyrsenna, le comete erano presagi divini che indicavano grandi eventi storici, normalmente guerre, epidemie o altre disgrazie, oppure la nascita di un grande personaggio. O anche entrambe le cose.

Ma i presagi minacciosi in quei giorni sereni non sembrarono poter guastare l’umore della gente, poiché tutto alla fine si riduceva a nuovi racconti paurosi che circolavano ormai abitualmente nelle lunghe sere d’inverno attorno al focolare.

Lo sapeva bene, Menkhu, che si ritrovò a raccontare un numero incredibile di volte la storia di quando lui e il dottore avevano scoperto le orme nella neve del misterioso mostro a sei zampe che sembrava essersi volatilizzato nel nulla, e di come seguendole erano finiti nell’eremo dell’eremita pazzo, per scoprire la fine che aveva fatto.

Naturalmente, ogni volta ometteva molti particolari, per esempio quello di cosa aveva fatto il dottore ai misteriosi fili ambrati che avevano trovato sugli alberi, che tra l’altro adesso erano stati tutti accuratamente  tirati via dal bosco.

Alcuni erano stati mandati a degli esperti alchimisti perché riuscissero a capire di cosa erano fatti, altri invece erano stati presi per curiosità da gente del posto, la quale aveva scoperto poi che si poteva usarli come corde di una qualità e una resistenza davvero incredibili, sia quelli trasparenti ed ambrati, sia quelli opachi e rossi, alterati dalla Chiave d’Argento.

Appena scoperto quello, molti ne avevano fatto man bassa, fino a farli sparire tutti. Ma non erano molti quelli che ne avevano approfittato, perché la maggior parte della gente pensava che fossero opera di un’infausta stregoneria, e che portassero male.

E considerando quello che era successo, era difficile pensare che si trattasse solo di una superstizione.

Ma in quei giorni, cominciò a scendere su Arethyan anche uno strano oblìo. Anche se le leggende popolari si moltiplicarono in quell’inverno, destinate a rimanervi nei decenni a venire, di fatto la gente sembrò dimenticare, nella vita di tutti i giorni, gli strani eventi che aveva vissuto.

Le giovani donne e i bambini non fecero più strani incubi, non raccontarono più di aver visto un misterioso demone dalla grandi ali nere e dagli occhi rossi che li spiava dalla finestra, né alcun nottambulo uscendo dall’osteria disse di avere visto quello stesso demone appollaiato sopra i tetti delle case, osservarlo dall’alto per poi spiccare il volo verso il cielo e sparire.

La gente cominciò a non parlare più delle misteriose visioni che aveva avuto nel Giorno del Prodigio Scarlatto, ormai se ne era stancata.

Certo, c’erano ancora i vari fanatici religiosi che predicavano per le strade urlando che spaventosi eventi si annunciavano, e che bisognava compiere molti sacrifici ed offerte agli Dei per stornare la punizione celeste. Ma chissà perché, la gente non sembrava dare loro molta retta. Persino il presagio dell’apparizione della cometa, anch’esso sfruttato nelle prediche dei sacerdoti, non sembrava colpire più di tanto, se non per il bello spettacolo che dava la sera.

Sembrava che la morte di Aralar avesse steso un bianco velo di oblìo su tutta la regione.

Aralar fu sepolto nella locale necropoli, nelle gallerie scavate nella roccia sui fianchi di una delle colline presso Arethyan. Questo su richiesta della Reverenda Madre Axili Kalpur, che pareva avere avuto una notevole ammirazione per l’eremita, e che si era dimostrata particolarmente addolorata per la sua morte.
Gli aveva trovato un posto nella parte della necropoli riservata ai sacerdoti, e aveva fatto in modo di poter celebrare un funerale con tutti gli onori dovuti a un rispettabile membro della teocrazia del Regno Aureo. Addirittura aveva fatto in modo, a sue spese, che il suo corpo dissezionato

LOVECRAFT 263: L'ALTER EGO DI LOVECRAFT NE "LA COSA SULLA SOGLIA".

sabato 29 ottobre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 234° pagina.


Velthur si bloccò, meditando di passare per il bosco, per evitare la bestia. Certo, se per caso c’erano anche i suoi compagni, allora aveva poche probabilità di fuggire.

Cominciò ad arretrare lentamente. La gatta rimase immobile a guardarlo con i suoi grandi occhi verdazzurri, il cui colore risaltava enormemente perché le pupille, per la luce del mattino, erano strettissime. Erano come due dischi di turchese, bellissimi e ammalianti. Quasi ipnotici.

Poi la gatta miagolò. Un miagolìo acuto, fortissimo, strepitante.

Non era un verso di rabbia o di minaccia, sembrava piuttosto un urlo di richiesta di aiuto, un pianto di disperazione. E infatti proseguì, un miagolìo dopo l’altro, uno più angoscioso dell’altro.

Quei miagolìi non fecero che spaventare ulteriormente Velthur, i cui nervi, se non avevano ceduto prima, era solo per un miracolo. Giusto quello che gli serviva per crollare. Cominciò a urlare anche lui contro la gatta.

«Il tuo padrone è morto, e io non posso fare niente per te. Non è stata colpa mia, lo capisci? Ho dovuto farlo, o avrebbe scatenato su di noi le forze che hanno inghiottito lui. Non è stata colpa mia, lo capisci?».

Ma la gatta continuava a urlare, disperatamente. Lo guardava con i suoi occhi brillanti, e lo chiamava, ininterrottamente.

«Vattene via, maledetta. Lasciami andare, torna nel tuo regno, torna sulle montagne con i tuoi simili, non c’è più niente per voi qui!».

E continuava a indietreggiare, e a quel punto la gatta cominciò ad avvicinarsi a lui, ma non lo raggiunse.

Si fermò nella neve, sempre sul ciglio del sentiero, e continuando a miagolare disperatamente, cominciò a scavare nella neve, come se cercasse qualcosa, come un cane scava la terra per trovare un cadavere.

E poi lo tirò fuori. Un giglio rosso, che chissà come era spuntato sotto la neve, proprio all’inizio dell’inverno. Dopo averlo dissepolto, lei guardò di nuovo il dottore, continuando a chiamarlo.

Solo allora Velthur capì cosa cercava di dirgli Ashtair.

Non era finita. Aralar era morto, ma i Fiori dell’Ignoto no, continuavano a vivere, a crescere, persino sotto la neve. E l’Ignoto sarebbe tornato.

Ashtair continuava a urlare, e urlare, e allora avvenne quella che forse era l’ultima visione terrificante. I suoi occhi cambiarono colore, divennero neri. Neri come quelli delle Fate, e le piccole pupille da nere divennero luminose, ma non del bagliore dorato degli occhi delle Fate, bensì di un intensa luce verde-azzurra, come invece lo erano prima le sue iridi. Le sue pupille mandarono un bagliore sfolgorante, come se fossero due stelle, di un fulgore che quasi ipnotizzò il dottore, il quale finalmente si decise a fuggire attraverso il bosco urlando, con i miagolii di Ashtair che continuavano imperterriti, disperati.

Quel pianto miagolii senza fine, Velthur non avrebbe più potuto dimentic dimenticarlo per il resto della sua vita vissuto, come una perenne accusa per l’atto che aveva inconsapevolmente commesso e che l’aveva messo di fronte a un orrore che superava ogni sua immaginazione.

Per sempre.





CAP. XX: IL BENEVOLO OBLIO





A parte lo strano e inquietante caso delle orme mostruose nella neve e della misteriosa morte di Aralar, quello fu il più bel Tinsi Garpen Silal ad Arethyan da parecchi anni a quella parte.

Il paese era coperto di neve, ma il sole continuò a splendere per parecchi giorni, come a dire che quella era proprio la sua festa, quella in cui dimostrava che le tenebre non potevano vincerlo, e che lui, o meglio lei, risorgeva sempre.
Tutto rimase imbiancato per giorni e giorni sotto la luce del breve sole solstiziale, e la notte le stelle erano fulgentissime, come mai era accaduto d’inverno. La Via Lattea pareva particolarmente bianca

LOVECRAFT 262: L'INIZIO DE "LA COSA SULLA SOGLIA".

venerdì 28 ottobre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 233° pagina.


Non fu facile per Velthur rovistare nella penombra quasi notturna dell’eremo, anche quando i suoi occhi si furono abituati all’oscurità. Fu diverso invece per Menkhu che, essendo un Sileno, poteva vedere nel buio come un gatto.

Velthur disse a Menkhu di dare un’occhiata all’altro tavolino, quello vicino al giaciglio dell’eremita, e lì infatti, in un piccolo cassetto, trovò un grosso libro scritto a mano.

Quando Velthur lo portò alla luce esterna, lo aprì e poté constatare subito che era il suo diario. Non poteva essere più fortunato.

Provò a leggere un brano a caso.



XII Ariete 3089 d. F.R.A., satrastin.

Ormai mi sono assuefatto a questo posto. Ho cercato di farmi vedere dal numero minore possibile di persone, preferisco tenere un profilo il più possibile basso prima di ottenere il primo risultato. A parte qualche paesano di Aminthaisan e di Tulvanth, nessuno sa che esisto e che sono qui, e così deve rimanere il più a lungo possibile.

Solo quando avrò la chiave del potere, quando sarò sicuro che è mia e soltanto mia, potrò rivelarmi del tutto. Allora nulla avrà più importanza, nessun ostacolo sarà insormontabile, nessun oppositore potrà resistermi.

Ho chiesto a Horyel se potrò ottenere quello che voglio, ma lei non è stata capace di rispondermi. Ogni volta che prova a guardare nel mio futuro, vede qualcosa che la spaventa e la fa inorridire a tal punto che non sa dirmi assolutamente nulla di ciò che vede. La sua visione si ritrae, e io rimango solo con le mie decisioni.

Ma ho passato troppo tempo a inseguire la verità e a coltivare la speranza della mia vendetta, per potermi tirare indietro ora.



«È davvero il suo diario, Menkhu! Qui, sono sicuro, c’è la soluzione di molti misteri, ma dobbiamo nasconderlo! Se lo trovano i gendarmi, lo sequestreranno e finirà chissà dove, nelle polverose scaffalature di qualche tribunale o nelle mani di qualche sacerdote ricco e corrotto alla ricerca di segreti proibiti.

Lo devi nascondere tu, amico mio! I gendarmi potrebbero perquisirmi la casa, quando dovremo dirgli che siamo entrati nell’eremo. Già essendo un Avennar non sono visto molto bene dalle autorità, se penseranno poi che custodisca qualche segreto su quello che è successo….. e anche questo amuleto. Potrebbero decidere di portarmelo via, e invece può servirici ancora. Riportalo a tuo padre, e portagli anche il diario di Aralar. O portalo alle Tre Madri del Fato. L’importante è che non li abbiano i gendarmi. Un giorno verrò io a riprenderli di persona, quando e se le acque si calmeranno. Mi hai capito? Vattene, ora! Parti subito per le Colline di Leukun, prima che arrivi qualcuno!».

Menkhu annuì, con un’espressione timorosa e confusa. Poi si avvolse nel mantello e scappò sulla neve, con i suoi possenti balzi.

Vedendolo allontanarsi, Velthur sentì un sollievo immenso. Solo allora si sentì come liberato da un peso enorme. Ora poteva sperare che fosse veramente finita.

Era stato un finale orribile e assurdo, ma forse era davvero finita.

O forse no, perché avviandosi di nuovo lungo il sentiero giù per la grande collina,  vide presso il sentiero, seduto sulla neve, qualcosa che gli fece gelare di nuovo il sangue nelle vene.

La gatta di Aralar era là, seduta sulle zampe posteriori, lorda del sangue del suo padrone. Doveva essere presente anche lei, quando l’eremita aveva cominciato la sua opera alchemica, e quando il suo corpo era stato diviso nei suoi tessuti principali in quel modo irreale, e allora il suo sangue era ricaduto sull’animale, sporcandolo tutto. Eppure né lui né Menkhu l’avevano notata all’interno dell’eremo, né l’avevano vista sgattaiolare fuori, una volta aperta la porta.

Ma ora la gatta stava seduta là, in attesa, apparentemente calma, grande quasi come un cane di media taglia, con gli occhi chiarissimi sbarrati, fissi su Velthur.

LOVECRAFT 261: INTRODUZIONE A "LA COSA SULLA SOGLIA".

giovedì 27 ottobre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 232° pagina.


«Perché, riesci ad immaginare qualcosa di peggio di quello che abbiamo trovato qua fuori?».

«Menkhu, niente di quello che è successo l’avrei potuto immaginare, e men che meno la fine di Aralar. Già quello che ho visto qui va oltre ogni mia immaginazione, figuriamoci cosa potremmo trovare nel suo maledetto laboratorio alchemico!».

«Oh, come sei bravo a incoraggiare la gente! Mi viene quasi voglia di dirti di aprirla tu, la porta! In ogni caso, entri prima tu!»

Dal detto al fatto, Menkhu riuscì ad aprire la porticina dell’eremo senza troppi problemi. In un paio di spallate, la porta si spalancò cigolando sinistramente.

All’interno, era il buio più completo. Non si vedeva neanche la luce della lampada perenne che Aralar teneva nel locale. Però si notava un chiarore che traspariva da sotto il divisorio di legno che nascondeva il laboratorio alchemico.

«Prego, dottore, entrate prima voi. Sicuramente voi siete più esperto di me sull’argomento».

Con cautela, Velthur aprì la porticina nel divisorio, e per la prima volta poté vedere il piccolo laboratorio alchemico di Aralar.

Rimase deluso, perché a parte uno strano e luminescente tavolino a treppiede al centro della stanza, non c’era niente di strano in quel luogo. Si era fatto chissà quali fantasie su quel laboratorio, e adesso vedeva che non c’era nulla di diverso da un comune laboratorio di alchimia di provincia, come se ne potevano vedere nelle farmacie di città, o nei laboratori dei fabbri, dove gli alchimisti metallieri lavoravano per produrre materiali speciali.

Ma alla luce del tavolino si accorsero che sul pavimento di terra battuta c’era una larga macchia scura di bagnato, che aveva una forma riconoscibile. Velthur si chinò per toccarla.

«Ora abbiamo trovato anche il suo sangue. Dev’essere qui che è iniziato il suo assurdo smembramento. Quando la forza misteriosa l’ha preso e fatto a pezzi, lui è caduto qui, sul pavimento, e il suo sangue vi si è riversato tutto quanto, lasciando la forma del suo corpo. Senti l’odore nell’aria? Ricorda quello di un maiale sventrato. Lui era attorno a questo strano tavolino alchemico, di cui non ho mai visto niente di simile, e stava compiendo chissà quale opera alchemica, quando è stato preso!».

«Quella forza o quell’entità misteriosa può prendere anche noi, Velthur!».

«No, non credo. Ci avrebbe già presi, se fosse ancora nei paraggi. L’opera che l’ha evocata è cessata, il meccanismo alchemico che Aralar aveva creato non funziona più da quando ho fatto toccare i fili d’ambra elastica al mio amuleto…. Guarda tu stesso!».

Velthur si tolse il tetraedro di argento alchemico dal collo e lo avvicinò al tavolino. Nel momento in cui si avvicinò, il tetraedro divenne sempre più brillante, fino a splendere quasi come una lampada perenne, mentre il tavolino sprizzava scintille con uno strano crepitìo.

«Vedi? L’alchimia dei Nani interferisce con l’alchimia di Aralar. Perché entrambe hanno a che fare con l’Altrove, e in qualche modo l’uno altera l’altro!».

«Lo altera un po’ troppo, direi… o ho io le traveggole, o è il tavolino che si sta deformando…. Ha come gli angoli sbagliati!».

Infatti, le scintille diminuirono, ma successe qualcos’altro quando Velthur appoggiò il ciondolo sul tavolino. Sembrò incurvarsi e diventare convesso, mentre anche le tre gambe a forma di sottile zampa di drago sembrarono deformarsi anch’esse, seguendo la curvatura della tavola alchemica che reggevano, mentre anche i geometrici disegni alchemici incisi sul tavolo sembrarono cambiare. C’erano degli angoli acuti che sembravano diventare ottusi, dei cubi che sembravano diventare piramidi, e pentacoli che sembravano diventare prismi esagonali. Era un caos che sfidava le leggi della geometria.

«Toglilo di lì, non sappiamo cosa potrebbe succedere! Toglilo!».

Velthur non se lo fece ripetere.

«Bene, allora vediamo di togliere il disturbo prima che venga qualcuno, ma prima voglio rovistare questo posto. Forse lui aveva un libro dove scriveva i suoi esperimenti alchemici. Se lo trovassimo, forse potremmo capire cosa stava facendo, per chi lo stava facendo e se c’è qualcun altro che può farlo al suo posto. Facciamo presto!».

LOVECRAFT 260: DA "LA CASA DELLE STREGHE" A "LA COSA SULLA SOGLIA".

mercoledì 26 ottobre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 231° pagina.


Velthur aveva già immaginato di cosa si trattasse ancora prima di avvicinarsi, e la sua intuizione si rivelò esatta. L’oggetto roseo era la sua massa muscolare e adiposa, l’altro era il suo sistema circolatorio, con tanto di cuore, polmoni e reni. La massa muscolare, che dava l’idea di un uomo schiacciato e scuoiato, era particolarmente rivoltante, ma anch’essa era del tutto priva di sangue, cosa che gli dava quell’aspetto roseo, mentre il poco grasso dell’eremita gli dava sfumature giallognole. Il sistema circolatorio non era molto diverso, nel suo orrore, dal suo sistema nervoso. Ma persino quello era privo della minima traccia di sangue. Le vene giacevano bluastre come sterpaglia azzurra e violacea, o scarlatta, gettando sulla neve la sagoma di quello che un tempo era stato un corpo umano, nel cui mezzo spiccavano le masse compatte, rosse e rosate, del cuore e dei polmoni.

Se lui avesse potuto avere tutte quelle parti sezionate – se davvero si poteva usare un termine del genere per quello che aveva di fronte – dentro la sala di un’università di medicina, e avesse potuto mostrare a colleghi e studenti quel prodigio, nessuno avrebbe avuto la possibilità di studiare e spiegare la complessità del corpo umano in modo più completo ed accurato.

«Manca solo il suo apparato digestivo, e poi abbiamo il corpo completo. Ma immagino che lo troveremo un poco più in là».

«Manca anche un’altra cosa, a dire il vero…. il suo sangue».

«Sì. Forse quello se lo sono tenuto. O magari lo troveremo dentro un’anfora, chissà… Ma pensa poi che bel lavoro sarà per gli inservienti del cimitero ricomporre tutto questo per farlo sembrare un corpo umano».

«Credevo che noi Sileni riuscissimo a scherzare in ogni occasione, ma tu ci batti tutti! Non hai paura che possano fare la stessa cosa a noi? Per me, è stato il mostro che ha lasciato le orme sulla neve».

«Noi non stavamo facendo quello che stava facendo lui, Menkhu. Credo che quello che gli è successo sia colpa mia. Io devo aver interferito nel prodigio alchemico che stava compiendo, e le forze che lui ha scatenato gli si sono rivoltate contro quando io ho alterato il sistema di fili che aveva creato nel bosco.

Sono inorridito all’idea che quello che vediamo sia causa mia, ma nessuno può sapere cosa sarebbe successo se non l’avessi interrotto, se davvero l’ho fermato io. Forse quello che è successo a lui sarebbe successo a qualcun altro, a persone innocenti come Harali, che era diventata sua amica, e che a dire il vero dovrebbe essere qui nell’eremo».

«No, per lei non ti devi preoccupare. È tornata a casa dei suoi per la festa del Tinsi Garpen Silal, me l’ha detto una sua conoscente».

«Potevi dirmelo prima! Una preoccupazione in meno per me. Comunque, meglio così. Significa che nell’eremo non c’è nessuno, a parte forse quella maledetta gatta….».

Poco dopo scoprirono anche l’apparato digestivo di Aralar, che penzolava come un lungo serpente morto,  abbandonato sui rami di un leccio, completo di esofago, stomaco, fegato, pancreas e intestino.

L’intestino, sia crasso che tenue, era teso in tutta la sua lunghezza dai rami di un albero all’altro, come un disgustoso verme bianco, il cui ultimo tratto era dato dalle mucose degli sfinteri.

Ma anche in quel macabro resto c’era un particolare notevolmente orrorifico: la “testa” del serpente era costituita dalle gengive e dai tessuti molli della bocca, in mezzo a cui penzolava la pelle della lingua. La sua massa muscolare, invece, doveva essere assieme all’ammasso di altri muscoli e grasso più in là.

Tutto sempre intatto, perfetto, come scollato dalle ossa, senza causare la minima lacerazione.

«Bene, ora che sappiamo che hanno sparpagliato tutto il corpo in questo modo per il bosco, vediamo di entrare all’eremo prima che arrivino qui i gendarmi chiamati da quello che è fuggito. Dobbiamo cercare di capire qualcosa di quello che è successo».

«Temevo che l’avresti detto. E naturalmente adesso mi toccherà sfondare la porta a spallate!».

«Non ti chiederò però di essere tu il primo a dare un’occhiata dentro. Nulla vieta di pensare che ci troveremo anche di peggio».

LOVECRAFT 259: IL CROLLO DELLA SOFFITTA DELLA CASA DELLE STREGHE

martedì 25 ottobre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 230° pagina.


che ancora adesso gli faceva male. Inoltre, si vedeva che era lo scheletro di un uomo di piccola statura.

Il problema era che anche lo scheletro era perfettamente ripulito in tutte le sue parti, e non si vedeva una sola goccia di sangue, come se fosse lì da molto tempo, completamente spolpato e ripulito dai predatori e dalle formiche. Ma esaminandolo meglio, Velthur notò che non era esattamente così, infatti si accorse subito che aveva anche tutte le cartilagini intatte e al loro posto. Addirittura, la cartilagine del naso era ancora attaccata ai buchi delle cavità nasali, e così anche tutte le altre ossa, risultavano ancora l’una attaccata all’altra. E lo scheletro era ancora caldo, anormalmente caldo.

«No, se la pelle è qualcosa di impossibile, lo scheletro è ancora peggio! Come hanno fatto a estrarre le ossa mantenendole tutte attaccate fra loro, senza lacerare la pelle? È sempre più assurdo!»

«Io invece mi domando: chi è stato?».

«Beh, l’unica è vedere se ci sono altre tracce qua attorno… e con cautela. Ma teniamoci pronti a scappare anche noi, che forse è l’unica cosa saggia che potremmo fare!».

Velthur cominciò a cercare con lo sguardo nel bosco oltre la radura, fino a quando non si accorse di qualcos’altro, appeso guarda caso a un leccio da cui pendevano anche altri fili ambrati. Un’altra cosa bianca, che non riusciva a identificare. Sembrava una matassa di fili bianchi.

Fece il gesto a Menkhu di seguirlo, ma il Sileno rimase a distanza, e forse fu meglio per lui.

Quando Velthur si fu avvicinato, se non fosse stato un medico abituato a ogni sorta di spettacolo rivoltante, avrebbe sicuramente vomitato per l’orrore, il disgusto e la paura.

Appeso a un albero, mollemente adagiato all’incrocio di quattro fili ambrati, stava un cervello umano perfettamente integro, dal cui retro pendeva il midollo spinale e tutte le diramazioni dei nervi del corpo. Si poteva vedere che la perfetta rete dei nervi disegnava le braccia, le mani, le gambe, i piedi, persino il pene, partendo dal cordone principale contenuto nella colonna vertebrale. E tutto quel sistema nervoso era perfettamente integro.

 Il tutto dava l’idea quasi di un essere mostruoso e filamentoso impiccato ai fili pendenti dall’albero. Ma il particolare più mostruoso erano i due occhi, perfettamente integri e collegati dai nervi al cervello, penzolanti e mossi dalla leggerissima brezza che si faceva sentire tra gli alberi, e che sembravano guardare i due con stupore, come se il loro proprietario si chiedesse come poteva aver fatto quella fine.

E naturalmente, anche lì non c’era una sola goccia di sangue, e il cervello fumava, da tanto emanava ancora calore corporeo.

Anche se ormai Velthur era praticamente paralizzato dall’orrore, notò un altro particolare anomalo. Dalla parte posteriore del cervello, pendeva la ghiandola pineale stranamente ingrossata, enorme quasi come i globi oculari.

Più tardi, Velthur avrebbe scoperto che nella parte posteriore del cranio dello scheletro trovato nella neve c’era una strana infossatura, una sorta di buco nel cranio chiuso solo da una sottile cartilagine, proprio in corrispondenza della ghiandola pineale, e che sembrava essere simile a un’orbita oculare.

Quando riuscì a riprendere il respiro, Velthur indietreggiò senza poter distogliere lo sguardo da ciò che aveva di fronte, e trovò le parole per spiegare a Menkhu ciò che il Sileno non osava vedere da vicino.

«Sono riusciti a strappargli tutto il sistema dei nervi e del cervello in un colpo solo, tutto il sistema nervoso senza spezzare un solo legame, non solo senza spappolare i globi oculari e il cervello, ma addirittura facendoli uscire dal cranio senza romperlo! Menkhu, questa è peggio che stregoneria. È il più spaventoso prodigio che un medico possa vedere in vita sua, e credo anche chiunque altro. Non riesco a immaginare niente di più irreale!».

«Velthur…. non è finita…. Guarda più in là, credo che ci sia il resto da vedere…..in un corpo c’è molto di più di pelle, ossa e nervi, no?».

Infatti a una ventina di metri, in un altro punto del bosco, c’erano altre due cose inidentificabili appoggiate sulla neve, a una distanza di due o tre metri l’una dall’altra, e una appariva di un roseo acceso, mentre l’altro sembrava un altro groviglio, ma di un colore fra l’azzurro e il purpureo.

LOVECRAFT 258: LA MORTE DI WALTER GILMAN NE "LA CASA DELLE STREGHE"

lunedì 24 ottobre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 229° pagina.


«Che cos’è? Non me lo vuoi dire? E perché resti là? Cos’ha di così spaventoso?».

«Io…. vorrei che me lo dicessi tu che cos’è, perché io non ne sono sicuro. Ma di una cosa sono sicuro: è opera di stregoneria, l’opera di un demone maligno!».

«Ho capito…».

Velthur si avvicinò alla cosa che giaceva sulla neve, e che ai suoi occhi sembrava solo un mucchio di stracci sporchi, di un colore biancastro-beige.

Solo quando si fu avvicinato, poté capire meglio di cosa si trattava, e che pure continuava a non capire.

C’era come una massa di lunghi capelli su un lato della cosa, o qualcosa che assomigliava a lunghi capelli crespi e ondulati, color sale e pepe. Quando fu sopra all’oggetto, scoprì che ciò che stava osservando era un ammasso di pelle umana, a cui era attaccata una lunga barba.

La lunga barba brizzolata di Aralar.

Incerto, tremante, prese con le dita della mano sinistra un lembo della pelle vicino alla barba e provò a distenderla in tutta la sua lunghezza. Gli apparve in pochi istanti quello che non aveva mai visto in tutta la sua carriera di medico, e che ufficialmente non era possibile neanche al più esperto sezionatore di corpi umani.

Era effettivamente la pelle di Aralar, ma completamente, assurdamente integra, perfettamente staccata dalla carne, e priva di una sola goccia di sangue, sia all’esterno che all’interno. Anche sulla neve intorno e sotto non si vedeva una sola goccia di sangue. Ed era ancora calda ed elastica, come appena tolta dal corpo.

Si vedevano i fori degli occhi, con le palpebre perfettamente integre e persino tutte le ciglia, e del pari si notavano chiaramente le unghie perfettamente attaccate alla pelle delle dita e dei piedi. Le mani sembravano dei perfetti guanti vuoti.

Non c’era nessun taglio in nessuna parte dell’epidermide, nessuna incisione, assolutamente niente. Era come se tutto l’interno del suo corpo fosse stata sfilato semplicemente fuori dagli orifizi, senza alcuna perdita di sangue, e senza lasciare alcuna traccia al suo interno. E tutto lasciando anche unghie e peli perfettamente attaccati.

In pratica, era qualcosa di orribilmente impossibile.

L’unica cosa che poté dire Velthur guardando Menkhu che continuava a rimanere a debita distanza fu: «Non è possibile….».

«É… è Aralar, vero? L’hanno scuoiato vivo? Ma come hanno fatto a non lasciare il sangue? A non lasciare tagli? Come l’hanno tirato fuori dalla sua pelle?».

«Menkhu, non lo so…. quello che vedo supera le capacità di qualsiasi Uomo. Ma chi ha fatto questo deve essere ancora nei paraggi, perché la pelle è ancora calda. E le urla che ho sentito prima…. Voi avete visto qualcuno? Dove eravate quando si sono sentite quelle urla laceranti nel bosco? Sicuramente era lui mentre veniva scuoiato».

«No, Velthur! No! Le urla le abbiamo sentite dopo aver trovato la sua pelle, non prima! Noi eravamo qui, che stavamo cercando di capire cosa è successo! È stato quando abbiamo capito cosa avevamo di fronte, e poi abbiamo sentito le urla, che gli altri sono impazziti di terrore e sono fuggiti! Non so neanche perché non sono fuggito anche io. Sapevo che eri da solo nel bosco, e ho pensato solo a ritrovarti per farti vedere questo e…. quell’altra cosa più in là».

Indicò un punto nel bosco, alla sua sinistra, dove c’era una sorta di piccola infossatura, e nella quale apparentemente c’era solo la neve.

Poi, guardando meglio, Velthur vide che c’era qualcos’altro oltre ad essa, anch’esso bianco, ma di una tinta diversa. Non impiegò molto a riconoscere un teschio umano, e numerose ossa, riunite in uno scheletro perfettamente composto e disteso sulla neve.
Si avvicinò e notò che doveva appartenere anche quello ad Aralar. Guardando la dentatura del teschio, riconobbe un dente d’avorio che gli aveva notato già parecchio tempo prima, e inoltre su una delle ossa della gamba destra c’era un segno, una sorta di incisione netta e dritta. Una volta Aralar gli aveva detto che durante uno dei suoi viaggi nei Mari del Sud si era beccato un colpo di lancia da un selvaggio in un combattimento su di un’isola selvaggia, che era arrivata fino

LOVECRAFT 257: RIFLESSIONI SUL CROCIFISSO NE "LA CASA DELLE STREGHE".

domenica 23 ottobre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 228° pagina.


Solo quando fu finito, Velthur si accorse che era stato del tutto identico al primo, come fosse il suo l’eco.

Ma non era finita, e un terzo urlo cominciò a sentirsi da un’altra direzione ancora, ma con uguale tonalità. Era sempre lo stesso urlo, inequivocabilmente.

E il terzo urlo non era ancora finito, che ne cominciò un quarto da un’altra direzione ancora. Come se l’uomo che urlava si trovasse contemporaneamente in diversi luoghi e in diversi tempi, prigioniero di una sofferenza continuamente reiterata.

Il peggiore degli incubi che si potesse immaginare, se non fosse stato solo il preludio ad un orrore ancora più grande. Assurdamente enorme e reale.

Alla fine l’intero bosco risuonava dell’eco dello stesso urlo ripetuto decine di volte da tutte le direzioni, la stessa voce che si avvicendava, si incrociava con se stessa, si alternava con maggiore o minore intensita. Ma rimaneva sempre uguale, finche alla fine tutto tacque di nuovo.

Le forme contorte e nere dei tronchi dei lecci, con i loro fili scarlatti che pendevano come budella e nervi insanguinati, sembravano parlargli beffardamente di morte e dolore. Morte e dolore forse provocati solo da lui.

Rimase lì, paralizzato dal terrore per lunghi minuti. Non sapeva cosa fare, avrebbe voluto avviarsi verso l’eremo, ma si accorse che non era neanche sicuro di dove si trovasse.

Stava scivolando sempre più nel panico.

Poi, nel silenzio, un altro urlo, ma questo era un urlo diverso, di paura, non di sofferenza.

Un urlo che appariva appartenere a questo mondo, e non all’Altrove.

«Velthur! Velthur! Vieni subito con me all’eremo! Dove sei?»

Comparve la massiccia figura grigia e fulva di Menkhu, che correva saltando sulla neve, urlando disperato. Appena vide Velthur, non provò neanche a raggiungerlo, ma gli fece cenno di seguirlo immediatamente.

«Velthur! Se non ti sbrighi giuro che ti carico di nuovo in spalla come un sacco di patate! Vieni immediatamente! Solo tu puoi spiegare cosa è successo!»

«Cosa sarebbe successo?»

«Nell’eremo…. nell’eremo non abbiamo trovato nessuno. Era chiuso a chiave, e io ero quasi sul punto di sfondare la porta, quando….  quando…. beh, vieni a vedere! Io non riesco neanche a dirlo, cosa abbiamo visto, e cosa abbiamo trovato!».

«Gli altri, dove sono finiti?».

«Sono scappati, Velthur! Terrorizzati da ciò che hanno visto e sentito! Anche il gendarme! Urlavano che era opera di stregoneria e che i Demoni Oscuri erano usciti dagli Inferi per portarvi tutti i viventi e altre cose del genere. Credo che siano andati a cercare gli altri che abbiamo lasciato in pianura. Ma tu devi essere il primo a vedere quelle cose.

«Quelle??? Vuoi dire che sono più di una?».

«Ti prego, corri! Corri!».

La paura, l’ansia, l’agitazione, l’ostacolo della neve e degli alberi con i loro rami contorti, tutto contribuì a far cadere Velthur lungo disteso nella neve.

«Menkhu, ti prego…. caricami anche stavolta. Mi sento svenire….».

Senza neanche porre un respiro in mezzo, il possente Sileno prese il dottore e se lo caricò in spalla, correndo a perdifiato.

Anche Menkhu stava perdendo colpi, lo si sentiva ansimare come non mai, mentre cercava di farfugliare qualcosa, boccheggiando come un pesce sull’arena. Chiaramente, era sconvolto anche lui.

Nel giro di pochi minuti arrivarono in prossimità dell’eremo, provenendo non dal sentiero, ma dalla parte che dava sulla cima del monte.  C’era un piccolo spiazzo, una radura in cui terminava il sentiero che passava di fronte all’eremo, e là sulla neve giaceva qualcosa di non ben identificabile al primo sguardo.

Menkhu lo indicò a Velthur, senza osare avvicinarsi ulteriormente.

«Là, è là la prima cosa che devi vedere. La seconda è più in là…. !»
«Che cos’è? Non me lo vuoi dire? E perché

LOVECRAFT 256: GILMAN UCCIDE LA STREGA KEZIAH NE "LA CASA DELLE STREGHE"

sabato 22 ottobre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 227° pagina.


«Ai gatti? Dottore…. Mi sembra che questa faccenda vi stia facendo andare fuori di testa. Cos’è questa storia che l’eremita starebbe facendo esperimenti pericolosi? Come fate a saperlo? Cosa avete intenzione di fare? Dovrei lasciarvi qua da solo a fare non si sa bene che cosa mentre noi cerchiamo un eremita con il rischio di incontrare un mostro? E alla fine voi mi dite di stare attento a dei gatti???».

Velthur rimase in silenzio. Non sapeva come giustificarsi. La paura prima gli aveva fatto trovare le parole sbagliate, e ora non gli faceva trovare quelle giuste.

Per fortuna sua intervenne Menkhu, che continuava ad essere stranamente tranquillo.

«Signor gendarme. Se io adesso vi raccontassi tutto ciò che sappiamo mentre ci avviamo all’eremo, compresa questa faccenda dei gatti, sarebbe disposto a lasciare il dottore fare il suo lavoro come meglio crede? Lei lo conosce bene, sa che ci si può fidare di lui. Le prometto che risponderò io a tutte le sue domande, se adesso noi lasciamo qui Velthur e andiamo a cercare Aralar Alpan».

«Va bene, ma per prima cosa voglio che mi spieghi questa faccenda dei gatti!»

Menkhu lo prese sotto braccio e lo spinse gentilmente ma decisamente verso l’eremo.

«Davvero non ha ancora sentito parlare dei famosi gatti di Monte Leccio? Venga, le racconterò di quando il dottore e alcuni suoi amici hanno dovuto scappare da questo monte, inseguiti da un gigantesco branco di gatti selvatici grossi come cani…. ».

«I gatti di Monte Leccio….» brontolò il gendarme allontanandosi verso il sentiero.

Velthur non perse tempo. Forse era una cosa folle e inutile, ma valeva la pena provare.

Raggiunse uno dopo l’altro tutti i fili che pendevano a sufficienza dai rami degli alberi per essere raggiunti e tirati verso terra, e poi vi passava sopra la Chiave d’Argento, che mutava il colore dei fili ad ogni tocco.

Se e quando fosse riuscito ad alterare tutti i fili che le sue braccia potevano raggiungere, avrebbe poi provato ad arrampicarsi su qualcuno degli alberi per completare l’opera. Qualche filo riusciva a strapparlo dai rami, ma altri erano così aggrovigliati che non c’era modo di tirarli, e spezzarli era davvero impossibile.

Man mano che Velthur passava da un albero all’altro, gli sembrava di intuire uno schema, un disegno in quel caos apparente di fili. Gli pareva che i fili fossero stati disposti come per formare una spirale a cerchi concentrici, che probabilmente aveva per centro l’eremo di Aralar.

Se davvero la Chiave d’Argento,  il misterioso amuleto degli Elfi delle Tenebre, aveva il potere di alterare la natura di quei fili, forse sarebbero diventati inservibili, qualunque fosse lo scopo per cui erano stati fatti, o forse semplicemente avrebbero ottenuto un risultato diverso da quello che Aralar intendeva raggiungere.

Ripensandoci, probabilmente stava facendo una cosa pericolosissima, perché non aveva la minima idea di quali fossero le conseguenze.

Il pensiero di questo cominciò a tormentarlo sempre più mentre passava furiosamente, febbrilmente da un albero all’altro, a tal punto che era quasi sul punto di decidere di smettere, quando improvvisamente sentì un urlo lacerante, spaventoso. Un urlo umano, ma orribile.

Aveva già udito un suono simile, quando aveva dovuto aprire la carne di un uomo cosciente per estrargli una punta di ferro arrugginito che gli si era piantata nel ventre.

Era lo stesso urlo di dolore e disperazione, ma non riuscì a capire da dove proveniva. Quello che fu più impressionante, fu che all’inizio l’urlo sembrò molto vicino, poi invece sembrò allontanarsi rapidamente, come se l’uomo che veniva torturato o fatto a pezzi stesse correndo come il vento chissà dove.

Poi subentrò un silenzio di tomba, ma fu per poco. Velthur si era fermato. Continuava a ripetersi: in nome di tutti i Santi, che cosa ho fatto?

Poi subentrò un altro urlo, ugualmente lacerante e terribile, ma che sembrava venire da una direzione diversa, e al contrario del primo, anziché allontanarsi, sembrò diventare sempre più vicino, a tal punto che negli ultimi secondi Velthur era convinto che avrebbe visto il volto della vittima.

Ma non fu così, e l’urlo si interruppe.

LOVECRAFT 255: COMINCIA IL DRAMMA FINALE DE "LA CASA DELLE STREGHE".

venerdì 21 ottobre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 226° pagina.


«Sembra quella sostanza che a volte i nostri marinai importano dai lontani Mari del Sud…. Il caucciù, con cui si fa una sostanza elastica e solida. Ma questa sembra molto più resistente. Deve essere uno dei suoi esperimenti alchemici. Se l’ha inventata lui, questa roba, allora diventerà ricco sfondato. Qualcuno mi passi un coltello, per favore».

Uno dei due volontari gli allungò il suo coltello da caccia, e con quello Velthur provò a tagliare il filo. Anche questa volta senza nessun successo.

«Demone oscuro di un eremita!» sbottò il gendarme «Sapete quanti soldi potrebbe fare vendendo questo materiale come cordame? O magari come tessuto? Quello che non capisco, è perché appenderlo agli alberi!».

«Ce lo faremo dire da lui, e dovrà dare delle spiegazioni convincenti».

«Perché? Non è reato appendere ornamenti agli alberi del bosco, se ha il permesso del proprietario del bosco…».

«Il proprietario del bosco con tutta probabilità non sa nulla di quello che sta combinando quello. Guardate! Sono come una rete stesa tra gli alberi. Sono legati tra di loro, no… anzi, sono fusi tra di loro a un capo e all’altro, come i fili di una ragnatela….».

Velthur si avvicinò a un ramo di un altro albero dove tre fili penzolanti si univano tra di loro. Non si vedevano nodi, né segni di attaccature, era come se i fili fossero cresciuti assieme l’uno attaccato all’altro. La mente di Velthur provò a fare dei paragoni con qualcosa di noto: le radici di una pianta, le diramazioni dei nervi o delle vene in un corpo vivente, i rami sottili di un arbusto.

Si domandò se quelle cose fossero il risultato di una qualche forma di alchimia organica sconosciuta, che avesse creato una nuova, mostruosa forma di vita affine alle piante.

Mentre teneva tra le mani uno di quei grossi fili e rifletteva sulla loro possibile natura, il ciondolo che gli aveva regalato Prukhu, e dal quale non si separava mai, urtò leggermente il filo d’ambra gommosa, e subito Velthur si accorse di qualcosa di sconcertante.

Dove il tetraedro scintillante aveva toccato il filo, questo aveva cambiato completamente aspetto. Era solo una piccola e tenue macchia, ma era ben visibile. Da ambrato e trasparente, il filo era diventato scarlatto e opaco.

Incuriosito, Velthur passò un lato del tetraedro lungo il filo, per vedere se il fenomeno si sarebbe ripetuto.

In pochi secondi, ovunque avesse passato il ciondolo, il filo era diventato tutto color del sangue e aveva perso lucidità e trasparenza.

«Dottore, che state combinando?»

«Non allarmatevi. Sembra che l’alchimia del mio amuleto, opera dei Nani, interferisca con l’alchimia operata da Aralar…. Sentite! Lasciatemi qui a dare un’occhiata a questa rete di fili. Voi andate all’eremo e cercate il Reverendo Padre, fatevi dire che cos’è questa rete e a che cosa serve. Quell’uomo è un esperto alchimista, so che sta facendo esperimenti alchemici di un tipo nuovo e sconosciuto, probabilmente pericolosi. Forse le misteriose orme che abbiamo visto sono legate a quello che sta facendo proprio in questo momento.».

«E perché non venite anche voi e vi fate spiegare voi che cosa sono questi affari, dato che sicuramente lei ne sa molto di più di noi? Che ne sappiamo noi poveracci di alchimia eremitica?».

«Diciamo allora che non abbiamo più tempo da perdere. Credo di aver trovato il modo di rompergli le uova nel paniere. Non ho nessuna garanzia che sia così, e qui solo Menkhu può capire di cosa sto parlando. Io credo che questi fili che collegano gli alberi siano il prodotto di un’alchimia sconosciuta, esattamente come lo è il ciondolo che ho al collo. Sono entrambi il frutto di un sapere ignoto agli Uomini, almeno fino ad ora. E credo che quello che Aralar ha fatto con questi fili, questo amuleto lo può disfare. Ma ci devo lavorare, e devo anche sbrigarmi.

Quindi vi prego tutti quanti: andate all’eremo, e state molto in guardia. Se vedete o udite qualcosa che vi appare anomalo, o innaturale, o addirittura irreale, non indugiate e scappate come il vento, se potete. Non fermatevi a cercarmi, lanciate solo delle urla di richiamo, in modo che sappia che devo scappare anche io.

Oh… e un’ultima cosa: attenti ai gatti….».

LOVECRAFT 254: COMINCIA LA NOTTE DI VALPURGA NE "LA CASA DELLE STREGHE"

giovedì 20 ottobre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 225° pagina.


Se fossero stati dei buontemponi, si sarebbero notate se non delle orme, almeno le tracce che la neve era stata smossa per cancellare ulteriori orme umane.

Ma la neve era immacolata, assolutamente priva di segni di qualsiasi tipo, intatta come quando aveva smesso di cadere.

Certo, c’era il trucco di ripercorrere all’indietro le orme e poi nascondersi da qualche parte oltre il bordo della strada, ma ormai nessuno pensava più a una causa umana.

Qualcuno cominciò a mormorare di incantesimi delle Fate per rovinare la festa alla gente del villaggio.

«E adesso che facciamo?» chiese uno dei gendarmi «Cosa dichiareremo? Che abbiamo visto le tracce di un mostro volante che non siamo riusciti a vedere?».

Il capo dei gendarmi gli disse che era troppo presto per dichiarare qualsiasi cosa. La cosa migliore era continuare a perlustrare la zona.

«Io, se permettete, vorrei dare un’occhiata all’eremo qui vicino» propose Velthur.

«E perché, dottore?»

«Diciamo che dato che l’eremita vive nel bosco di Monte Leccio, e i boschi sono in genere il posto migliore dove delle bestie possono nascondersi, forse lui ha visto qualcosa. Fattorie qua non ce ne sono, quindi l’unico probabile testimone di qualcosa è lui. E poi voglio anche essere sicuro che non gli sia successo qualcosa, se davvero qua nei dintorni può essere passato un mostro volante a sei zampe».

Il capo dei gendarmi fu d’accordo, e lasciò che il dottore si avviasse con Menkhu, uno dei gendarmi e altri due volontari.

Salirono lungo il sentiero di Monte Leccio con parecchia difficoltà. Lì lo strato di neve sembrava essere più profondo. Poi, parecchio prima che arrivassero al sentiero più piccolo che portava all’eremo, Menkhu notò qualcosa nel bosco che mandava un riflesso diverso da quello della neve sugli alberi. Spiccava proprio perché attorno ad esso stranamente non c’era neve.

Era una specie di filo dorato che pendeva da un albero all’altro nel fitto del bosco di sempreverdi. I tronchi neri e la brillante luce del mattino invernale lo facevano risaltare come un ornamento del grande albero del Tinsi Garpen Silal.

Il filo si stendeva in direzione della cima del monte, e sembrava perdersi nel bosco, ma presto il gruppo di vigilanti si rese conto che non era il solo.

«Sembrano delle decorazioni. Sta a vedere che quel matto dell’eremita ha decorato tutto il bosco con fili dorati» disse il gendarme.

«Non credo che l’abbia fatto solo per bellezza» commentò Menkhu.

«Menkhu, tu che sei più veloce di tutti, corri per primo a vedere di cosa si tratta! Credo che sia un’altra delle alchimie di Aralar, anche se non ho la minima idea di cosa possa essere».

Menkhu ubbidì prontamente e ad ampi balzi raggiunse uno degli alberi da cui pendeva uno dei fili dorati, mentre gli altri quattro gli arrancavano dietro.

Quando raggiunse l’albero, il Sileno cercò di tirare uno dei fili che pendevano ad arco come ragnatele, ma si accorse di non poterlo spezzare.

«Dottore, è una cosa stranissima. Non ho mai visto una sostanza del genere. Sembra…. resina elastica, ma resistente come un nervo!».

Menkhu rigirava il filo nei polpastrelli, con una smorfia di perplessità sul volto, che quasi gli faceva digrignare i grossi denti gialli.

Quando anche Velthur poté averlo tra le mani, poté constatare che Menkhu aveva ragione.

Il filo non era d’oro come era sembrato all’inizio, ma ambrato e trasparente, grosso quasi come un dito, e sembrava resina trasformata in gomma. E probabilmente lo era, perché sfregandone la superficie, avvertì un profumo di resina di pino misto stranamente a miele.

Provò a tirare il filo con entrambe le mani da un lato e dall’altro per vedere se si spezzava, ma invano.

Chiese a Menkhu di fare lo stesso con tutte le sue forze, per vedere se cedeva. Nemmeno lui ci riuscì. Era forte come un nervo di bue.
«Sembra quella sostanza che a volte i nostri marinai importano d

LOVECRAFT 253: IL SACRIFICIO UMANO NE "LA CASA DELLE STREGHE"

mercoledì 19 ottobre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 224° pagina.


«Dovremmo pensare che si tratta di tre buontemponi che dopo essersi messi degli strani zoccoli ai piedi, molto ingombranti e pesantissimi, hanno proceduto sulla strada, marciando perfettamente in sincronia… una bella fantasia, non c’è che dire.  E poi, direi che non è possibile. C’è troppa distanza fra un’orma e l’altra. Nessun Uomo o Sileno potrebbe avere una falcata del genere».

«Forse tre Giganti?».

Menkhu non poté fare a meno di piegarsi in due dal ridere, reggendosi con le mani sulle ginocchia.

«È proprio vero che, pur di trovare delle spiegazioni razionali a certi misteri, si finisce con l’accettare spiegazioni ancora più ridicole e balenghe di ogni superstizione! Te li immagini tre Giganti che sono venuti qui con una tormenta di neve solo per marciare uno dietro l’altro, ognuno con le braccia sulle spalle di quello davanti come tre bambini che fanno gli stupidi, con ai piedi degli stranissimi zoccoli di ferro con la base concava e con una scanalatura in mezzo, non si sa bene perché?».

Velthur ridacchiò anche lui.

«Infatti io per primo non riesco a crederci».

Poi ritornarono entrambi mortalmente seri.

«Allora dobbiamo proprio pensare che un misterioso essere gigantesco con sei zampe dagli stranissimi zoccoli è uscito dal fiume e si è incamminato lungo la strada…. Forse verso proprio il punto dove siamo diretti anche noi? E chi  ha il coraggio di andarci, adesso?».

«Menkhu…. se davvero questo essere è reale, chi di noi si salva, adesso? E se ce lo ritroviamo che vaga in paese, qualsiasi cosa sia?».

«Sì, ma…. tutto ciò che abbiamo visto o di cui abbiamo sentito parlare prima di adesso non erano esseri in carne ed ossa, erano spiriti, visioni che venivano da altri posti. Questo invece è un essere reale, fisico. Prima era una cosa da pazzi, adesso è una faccenda pericolosa. Dobbiamo chiamare la gente del paese e fargli vedere questa roba. Dobbiamo dire loro di tenersi armati e pronti ad affrontare questa… questa cosa!»

«Eh, già! Questa festa di Tinsi Garepanusil sarà anche peggio di come me l’aspettavo!»

Corsero quindi in paese e avvertirono il primo che trovarono. Non dettero molti particolari, per paura di non venire creduti. Dissero solo che c’erano delle strane orme sulla strada lastricata in un punto in cui passava vicino al fiume, e che bisognava dare una controllata, e che loro avrebbero seguito le orme per vedere dove portavano.

Nel giro di un’ora si raccolse parecchia gente, e subito il paese tornò nell’isteria collettiva. Molti cominciarono a dire che sicuramente quelle orme arrivavano fino al Santuario d’Ambra.

I gendarmi di Arethyan erano arrivati anche loro, tutti e tre, assieme ai loro collaboratori: civili volontari che prestavano il loro aiuto occasionalmente ai gendarmi, nei casi richiesti.

Dopo molte, concitate discussioni e parecchi tremori, ci si decise a seguire le orme. I gendarmi e i volontari erano armati di spade, archi e frecce, i paesani invece provvisti di forconi, scuri, falci e roncole, o coltellacci da cucina. Menkhu armato solo del suo bastone e della sua forza, Velthur armato solo della compagnia di Menkhu.

Seguirono le tracce con rapidità, saltando da un’orma all’altra, dato che la neve era ben compressa dentro ciascuna di esse, e non creava alcun ostacolo.

Con sorpresa di molti, le orme continuarono anche oltre la zona della Polenta Verde, fino a quando arrivarono ai piedi di Monte Leccio.

Lì si volatilizzarono.

Semplicemente, erano scomparse, e non se ne vedeva traccia da nessuna parte. Era come se il misterioso essere avesse spiccato il volo, o si fosse smaterializzato.

Presto, sarebbe nata la leggenda del misterioso drago o mostro volante a sei zampe con zoccoli, anche se nessuno l’aveva visto direttamente. E infatti ciò non avrebbe impedito che qualche animo suggestionabile dichiarasse  poi di averlo visto vagare nella notte invernale prima della vigilia di Tinsi Garepanusil.

Nessuno era disposto a credere che fosse uno scherzo. Perché dove le orme si interrompevano non c’era nessuna traccia, nel senso assoluto del termine.

LOVECRAFT 252: KEZIAH PORTA GILMAN NEI BASSIFONDI DI ARKHAM NE "LA CASA ...

martedì 18 ottobre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 223° pagina.


un’occhiata, approfittando del bel tempo. Non aveva paura di dover camminare in tutta quella neve, dato che ormai ci era abituato.

«Vengo anche io, Menkhu. E stavolta sarebbe meglio che ti mettessi degli scarponi, non vorrei che ti congelassi le dita dei piedi».

«Ma chi le ha scarpe per dei piedi come i miei? E poi nessun Sileno ha mai portato scarpe, mai. E non credo che avrò delle difficoltà, comunque. Tu, piuttosto. Credi di poter camminare in tutta quella neve fino al Monte Leccio? Scommetto che anche stavolta dovrò portarti in spalla».

«Farò del mio meglio, soprattutto quando si tratterà di scappare».

«Tu hai una paura folle di quell’uomo, vero? Io invece no. Secondo me non è lui il pericolo. È qualcosa che lo circonda, che gli sta vicino, il vero pericolo, ma non lui».

«E allora farò del mio meglio quando si tratterà di scappare da ciò che gli sta vicino. Proprio non ti capisco: in ogni caso c’è da aver paura, ad andare là che il pericolo sia l’uno o l’altro».

«Mah…. certe volte non mi capisco neanche io. Dovrei avere paura, eppure non ne ho».

Mezz’ora dopo erano già in partenza. Per le strade la gente spalava la neve che aveva reso quasi impossibile girare per le strade.

Quando fu il momento di uscire dal villaggio, Velthur si chiese se sarebbe riuscito a raggiungere l’eremo prima di sera, e la profezia di Menkhu si realizzò: dovette prenderselo in spalla, mentre lui balzava sulla neve con una forza e una velocità sovrumane. La fortuna di essere un Sileno.

Ma non ce ne fu bisogno per molto. La strada lastricata era completamente sepolta dalla neve, ma comunque ancora distinguibile dai campi attorno. Dopo averla percorsa per meno di un chilometro, trovarono qualcosa di strano, che rese loro l’avanzata più facile.

C’erano delle orme sulla strada, o qualcosa che assomigliava a delle orme, ma non si sapeva di cosa. Partivano da un punto presso la riva del fiume,  dove il ghiaccio sembrava essersi infranto durante la notte, e una sottile lamina si era riformata.

«Ho come l’impressione che i guai siano cominciati già qui….» disse Menkhu, bloccandosi e facendo scendere Velthur.

«Se non è uno scherzo, direi di sì…».

Le orme erano stranamente e perfettamente circolari, ma erano larghe più di mezzo metro. Dopo essere arrivate dal fiume, seguivano la strada lastricata, e avevano compresso la neve come se avessero portato un peso enorme.

«Se sono orme, mai visto niente del genere. Io conosco tutte le orme degli animali del bosco, e anche di quelli domestici, ma se questo è un animale, è di una specie sconosciuta. Una specie enorme. Per fare impronte del genere, questa bestia deve avere la spalla che arriva alla testa di un Gigante, forse anche di più. Ma mi domando se sia una bestia, o invece qualcuno che ha fatto degli zoccoli pesantissimi per farcelo credere».

«Dovrebbe essere stato qualcuno con una notevole forza fisica, per trasportare e muovere dei finti zoccoli così pesanti da comprimere la neve in questo modo».

«Va bene, allora. Immaginiamo che sia una bestia; ma che razza di bestia? Guarda qua…. Le impronte sono perfettamente circolari, in modo innaturale, direi. E i bordi sono più profondi della parte centrale. Sembrano degli zoccoli, ma non so se si può definirli tali. C’è una sorta di fenditura che li attraversa dalla parte davanti a quella dietro, ma guarda com’è perfetta, lineare…. Sembra qualcosa di scolpito, non qualcosa di animale. Comunque non è un bipede, si vede chiaramente che cammina a quattro zampe, ma c’è qualcosa di strano…. quasi come se….».

Menkhu si bloccò, strabuzzando gli occhi.

 «No! Un momento! Non è possibile!».

Poi si guardò intorno, andando da un’orma all’altra, sconcertato. Velthur non osava fargli domande.

«Questa bestia ha sei zampe! Non è possibile! Non ci sono bestie con sei zampe!».

«Beh, sì…. gli insetti hanno in genere sei zampe. Ma non credo che questo essere sia qualcosa di simile a una formica o a una zanzara. Un insetto con gli zoccoli e alto diversi metri non me lo vedo! Preferirei poter pensare che sia uno scherzo di qualche buontempone. Tu no?»

LOVECRAFT 251: PARAGONI FRA NYARLATHOTEP E IL MEFISTOFELE FAUSTIANO

lunedì 17 ottobre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di PIetro Trevisan: 222° pagina.


L’albero ornato dai mille ninnoli colorati e dalle lampade perenni si era ulteriormente abbellito con la neve, e la gente era convinta che quella festa del dopo solstizio avrebbe annunciato una primavera carica di fiori e frutti. Le cose sembravano voler andare bene. Sembravano.

Ma l’evento del prodigio al tumulo era troppo recente, e poi c’erano certe storie che piacevano troppo agli animi molto religiosi, in particolare quelli che tutti chiamavano ormai “i Risanati”.

C’erano stati non pochi casi di persone guarite da gravi infermità o da invalidità varie in occasione dell’evento prodigioso.

Naturalmente, erano molti gli infermi e gli invalidi che si erano recati al Santuario d’Ambra in occasione della visita della Regina, per ottenere la benedizione e sperare nella guarigione.

Nel Veltyan vigeva la credenza secondo cui se la Regina poneva le mani sopra un malato, questo sarebbe guarito grazie alla Luce di Sil trasmessa dalla regale persona consacrata, in quanto la Regina del Veltyan era una figura soprattutto religiosa, ancor prima che politica.

In quel caso, sembrava che tale credenza fosse stata confermata da parecchi poveracci capitati là. C’erano storpi che avevano visto raddrizzarsi la gamba e gobbi che avevano visto raddrizzarsi la schiena, naturalmente c’erano ciechi che avevano riacquistato la vista e sordi che avevano ripreso a sentire, e paralitici che avevano ripreso a camminare. Diversi lebbrosi erano guariti e avevano visto addirittura cominciare a ricrescere le dita delle mani e dei piedi, oltre che vedere il volto ricomporsi. Soprattutto parecchi psoriaci , con la pelle completamente devastata dalla malattia, videro sparire le macchie e le croste sulla loro pelle nel giro di pochi giorni.

Addirittura, pareva che un pellegrino che aveva avuto sempre il vizio di usare la mano destra per scrivere, divenne, se non mancino, almeno ambidestro, cosa che anche se non era vista come una normalità, almeno non era vista come un difetto.

Vanalashi Sakni, una povera donna di cinquant’anni rimasta sola con un figlio e senza nessuna erede femmina, dato che aveva adottato una bambina che poi le era morta, e che era diventata cieca a causa di una misteriosa malattia, aveva recuperato la vista e ora andava quasi ogni giorno in giro per il villaggio urlando come una matta le lodi di Sil e della Regina, dicendo a tutti di ringraziare costantemente gli Dei per poter ottenere doni belli come quello che aveva avuto lei.

In preda all’esaltazione religiosa, aveva dimenticato tutte le sue disgrazie e contribuiva validamente all’atmosfera di fanatismo religioso che ormai si stava diffondendo nel Veltyan a macchia d’olio. Quasi ogni giorno Vanalashi si recava al Santuario d’Ambra, e raccontava ai pellegrini il prodigio di cui era stata protagonista, di come i suoi occhi si erano aperti sul Sole Vermiglio, e aveva visto una figura splendente volare alta nel cielo, che naturalmente per lei era la stessa Sil.

Velthur non si faceva illusioni. Non sarebbe stato un Giorno del Sole Vittorioso sereno e felice, anche se le profezie delle Tre Madri del Fato non si fossero realizzate.

E alla fine venne la vigilia del Tinsi Garepanusil, innevata e scintillante sotto un cielo terso, appena offuscato da una leggera foschia di cristalli di ghiaccio sopra il bianco orizzonte.

La tormenta di neve dei giorni precedenti si era calmata, e aveva lasciato il posto a un sole sfolgorante, che era sorto in un’alba non rossa, ma dorata, da tanto era terso l’orizzonte.

La tormenta era stata per Velthur una scusa che aveva trovato per non recarsi all’eremo di Monte Leccio, ma una volontà superiore sembrava esprimersi in altro senso.

Guardando fuori dalla finestra del primo piano di casa sua, e vedendo le cime delle montagne che spuntavano a nord-est, completamente innevate, sfolgoranti nella loro gloria antica, si sentì senza scuse, come se la legge universale in cui credeva la dottrina dell’Aventry gli avesse ricordato il suo dovere di recarsi da Aralar per scoprire cosa stava facendo e fermarlo, se possibile.

Guarda caso, Menkhu si era svegliato anche lui dopo aver dormito, come al solito, sul tappeto del soggiorno. Una cosa che attirava sempre il disappunto della signora Mendibur, che si lamentava di trovare il tappeto pieno di lunghi peli rossi. Nelle notti precedenti non era uscito, a causa della lunga nevicata.
Mentre facevano colazione con i tradizionali dolci di frutta secca e miele e con il pane dolce con il miele e le nocciole del Tinsi Garepanusil, Menkhu gli disse che sarebbe andato all’eremo, a dare

LOVECRAFT 250: I PARADOSSI TEMPORALI NE "LA CASA DELLE STREGHE"

domenica 16 ottobre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 221° pagina.


Questa tradizione era molto meno antica di quella del grande falò del Tinsi Kerris, ed era di provenienza straniera. Erano stati gli invasori Teudanna, adoratori di alberi, che avevano portato quell’usanza molti secoli prima, e alla fine era diventata ancora più importante di quella dei grandi falò estivi, perché senz’altro più spettacolare e tra l’altro era una maglifica idea per rallegrare la tristezza dell’inverno.

Velthur, vedendo che allestivano gli ornamenti del grande abete nel piccolo parco presso il tempio di Fuflun, Dio degli Alberi e delle Viti, pensò che forse originariamente, per i barbari popoli nordici, l’albero del solstizio d’inverno doveva aver simboleggiato l’Albero Cosmico di cui parlava il libro maledetto. Un altro indizio che non aveva colto prima. Strano come le cose più normali, più vicine al mondo di tutti i giorni, rivelino poi aspetti che rimandano a misteri creduti essere lontani e ad enigmi creduti chiusi con sette sigilli.

Su ogni porta c’era una corona di vischio o di rami di pino, talvolta anch’essi ornati di frutti e fiori di legno dipinto,  per simboleggiare il cerchio della vita che ricominciava a preparare la rinascita della Natura.

Velthur avrebbe voluto sentirsi partecipe dell’aria di festa che si sentiva nell’aria, che usciva dalle case quando le porte si aprivano e si sentivano gli odori dei dolci che venivano preparati, il sentore di fichi secchi, di miele, di castagne, di noci e di nocciole, di acquavite e frutta sotto spirito, di cannella, di zenzero e altre spezie.

Ma ormai per lui la venuta della festa era divenuta l’attesa di una condanna, il simbolo di una tragedia annunciata dalla quale non poteva sfuggire. E quel che era peggio, non poteva confidare la cosa a nessuno.

Menkhu, pur condividendo i timori di Velthur, riusciva ad essere più spensierato, riusciva a godersi quell’attesa della festa, la prima festa di Tinsi Garepanusil della sua vita in mezzo agli Uomini.

Avendo vissuto sempre con gli altri Sileni nel bosco, non immaginava neanche che potesse esistere una festa del genere. Infatti i Sileni cadevano in letargo alla fine di ottobre e si risvegliavano in genere a metà febbraio o addirittura all’inizio di marzo, a seconda di quanto freddo fosse stato l’inverno. Solo allora facevano festa, la Festa del Risveglio, in cui con canti e danze si sgranchivano, inneggiando al loro Dio, il Capro Nero, il Gran Dio Cornuto delle foreste, della primavera e dell’ebbrezza del vino, che gli Uomini chiamavano Fuflun.

Menkhu si era rifiutato di cadere in letargo, anche se passava ormai quasi tutto il giorno dormendo in casa di Velthur. Ma la notte si risvegliava e vagava nelle campagne e nei boschi avvolto nel suo grigio mantello di lana e col suo largo cappellaccio grigio da pastore e armato solo del suo bastone inciso, alla ricerca dei segni dell’Ignoto.

I contadini lo vedevano dalle loro finestre come una figura nera nelle notti innevate, e quando quelli che non lo conoscevano lo incontravano di sera nelle stradine illuminate dalle lampade perenni o lungo i sentieri di campagna, rimanevano intimoriti dalla sua grande figura dal pelo rosso, e stringevano le croci ansate al collo, per ottenere la protezione di Sil.

Dopo quell’inverno, Menkhu sarebbe divenuto una leggenda, quella del Rosso Vegliante che vaga nella notte con i suoi occhi di brace, alla ricerca di malvagi da punire. Poi le vecchie matriarche avrebbero pensato bene di renderlo uno spauracchio per i bambini, quello del grande Sileno Rosso che in occasione del Tinsi Garepanusil viene a portare regali per i bambini buoni e punire i bambini cattivi, trasformandoli in corvi.

Ma alla festa del Giorno del Sole Vittorioso, il Sileno Rosso voleva rimanere ben sveglio e partecipare anche lui ai festeggiamenti con chi glielo permetteva.

La neve scese copiosa, , nei giorni prima della festa del passaggio del solstizio, più di molti altri inverni precedenti, fin quasi ad arrivare alle finestre delle case, e il fiume si ghiacciò completamente. Se per caso ci fosse stato ancora qualche Saguseo nelle sue acque, sicuramente sarebbe morto di freddo. I Sagusei, si sa, preferiscono i climi caldi.

La neve era considerata di buon augurio in occasione del solstizio d’inverno, come dimostrava il proverbio: sotto la neve pane, sotto la pioggia fame.

LOVECRAFT 249: AMICI E VICINI CERCANO DI SOCCORRERE GILMAN NE "LA CASA D...

sabato 15 ottobre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 220° pagina.


mio futuro? Riuscirò nell’impresa? Dovrebbero sapermi dire qualcosa al riguardo, no? Perché io, fino a quando non ho capito cosa sta succedendo, non faccio niente e mi limito ad osservare».

«Loro hanno guardato nel tuo futuro, e ti hanno visto di fronte alla tomba di Aralar, in piedi, con un senso di orrore nell’anima. Non hanno visto Aralar morto, non sanno nulla della sua morte, ma sanno che tu ne sei stato l’inorridito testimone, e ne sei stato la causa, anche se indiretta.

E hanno visto che è stato sepolto subito dopo il Tinsi Garepanusil, presso il suo eremo. Dopo, hanno visto il silenzio, la pace, per un certo tempo. Una tregua, potremmo dire. Non sono riuscite a vedere altro. Tu devi andare all’eremo, e far avverare quella visione».

«Non è abbastanza per me. Io non sono mai riuscito a credere fino in fondo alle vostre capacità di preveggenza. Io ho paura, accidenti a voi. Forse non la stessa paura che avete voi, ma comunque una grande paura. Non so che cosa potrei trovare in quell’eremo maledetto. L’ultima volta sono rimasto sconvolto da ciò che ho visto e sentito. Non sono un eroe, non lo sono mai stato e non mi interessa diventarlo. Perché non si può semplicemente provare a denunciarlo per attività alchemica illecita? Forse i gendarmi o l’alkati non ascolteranno me e tantomeno voi, ma se facciamo partire la denuncia da qualcun altro, forse… ».

«Lascia stare! Noi non abbiamo mai avuto a che fare con i guazzabugli delle vostre leggi, e non ne avremo ora. La verità è che la tua paura comunque non sarà forte come la tua curiosità, come il fascino per il mistero che ti ha sempre ossessionato, a cui non puoi sottrarti. E non sarà forte neanche come il tuo senso di responsabilità, la tua etica razionale dell’Aventry, che ti spinge a compiere l’ideale di fare il bene di tutta l’umanità, sempre e comunque. Adesso forse ti sembra che la tua paura sia più grande, ma è ingigantita dalla rabbia, la rabbia di non sapere cosa hai di fronte, la rabbia di non sentirti aiutato, nemmeno da noi. Ed è vero: sei solo di fronte a questa cosa. Non basta l’appoggio degli amici, non basta neanche la grande forza, la fedeltà e il coraggio di Menkhu, per farti sentire meno solo di fronte all’Ignoto.

Eppure in qualche modo avrai la meglio, anche se non sappiamo come».

«Tutto qua? Non hai nient’altro da dirmi?».

«Purtroppo no. Le risposte le puoi avere solo tu, non io. E con questo ti lascio, Velthur. Almeno fino a quando non ti sarai deciso ad affrontare Aralar».

E se ne andò. Si diresse verso la porta silenziosamente come era venuto, la aprì e sparì nella nevicata. Velthur non lo inseguì neanche con lo sguardo, nel richiudere la porta dietro di lui.

Lo Gnomo non se n’era andato, era fuggito dai suoi fantasmi della follia.

Ma Azyel aveva ragione. Velthur se ne accorse nei giorni seguenti, man mano che la Festa del Sole Vittorioso si avvicinava.

Per la gente del paese, quella festa era l’occasione per cercare di dimenticare, rifugiandosi nel tradizionale culto di Sil, la benevola Madre Celeste, la Dea vestita di sole, incoronata di stelle e con la falce di luna ai piedi, Regina degli Dei e Signora dell’Universo, era una figura rassicurante che aiutava a dimenticare le visioni di follia che erano ormai diventate l’ossessione di molti.

Un giorno sarebbero diventate leggende popolari da raccontare attorno al fuoco del caminetto nelle sere invernali, o nelle riunioni delle donne che filavano nelle stalle, ma per ora erano il tessuto di una paura isterica e ossessiva.

Il Tinsi Garepanusil veniva celebrato agghindando gli alberi sempreverdi nei giardini e nei cortili, di finti frutti e fiori, fatti di legno dipinto, per celebrare la promessa della fine dell’inverno e dello sbocciare della primavera, che avrebbe portato il rinnovato allungarsi dei giorni. Poi si metteva una piccola lampada perenne in cima all’albero, e i più benestanti mettevano la lampada dentro un ornamento a forma di stella pentacolare di vetro, che riempiva l’albero e il giardino di meravigliosi riflessi geometrici.

Per tradizione, ogni villaggio delle regioni nord-orientali del Veltyan aveva un grande pino rosso, che tutta la cittadinanza e il circostante contado contribuivano ad abbellire con ornamenti di ogni tipo, poi l’alkati provvedeva a cospargerlo di lampade perenni per renderlo simile ad un grande faro nelle lunghe notti d’inverno.

LOVECRAFT 248: L'ABISSO DI AZATHOTH NE "LA CASA DELLE STREGHE"

venerdì 14 ottobre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 219° pagina.


Ma ricordo quella presenza. Nel buio sentivo di non essere solo, che c’era qualcuno di fronte a me, qualcuno o qualcosa di orribile, che mi osservava e mi attirava a sé. Ricordo solo di essere fuggito in preda al terrore, e di avere corso per non so quanto tempo, attraverso i boschi, cercando rassicurazione fra gli alberi, fra le cose di questo mondo che conoscevo, mentre mi sentivo inseguito da quell’abisso vuoto, da quel buio che voleva inghiottirmi, divorare la mia anima fra le fauci della follia.

Alla fine mi sono fermato, stremato, e mi sono rannicchiato contro le radici di un grande albero, e sono rimasto immobile là, paralizzato dal terrore, aspettando che quell’essere senza nome e senza volto mi trovasse.

Ma non è successo niente. Ho atteso per molte ore, paralizzato dal terrore, finché quelli del mio popolo sono venuti a recuperarmi. Avevano sentito il mio terrore fin dalle Colline di Leukun, ed erano giunti a soccorrermi.

C’ho messo dei giorni a riprendermi, anche con le cure dei miei simili, i quali avevano addirittura paura di me. Avevo addosso il fetore acre e alieno dell’Altrove. I miei pensieri, il mio terrore erano troppo visibili alla loro Seconda Vista perché questo non sconvolgesse anche loro.

È stato allora che la preoccupazione delle Tre Madri del Fato è diventato vero e proprio terrore. Esse sono terrorizzate, nel vero senso della parola, e vivono nell’incubo di dover scoprire il vero volto del nostro futuro.

C’erano altri esseri fatati oltre a me alla cerimonia della visita regale, anch’essi travestiti da esseri umani. Alcuni del mio stesso popolo, altri invece erano seguaci di Aralar, e hanno avuto la stessa identica esperienza che ho avuto io».

«Lo so, ne ho vista una quando è cominciata la follia collettiva. Non so chi fosse, ovviamente. Ma ho immaginato che fosse una seguace di Aralar».

«Era Horyel, la Fata che ha mostrato agli Akapri l’entrata al Santuario d’Ambra. Lei se l’è cavata molto peggio di me. È completamente impazzita, probabilmente non guarirà mai più. Colpa di quel maledetto eremita alchimista…. Non sappiamo cosa ha fatto, né come l’ha fatto, ma sappiamo che è colpa sua. Ha aspettato che la Regina iniziasse la cerimonia di benedizione in cima al tumulo, e poi ha aperto una porta…. O meglio l’ha solo socchiusa, ha aperto uno spiraglio….. se fosse riuscito a spalancarla, avrebbe fatto molto peggio. Forse adesso saremmo tutti morti, o pazzi, o scomparsi, o peggio ancora!»

Alzò il volto dalle mani su cui l’aveva poggiato, e guardò verso il cielo, spalancando i grandi occhi neri, con le pupille che scintillavano più che mai, e aprì la bocca emettendo un lungo gemito, che ricordava il verso lugubre del pavone, qualcosa di sinistro e inumano che fece quasi sprofondare lo scranno da sotto Velthur. Gli sembrò, per un istante, di dover rivivere la spaventosa esperienza al tumulo sacro.

«Devi fare qualcosa, dottore! Devi fermarlo. Noi non ne siamo capaci, non possiamo neanche avvicinarci a lui, o cadremmo in una follia peggiore di quella che ha colpito me. Lui è il portatore dell’Abisso. Se lo porta con sé, dovunque vada. Non riusciamo neanche a sopportare la sua vista, non riusciamo neanche a pensare a lui senza stare male. Le Tre Madri del Fato sono quasi morte di terrore nel cercare di penetrare la sua follia. Solo tu puoi avvicinarti a lui e vincerlo. Nessun altro che conosciamo può capire cosa sta facendo. Se anche Menkhu, con tutta la sua grande forza, andasse là con il proposito di ucciderlo, probabilmente distruggerebbe solo il suo corpo fisico, ma non la sua potenza spirituale. La sua volontà continuerebbe a vivere tra noi, e a perseguire i suoi scopi.

Tu hai intuito giusto: è vero. In occasione della festa di Tinsi Garepanusil lui cercherà di aprire la Soglia dell’Altrove e lasciar passare le forze che lui serve. E se ci riesce, per tutti noi sarà la fine! Devi coglierlo mentre compie il rito, e fermarlo!».
«Io da solo? O magari con l’aiuto di Menkhu? E poi, fermarlo come? Devo ucciderlo? Io non ho mai ucciso nessuno, non ho mai pensato di farlo, non voglio farlo. Un medico deve salvare le vite, non distruggerle. Distruggergli il laboratorio? Non credo che servirebbe a molto: se ne costruirebbe un altro. Cosa dicono le tue Tre Madri del Fato? Dove sta la chiave per fermarlo? Cosa vedono nel

LOVECRAFT 247: L'INCONTRO CON L'UOMO NERO NE "LA CASA DELLE STREGHE".

giovedì 13 ottobre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 218° pagina.


E probabilmente non avrebbe trovato nessuno, fuorchè lui, Aralar l’eremita pazzo, che avrebbe saputo spiegargli i significati del libro.

Intanto, ormai la festa del solstizio d’inverno era vicina. Mancavano solo una settimana, quando Velthur ricevette la visita di Azyel. Stava cominciando a nevicare, poco dopo il calare del sole, e larghe falde bianche scendevano e si tingevano di riflessi azzurrini sotto la luce delle lampade perenni.

Se lo ritrovò di fronte alla porta, avvolto nel suo mantello verde e con il cappuccio che gli nascondeva il volto, ma di cui si intravedevano le pupille fosforescenti che brillavano sinistramente nel buio, dando alla sua figura incappucciata un aspetto più sinistro che mai.

Anche se non ne vedeva il volto, sapeva che era lui.

«Mi fai entrare o devo ricoprirmi di neve? Ti avverto che nevicherà tutta la notte. Te lo dice uno che queste cose le sa».

«Che fine avevi fatto? Dopo quel disastro alla Polenta Verde, non ti sei più fatto vedere».

«Ti spiegherò il possibile, se mi fai entrare».

Velthur notò che non aveva detto “ti spiegherò tutto”, bensì “ti spiegherò il possibile”.

Si chiese se voleva nascondergli qualcosa, o semplicemente non avesse parole per spiegarlo.

Una volta sedutisi nel soggiorno di fronte al caminetto acceso, con un bicchierino di grappa al mirtillo per riscaldarsi, Azyel parlò di cosa aveva fatto dopo il Prodigio del Sole Scarlatto, come ormai lo chiamavano tutti quanti.

«Prima di parlarti di me e di quello che è successo, vorrei chiederti di dirmi cosa hai intenzione di fare. So che hai comprato il libro maledetto, e che l’hai letto. Ma non riesco a vedere niente di ciò che c’è scritto nella tua mente, solo qualche immagine… le illustrazioni, che trovo particolarmente inquietanti.

Vedo anche i tuoi ricordi del tuo breve viaggio a Enkar, l’angoscia che ti ha dato, le cose strane e sorprendenti che hai visto e che hai udito…. però non vedo cosa pensi di fare»

«Ah, bene! La cosa mi fa molto piacere…. ogni volta che dichiari di non vedere qualche mio pensiero, ne sono grandemente felice. Comunque, ti rispondo che non lo so ancora.

Nel libro non credo di avere trovato niente che mi abbia fatto capire veramente cosa sta facendo Aralar e come. La profezia delle tue Regine non sembra essersi realizzata, almeno al momento. Solo, ho qualche sospetto che compirà un rito stregonico, o un’opera alchemica, usando dei gigli rossi, in occasione della Festa del Sole Vittorioso, l’ultimo giorno del Mese dell’Arciere, se conosci le nostre ricorrenze».

Azyel fece un lungo sospiro e si portò le mani al volto.

«È esattamente quello che pensiamo anche noi».

«Bene, allora adesso mi dirai cosa ti è successo in quella mattina maledetta alla Polenta Verde. Menkhu mi ha detto che sei stato uno di quelli che ha perso la testa più di tutti gli altri».

«Ho perso molto di più della sola testa, ho perso tutto me stesso. E c’è voluto molto tempo perché riuscissi a ritrovarmi».

«Senza parlare per poetici enigmi, dimmi cosa ti è successo. Cosa hai visto? Mi riesce difficile credere che sia stato più spaventoso di quello che hanno visto gli altri, per esempio io. La visione che ho avuto me la ricorderò finché vivo. Riesci a leggerla, nella mia mente?».

«No…. e non ci provo neanche. Se provassi a guardare quel tuo ricordo, rivedrei quello che ho visto io, e ripiomberei nella follia. Da quella mattina non mi sono più avvicinato a quel luogo maledetto e non voglio più avvicinarmi in vita mia».

«A questo punto, mi viene da pensare che proprio non vuoi dirmi cosa hai visto là».

«Non lo so cosa ho visto! Ricordo solo un abisso vuoto, immenso, oscuro, freddo, senza fine, qualcosa che assomigliava agli abissi marini o a quelli di una caverna senza fine. Un abisso che mi stava inghiottendo, e da cui dovevo fuggire, prima di sprofondare nel vuoto. Non mi ricordo cosa ho visto in quell’abisso, credo di aver voluto cancellare il ricordo, perché era troppo orribile da ricordare.

LOVECRAFT 246: LA STATUETTA DEGLI ANTICHI NE "LA CASA DELLE STREGHE".

mercoledì 12 ottobre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 217° pagina.


«Davvero??? Forse dovrei farlo vedere a Prukhu, questo libro, e magari leggerglielo….».

«Beh, non so quanto potrebbe saperne delle cose scritte là, ma l’Albero Cosmico è una credenza del Grande Nord. Lui conosce molte cose dei popoli nordici, delle loro leggende e delle loro credenze. Quei popoli adorano gli alberi, proprio come noi Sileni, e credono che l’universo stesso sia costituito da un gigantesco Albero Cosmico che attraversa tutti i mondi. Lui però diceva che le sue radici affondavano nel regno dei morti, un mondo di nebbie».

«Addirittura le leggende dei popoli barbari del nord! Mi sembra un gran minestrone….  io comunque della cultura di quei popoli non so praticamente niente. Non li ho mai trovati interessanti».

«Male. Magari è proprio là che puoi trovare cose utili per risolvere l’enigma di tutta questa storia».

Quelle parole gli fecero venire in mente un particolare che aveva dimenticato, tra gli innumerevoli di quella storia.

Nella lunga narrazione delle vicende misteriose della Valle dei Gigli, c’era l’episodio del minatore originario delle terre dei Teudanna, nelle lontane foreste del nord, che avendo sentito parlare dell’avvistamento del misterioso cervo bianco dalle corna rossa, aveva abbandonato il lavoro in preda ad un terrore superstizioso.

A questo punto, poteva immaginare che i popoli nordici, considerati dai Thyrsenna barbari rozzi e ignoranti, fossero a conoscenza di qualcuna delle misteriose forze che stavano agendo nel Veltyan.

In fin dei conti, non si avevano molte notizie di quei lontani e selvaggi paesi oltre le Montagne Albine, dove oscuri sacerdoti celebravano riti oscuri in cui venivano eseguiti cruenti sacrifici umani, e che si trasmettevano oralmente dottrine segrete, che non venivano mai scritte, perché non cadessero in mano ai profani.

Qualcuno sospettava che quei sacerdoti, pur vivendo in mezzo a popoli primitivi e violenti, possedessero un sapere elevato proveniente dalle epoche prima del Diluvio. Non era assurdo pensare che quel libro provenisse in parte da quelle conoscenze segrete dei sacerdoti nordici.

Ma Velthur si sentiva scettico. Probabilmente ci sarebbero voluti degli anni prima di venire a capo di tutti i simboli e le immagini del libro maledetto. Anche investigando tutte le dottrine misteriche del mondo conosciuto. E il tempo, purtroppo, stringeva.

Quando furono tornati ad Arethyan, Velthur si affrettò a lasciar libero il dottor Erkorekan, ringraziandolo di averlo sostituito in quei giorni di assenza e promettendogli che sarebbero rimasti in contatto epistolare.

Aldilà del suo coinvolgimento con le trame del Reverendo Padre Aralar, Velthur era interessato al suo sogno di creare una comunità autonoma di Avennarna ai confini del regno, anche se non certo nella Valle dei Gigli.

Dopo, Velthur cercò di tornare alla sua vita di sempre.

Cercò di concentrarsi sul suo lavoro, sui consueti rapporti con la gente del paese, con le piccole cose quotidiane che avevano continuato a ripetersi imperturbate per anni prima di quel fatidico giorno d’estate in cui il piccolo Erkan era venuto a casa sua a chiamarlo alla fattoria dei Ferstran.

La sera studiava il libro, cercava collegamenti con altri libri di esoterismo, ma la sua ricerca rimaneva quasi del tutto infruttuosa.

Il libro sembrava quasi piovuto da un altro mondo. Seguiva un linguaggio con termini dal significato sconosciuto, si serviva di simboli in gran parte inconsueti e strani, che non riusciva a trovare in nessun altro libro da lui conosciuto. Forse era davvero il frutto del contatto con culture straniere, forse in parte nordiche, ma ancora di più orientali, o addirittura provenienti da olre oceano, dove forse esistevano tradizioni e tecniche alchemiche diverse da quelle dei Thyrsenna, anche se i Maestri Alchimisti erano tutti concordi nel dire che l’alchimia esisteva solo nel Veltyan e presso i Nani, perché tutto il resto del mondo era ormai barbaro e primitivo.

Ma il mondo era vasto e in gran parte sconosciuto. Nessuno poteva escludere la possibilità che esistessero altre dottrine alchemiche in paesi lontani. E d’altra parte, lo stesso Aralar aveva affermato di avere incontrato molti segreti nei suoi viaggi ai confini del mondo.