giovedì 30 marzo 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 360° pagina.


Solo una settimana dopo la morte di Maxtran, Eukeni Ferstran disse a sua madre che la Reverenda Madre Fondatrice delle Spose di Sin voleva occuparsi dell’istruzione e dell’educazione del piccolo Loraisan.

Syndrieli rimase allibita.

«E perché? Perché? Le hai parlato di lui? Le hai detto che ha imparato a leggere e scrivere dal dottor Laran?».

«No, lo sapeva già per conto suo! L’ha visto dal dottor Laran una settimana fa e lui le ha detto che gli stava insegnando a leggere e scrivere, e la Reverenda Madre è rimasta molto colpita…. ha detto che non le sembrava giusto che un così bel bambino, figlio di una famiglia devota, venisse istruito da un infedele, un nemico di Sil e degli Dei. Così mi ha detto di chiederti se puoi affidare Loraisan a lei. Non ti piacerebbe, la cosa?».

«Ma… come? Vorrebbe che Loraisan venisse a studiare nell’eremo delle Spose di Sin?».

«Sì…. con il tuo permesso….».

«Ma Loraisan è un maschio! I maschi non possono entrare nell’eremo, no?».

«Sì, ma solo dopo i dodici anni di età. Loraisan ne ha sette. Potrà vivere e studiare là per cinque anni. La Reverenda Madre Fondatrice sta pensando di creare una scuola nell’eremo per l’istruzione dei figli degli etarna, maschi e femmine. Starebbe nell’eremo sei giorni alla settimana, e ogni usiltin verrebbe a casa».

«Ne devo parlare con la nonna, la capofamiglia è ancora lei, qui».

E infatti poco dopo ne aveva parlato con Aranthi, la quale non aveva avuto nessuna opposizione, anche se gli dispiaceva un po’ di non poter vedere più ogni giorno il suo amato nipote.

Quando invece lo seppe Loraisan, non poté fare a meno di piangere. La cosa lo terrorizzava.

Troppo attaccato alla madre e alla famiglia, troppo spaventato dal mondo esterno. L’idea di andare a vivere in una dimora sconosciuta, in mezzo ai boschi, lo riempiva di terrore, in un modo che neanche lui sapeva spiegare. L’idea di affrontare persone sconosciute lo spaventava troppo, e basta.

Larsin, invece, non sapeva cosa fosse meglio. Non gli andava per niente l’idea di separarsi dal figlio. Ma sapeva bene che il suo parere non aveva peso. Per le tradizioni dei Thyrsenna, i padri non avevano mai contato molto, dai tempi della fondazione delle Sette Città. Solo nel caso in cui un uomo era legato alla sua donna da un matrimonio consacrato da un sacerdote, lui poteva essere considerato compartecipe delle decisioni sui figli, e non era certo il suo caso. Lui era solo il convivente di Syndrieli, e non poteva avanzare nessun diritto sui figli, né legalmente, né secondo le antiche tradizioni. Gli unici maschi che avevano voce in capitolo, erano i fratelli di Syndrieli.

Ma i suoi sentimenti personali non gli impedivano di pensare a ciò che era meglio per il figlio prediletto. E quindi si preparò un discorso da fare a Loraisan, che lo ascoltava sempre.

«Non devi essere triste, non devi piangere per il fatto di dover andare a studiare nell’eremo. Non vai a stare tanto lontano da noi. Solo qualche chilometro di distanza, e ad ogni usiltin potrai fare un salto a casa, e poi vai a stare con persone che ti insegneranno moltissime cose che, sono sicuro, a te piaceranno.

A te interessa l’alchimia, lo so. Me l’ha detto il dottor Laran di quanto ti piace. Le sacerdotesse dell’eremo sono alchimiste, e la Reverenda Madre Fondatrice è una grande donna, che ha scoperto il segreto delle corde d’ambra inventato dal suo maestro, e che conosce molti segreti.

Se sarai un buon allievo, potrai conoscerli anche tu. Potrebbe insegnarti a diventare un grande alchimista. Non ti piacerebbe, questo?».

Loraisan avrebbe voluto dirgli che l’idea di diventare un alchimista lo affascinava senz’altro, ma allo stesso tempo lo terrorizzava, perché il suo farthankar poteva essere malefico, e che aveva forse evocato il demone Bekigor dai neri abissi dell’Orkhun.

Ma sapeva che il padre non gli avrebbe creduto, e magari lo avrebbe deriso per le sue paure infantili.

E nello stesso tempo, non voleva deluderlo. Anche perché, di fatto, l’idea di imparare cose sull’alchimia lo affascinava. Il dottor Laran gli diceva che doveva aspettare, che doveva imparare la storia, la geografia, la poesia, la letteratura e tante altre cose, prima di affrontare l’alchimia.

LOVECRAFT 379: L'ORRENDO SACRIFICIO DI SANGUE NE "L'ORRORE NEL MUSEO"

mercoledì 29 marzo 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 359° pagina.


E poi c’era il dottor Laran, che quando gli avevano chiesto della morte del Reverendo Padre, aveva dato delle risposte un po’ ambigue.

Aveva detto che forse il suo cuore si era fermato improvvisamente, perché non trovava altra spiegazione. In pratica, detto così la sua autopsia non aveva dimostrato un bel niente.

Mezenthis gli aveva raccomandato di diffondere quella versione, e Velthur aveva ubbidito,  ma la cosa gli aveva creato un conflitto di coscienza. Per la dottrina dell’Aventry, mentire era un atto grave, che poteva essere giustificato solo se ne dipendeva la vita di una o più persone.

Mezenthis gli aveva detto chiaramente che se non sosteneva la versione ufficiale, non doveva più aspettarsi nessun aiuto economico per poter svolgere al meglio il suo lavoro di medico.

Velthur non aveva potuto fare a meno di acconsentire. Ma non era riuscito, evidentemente, ad essere convincente, causa il senso di colpa che provava. Non era affatto sicuro che la sua menzogna potesse contribuire a favorire un clima di pace fra i pellegrini del Santuario.

La morte di Maxtran era qualcosa di misterioso, e non poteva non pensare che essa si aggiungeva alla ormai lunghissima lista di eventi misteriosi di quella contrada, e tale sarebbe stata vista da tutti quanti, alla fine.

Ma le voci che circolavano di più, erano riguardo chi potesse avere avuto interesse ad avvelenare il Reverendo Padre. E lì le cose si erano fatte decisamente preoccupanti.

C’era chi sospettava lo stesso Mezenthis, che secondo alcuni aspirava a estromettere la famiglia Akapri, per sostituirla con sacerdoti scelti da lui, interamente succubi al suo comando.

Altri ancora sospettavano addirittura la figlia, che ora era rimasta da sola a guidare i riti del Santuario, e che aveva fatto in modo che il suo sposo, un essere insignificante e succube del volere della moglie, sostituisse Maxtran nella carica di sacerdote custode.

Anche se, a dire il vero, tale successione era comune e prevedibile per le tradizioni familiari dei sacerdoti. Nel Veltyan, per qualsiasi cosa, il primo successore di un uomo o era il figlio della sorella o il marito della figlia.

Ma tant’era, i pettegolezzi si arrampicavano su ogni cosa, per quanto stupida, pur di poter diffondere la peggiore delle ipotesi.

E naturalmente ce n’erano altre, di dicerie. Soprattutto quelle più terrificanti. Maxtran era stato ucciso da qualche pellegrino di qualche setta segreta che complottava per rovesciare la classe sacerdotale del luogo e impadronirsi del Santuario, servendosi della diffusione del terrore ed eliminando tutti coloro che avrebbero potuto opporsi.

E ovviamente, il sacerdote custode doveva essere la prima vittima.

Cominciò a diffondersi la paura del complotto, il sospetto che ogni pellegrino che entrava nel paese e poi nel Santuario, se aveva un aspetto non particolarmente rassicurante, o insolito, potesse essere un assassino, un seminatore di terrore, un sicario prezzolato da qualche gruppo oscuro.

Se prima i fanatici religiosi erano stati un fastidio, adesso sembravano essere diventati una vera minaccia.

I gestori delle locande cominciarono ad assumere l’abitudine di perquisire tutti i pellegrini che capitavano da loro, a spiarli, pronti a denunciarli ai gendarmi se avessero notato qualche attività sospetta.

Si stava respirando un clima sempre più pesante, in paese e tutt’attorno al Santuario, fino ad Aminthaisan e sulle colline, dove cominciavano a circolare anche lì storie di gruppi di pellegrini fanatici armati di spada, che si stavano ammassando nella regione con il proposito di prendere il Santuario con la forza. Un sospetto che, Velthur lo sapeva bene, non era del tutto campato in aria. Ma proprio per questo non aveva modo di poter distinguere la verità dalla fantasia, o dalla menzogna strumentale.

L’isteria collettiva si stava propagando in nuove forme. Prima era la paura degli spiriti oscuri della notte, dei malefici di streghe e stregoni, adesso vi si aggiungeva la paura di nascoste congiure sanguinarie.

Ma presto Velthur ebbe cose più importanti a cui pensare, almeno per lui.

LOVECRAFT 378: IL DIO-VAMPIRO DI ROGERS NE "L'ORRORE NEL MUSEO".

martedì 28 marzo 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 358° pagina.


non vorranno andarsene fino a quando scopriranno chi è! Gli ho puntato la mia lancia contro, e dopo pochi istanti erano di nuovo qua. Si danno il turno, persino! Ci rinuncio!».

«Ma non lo scopriranno da noi! Che vadano al Santuario di Silen, a scoprirlo!».

«No, dottore! No!» gridò di nuovo la guardia, rimettendosi sull’attenti  «Ne abbiamo già di baraonde al Santuario! Non ce li mandate là!».

«Oh, ci sarebbero arrivati in ogni caso! Non vi sembra?».

Infatti alcuni cominciarono a mormorare e domandare cosa c’entrasse il Santuario d’Ambra.

«Abbiamo perso abbastanza tempo, Reverenda Madre! Rimettiamo il corpo del povero Maxtran nel suo sudario e riportiamolo alla sua famiglia, perché possano prepararlo per i funerali. L’Eminente Pontefice sarà ansioso di sapere il mio responso».

«Oh beh, non che questa autopsia sia servita a molto…. Una vera fortuna che non abbiate dovuto sventrarlo come un maiale. Quello specchio alchemico ci ha risparmiato altre perdite di tempo».

Poco dopo, mentre tornavano verso il Santuario d’Ambra sul cocchio, Harali volle saperne di più di Loraisan.

«Un così bel bambino…. Non ho mai visto un bambino così bello. Con quei grandi occhi neri, intensi. Occhi che parlavano. E con un bel nome anche. È figlio di contadini, immagino…».

«Sì, è l’ultimo nato dei Ferstran, la famiglia che possiede quel gran meleto sui fianchi della collina più vicina al villaggio. I suoi genitori hanno affidato a me la sua istruzione. Ha già imparato a leggere e scrivere in modo discreto».

«I Ferstran! Ma guarda! Una delle loro ragazze dovrà entrare molto presto nel mio eremo per la consacrazione triennale. Eukeni Ferstran, per la precisione».

«So che fate molto per le figlie degli etarna, per quanto riguarda l’istruzione e l’apprendimento di un mestiere qualificato, Reverenda Madre. E in questo avete tutta la mia approvazione. Anche se sono preoccupato di come le potrete istruire, considerando chi fu il vostro maestro».

Harali ignorò la frecciata, e continuò a parlare di Loraisan e dei suoi bellissimi occhi neri, come se niente fosse.

«Non sapevo che Eukeni avesse un così bel fratellino…. quei grandi occhi neri. Incredibili!»

Poi tacque. Velthur aveva osservato il suo sguardo, la sua espressione mentre parlava di Loraisan, e aveva avuto la netta sensazione che l’improvvisa infatuazione della sacerdotessa per il bamibno fosse qualcosa di più di una normale attrazione di una donna senza figli per un bambino di bell’aspetto. Era come se ne fosse perdutamente affascinata. Come se lo sguardo del bambino l’avesse ammaliata, ipnotizzata.

Non poteva però ancora immaginare quanto.

Come si era aspettato, lo scalpore per la morte di Maxtran fu enorme. Il popolino non credette per un solo momento che il sacerdote del grande Santuario fosse morto di morte naturale. Maxtran era noto essere un uomo forte, ancora in perfetta buona salute nonostante l’età avanzata.

Avvelenamento, questa era la spiegazione che la gente del villaggio accettava, e che poi trasmetteva ai pellegrini che giungevano quotidianamente in zona.

La spiegazione ufficiale della morte di Maxtran era un banalissimo attacco cardiaco. I medici dei Thyrsenna sapevano da tempo cosa erano gli infarti, e anche da cosa potevano essere causati. E da tempo avevano cominciato a mettere in guardia da certi eccessi anche i più ignoranti plebei. Maxtran, in quegli ultimi anni era ingrassato alquanto, a causa del benessere economico, e per questo a Mezenthis sembrò che la cosa sarebbe sembrata abbastanza credibile, a ragione. Qualcuno ci credette, o fece finta di crederci.

Ma c’erano altre voci, altre storie a cui non poté impedire di circolare, che dicevano che il Reverendo Padre era stato vittima di una punizione celeste. In qualche modo, doveva avere offeso Silen, e Lui in contraccambio l’aveva schiantato a terra proprio nel suo Santuario.

Perché altrimenti sarebbe morto, in modo improvviso, proprio davanti al suo altare, mentre officiava il rito della luna nuova? Il fatto che fosse avvenuto in quel modo e in quel momento, era già di per sé una prova.

LOVECRAFT 377: ROGERS RIVELA LA SUA SCOPERTA NE "L'ORRORE NEL MUSEO"

domenica 26 marzo 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 357° pagina.


«No, naturalmente. È uno dei segreti che Aralar mi ha trasmesso con le sue carte…. Ma niente di pericoloso. L’alchimia sa creare molte sostanze prodigiose, molte sottili illusioni, o sa come far credere reali i propri incubi….. voi stesso ne sapete qualcosa. Sapete bene cosa si può fare con l’aiuto degli specchi alchemici, o con l’aiuto di certe droghe».

Mentre parlava, Harali guardava dalla finestra verso la strada di fronte alla casa, e notò Loraisan che aspettava, seduto in silenzio sul lato opposto della via, sui gradini d’entrata di un’altra casa, accanto ad un crocchio di curiosi che osservavano le due guardie ed il cocchio, mormorando fra di loro.

Per Harali fu come un colpo di fulmine a ciel sereno. I grandi occhi neri di Loraisan, con il loro sguardo intenso e fisso, spaventato, spiccavano in mezzo agli altri occhi grigi e ordinari.

Harali non lo conosceva e non l’aveva mai visto prima, ma rimase molto colpita dal suo aspetto. Sembrava fuori posto in quel luogo, come uno straniero giunto da chissà quale paese lontano dove la gente aveva grandi occhi nerissimi e uno strano pallore sul volto. Anche la sua bellezza appariva insolita, dai lineamenti che apparivano anch’essi stranieri. I volti dei Thyrsenna erano generalmente rotondi e regolari, mentre quello di Loraisan c’era qualcosa di indefinibile, una bellezza insolita, camaleontica, che sembrava quasi cambiare con la luce e la prospettiva ogni volta che il fanciullo si muoveva.

Affascinata, Harali guardava il bambino e gli sembrava che in lui ci fosse qualcosa di poliedrico e inquietante, di totalmente indefinibile e sfuggente, eppure affascinante.

Mentre lo guardava, notò come in mano avesse un astuccio a cui era legato uno stilo. Harali ebbe un’intuizione.

«Cambiando discorso, dottore…. sembra che abbiamo già attirato l’attenzione di gran parte del paese. Ormai sapranno già tutti quanti che il Reverendo Padre Maxtran Akapri è morto. Mi domando come reagirà la nostra gente alla notizia. E come reagiranno i pellegrini. È una morte che non riusciremo a far passare per un caso della natura, e tutto il popolino mormorerà di complotti, acuendo un clima già troppo acceso».

«Se devo essere sincero, non me ne importa un fico! È un problema vostro, non mio. Voi sacerdoti avete voluto rendere questo paese un porto di mare per cani e porci animati da religiosi sentimenti, avete riempito questa contrada di fanatici, di ossessi, di pazzi visionari pronti alla sedizione, di seguaci di sette oscure e violente, e persino di delinquenti di ogni tipo che con il pretesto del culto si servono di ogni ciarlataneria per soddisfare la loro brama di soldi e di potere, e adesso vi siete ritrovati con una bella gatta da pelare. Per quanto mi riguarda, tutto questo implica solo la possibilità di dover curare un maggior numero di feriti e contusi!».

«Ma se dovessero rimanere coinvolte delle persone che vi sono legate? Persone innocenti, indifese? Quel bambino così bello, per esempio, quello che sta aspettando dall’altra parte della strada, guardando con preoccupazione e paura la vostra porta, sorvegliata dalle guardie…. è un vostro allievo, per caso? Volete farne un medico?».

Velthur si precipitò alla finestra, imprecando.

«Per tutti i Santi dell’Aventry! Loraisan! Mi ero dimenticato che oggi aveva lezione da me!»  

«E naturalmente le guardie non lo hanno lasciato passare…. che peccato, vero? Ha uno sguardo che colpisce. Se ne sta lì e aspetta di potervi vedere. È un bravo allievo? Scommetterei di sì….».

«Lo è, lo è. Bravissimo e intelligentissimo. Non ha idea di quanto lo sia. Ma troppo sensibile. Si spaventa per ogni stupidaggine. Scusate un attimo….».

Velthur spalancò la finestra, e chiamò Loraisan.

Gli disse che presto le guardie se ne sarebbero andate e che lui avrebbe dovuto seguirle, e che per quel giorno non sapeva se avrebbe avuto tempo per lui, e che tornasse domani mattina.

Il bambino esitò. Si capiva che voleva rimanere per sapere cosa era successo.

«Su, vai! Ritorna a casa! E anche voi, non c’è niente da vedere, qui! Tornate per la vostra strada!».

Loraisan alla fine ubbidì, l’altra gente no, ovviamente.
«Questa gente non si scollerebbe per niente al mondo, dottore! – Gli gridò una delle due guardie, appoggiato con aria annoiata e beffarda alla sua lancia - Neanche se un fulmine cadesse dal cielo per dire loro che gli Dei non li vogliono qui! Hanno ben capito che abbiamo un morto importante e

LOVECRAFT 376: L'INIZIO DEL TERRORE NE "L'ORRORE NEL MUSEO".

sabato 25 marzo 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 356° pagina.


«No, infatti. Anche perché non credo che quel diario a questo punto mi riserverà così tante sorprese come voi credete. Sapevo che Aralar non era una persona buona, l’avevo capito bene, quando mi sono accorta che il suo sorriso era falso. Posso essere stata ingenua all’inizio, ma non sono mai stata così stupida. E non m’interessava poi tanto. M’interessava quello che faceva, quello che sapeva, non tanto quello che era lui. Ero convinta che, quando mi avesse insegnato tutto quello che sapeva, avrei potuto liberarmi di lui. Certo, era un ingenuità crederlo. Il Fato, o gli Dei, hanno voluto altrimenti.

Certo, a quel tempo non sapevo di cosa fosse capace. L’ho scoperto dopo, nel corso del tempo. Non creda che in questi sette anni io non sia venuta a sapere niente di lui. Ho conosciuto dei suoi amici e dei suoi conoscenti, che sono venuti al Monte Leccio per cercare di sapere di più sulla sua vita e sulla sua morte. Oh, alcuni mi hanno offerto molti pentacoli per sapere cose sul suo conto, e io ne ho approfittato per chiedere informazioni a mia volta, quando non avevo bisogno di chiedere soldi.

C’è voluto parecchio tempo per riuscire a scoprire certe cose, ho dovuto imparare ad essere astuta con certa gente…. Quanto vino fatato ho dovuto offrire, per poter sciogliere le lingue giuste! Ma alla fine sono riuscita a scoprire cose che certamente non sarebbe stato bene che si venissero a sapere in paese. Già la memoria di Aralar non era delle più limpide, non volevo che si arrivasse a gettare il suo corpo fuori della tomba e farlo bruciare pubblicamente come sacerdote indegno!

Non fu facile dover accettare la verità, ma ora so bene che il Reverendo Padre Aralar Alpan, l’uomo apparentemente gentile e amichevole, il monaco dedito solo allo studio, alla ricerca e alla contemplazione dei misteri divini era un ladro, un truffatore e un assassino. Un mostro.

Ma era un mostro geniale, e credeva veramente in quello che stava facendo. L’acquisizione del sapere alchemico per il bene degli Uomini, per la creazione di un mondo nuovo. La stessa cosa in cui credo anche io, senza i suoi metodi violenti e ingannatori.

C’è un segno divino in tutto questo: lui è morto perché non aveva servito questa causa nel modo giusto. Io non farò gli stessi errori che fece lui».

«Mi fa piacere sentirvelo dire. Ma i segreti che sono scritti in questo diario, non riguardano solo i delitti di Aralar, ma anche misteri antichi come il mondo e forse di più, che lui forse aveva scoperto. Se quello che viene descritto qui dentro è vero, Aralar era riuscito ad arrivare agli estremi confini di Kellur, e aveva dato uno sguardo su orrori e cose indescrivibili che si trovano oltre la Soglia. Aveva visto e parlato con Dei e Demoni, sia oscuri che luminosi, e aveva disvelato misteri che erano antichi già prima che i primi Uomini comparissero sulla Madre Terra.

Lui è stato di fronte a presenze che sono troppo grandi per essere sopportate dalle nostre limitate menti umane, e penso che sia per questo che è impazzito. Sempre che quello che ha narrato qui dentro sia successo veramente, e non sia solo frutto della sua immaginazione».

«Sicuramente è successo. Lui non immaginava niente, lui sapeva. E un giorno saprò anche io…»

Prese in mano il diario, e si avvicinò alla finestra.

«Il diario non è fondamentale, magari servirà ad accellerare le mie ricerche, ma sono sicura che al traguardo a cui voleva arrivare lui, ci arriverò anche io anche senza leggerlo.

I suoi libri alchemici, e tutte le altre sue carte, le ho sempre avute io. Non le ho date a nessuno, anche se mi hanno offerto molti pentacoli per averle. Sono persino stata minacciata, sapete? Ma io ho tenuto duro, e per avere aiuto mi sono rivolta proprio al mio maestro…. Mi ha insegnato a difendermi, con i mezzi che conosceva lui. L’alchimia conosce molte armi….».

Velthur si senì rabbrividire. Per qualche istante, si era illuso di poter sottrarre Harali al sentiero oscuro che aveva intrapreso Aralar, ma ora, dalle sue allusioni, si sentiva certo che ormai Harali aveva imboccato anche lei una strada oscura. La seduzione del potere, unita alla volontà di riscattarsi dalle sue troppo umili origini, l’aveva spinta più degli insegnamenti del monaco maledetto.

Magari la donna credeva di poter essere diversa dal suo defunto mentore, ma si sbagliava.

«Lo so cosa state pensando! State tranquillo, non ho ucciso nessuno. Ma ho sparso il terrore nei cuori di chi mi minacciava!».

«Suppongo che non mi direte come avete fatto….».

LOVECRAFT 375: COMINCIA LA FOLLIA DI ROGERS NE "L'ORRORE NEL MUSEO".

venerdì 24 marzo 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 355° pagina.


«Questo è il tanto conteso diario di Aralar. Lo consegno a voi, dopo sette anni che l’ho tenuto nascostamente. Ho appena finito di leggerlo, me lo sono studiato bene dall’inizio alla fine. Ho imparato da esso tutto quello che dovevo imparare».

«E perciò, ora che che non vi serve a niente, lo riconsegnate a me!».

«Non solo per quello, ma anche perché voi dovete sapere molte cose sul conto del vostro defunto mentore. Nel diario, parlava anche di voi. Ha scritto parole e frasi che mi hanno fatto capire che vi nascondeva molte cose, e la cosa non mi ha stupito. Voi per lui eravate una novizia, una ragazza ingenua che non doveva sapere nulla dei suoi veri intenti».

Una piega di disprezzo e sufficienza comparve sulla bocca di Harali.

«Poco tempo dopo la morte di Aralar e la nostra ultima conversazione, ricevetti la visita di quell’agente della Triplice Regina delle Fate, quello gnomo di nome Azyel.

Mi disse che aveva una profezia da annunciarmi, da parte della Triplice Regina delle Fate. Mi comunicò che se avessi dimenticato Aralar Alpan e i suoi insegnamenti, la mia vita sarebbe stata lunga e serena. Quindi, non avrei mai dovuto leggere il suo diario, né studiare i suoi libri di alchimia. In ogni caso, la Triplice Regina mi ordinava di lasciarvi in pace, e io ubbidii».

«E se invece aveste continuato sulla strada che lui aveva tracciato per voi?».

«Mi disse che avrei avuto potere e ricchezza, ma solo per alcuni anni, poi l’Altrove, cioè l’Ignoto, mi avrebbe inghiottito, come ha inghiottito Aralar. Ha detto proprio così, “l’Altrove, dopo alcuni anni, ti inghiottirà”. Non gli risposi niente, quella volta. Non ce n’era bisogno.

Conosco troppo bene le Fate e i loro ambigui pronostici per lasciarmi ingannare da loro. Cosa vuol dire “inghiottito”? Tutto e niente!

Quello che voleva dire lo Gnomo era che, se avessi proseguito sul cammino in cui mi ha introdotto il mio maestro, neanche loro avrebbero potuto dirmi che fine avrei fatto. Di fronte all’Altrove la loro vista si spegne, lo sapete.

È quasi comico. Le Fate  mi vengono a dire che il futuro è un terreno ignoto, cosa che noi Uomini sappiamo fin troppo bene, e per questo andiamo dalle Fate a farci fare dei pronostici, e loro vorrebbero che io ne rimanessi spaventata! Alle volte mi chiedo se veramente sono in grado di leggerci nella mente, dato che non sembrano capirne molto! Così gli sorrisi, e continuai per la mia strada.

Avevo già preso la mia decisione, fin dal primo giorno in cui avevo conosciuto Aralar. Sapevo benissimo che mi stava nascondendo molte cose, era proprio quello che mi affascinava in lui. Il mistero e la speranza della rivelazione di esso. Sapevo che mi avrebbe fatto uscire dalla mia grigia e monotona vita in quel fatiscente villaggio infestato dalla miseria e dall’ignoranza, dimenticato in mezzo alle colline e ai boschi.

Mi aveva fatto vedere orizzonti nuovi. Voi mi avete interessato, dottore, anche voi mi avete dato la speranza di poter uscire dalla mia vita, ma mi avete dato solo la speranza, null’altro. Aralar mi aveva dato delle certezze, e mi aveva parlato di cose grandiose, molto più magnificenti ed entusiasmanti di quelle di cui avreste potuto parlarmi voi, anche dando il vostro massimo.

Non l’avete capito, e tantomeno potevano capirlo le Fate. Loro leggono nelle anime degli Uomini, ma non ne capiscono i sogni, perché sono sogni che travalicano ogni loro pensiero.

Loro vedono il futuro, ma noi vediamo oltre l’orizzonte.

Aralar le superava in ogni senso. Non avrebbero potuto leggere i suoi pensieri, tantomeno la sua anima. I suoi pensieri avrebbero bruciato le loro menti.

Io l’avevo capito, quanto era grande quell’uomo, l’ho capito nonostante io sia stata sua allieva per pochi mesi. E lui aveva riconosciuto in me la capacità di imparare i suoi segreti. Me li avrebbe rivelati, un giorno. Ne sono sicura».

«Era un essere malvagio, Harali. Prima di venire a vivere qui, aveva commesso molti furti e saccheggi e persino alcuni omicidi, per raggiungere i suoi scopi. Era malvagio ed era pazzo. Faceva opere alchemiche al limite del lecito, giocava con forze sconosciute, e alla fine quelle stesse forze l’hanno annientato. Ve lo dico nella speranza che vi rendiate conto del pericolo che correte anche voi, anche se so che quasi certamente non saranno certo le mie parole a dissuadervi».

LOVECRAFT 374: L'ARTISTA COME "PROFETA DELL'ALTROVE" NE "L'ORRORE NEL MU...

giovedì 23 marzo 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 354° pagina.


Ma c’è una diceria, una leggenda che corre nelle province meridionali, secondo cui nei villaggi di pescatori alle foci dei fiumi, ci siano alcuni Uomini a cui spunta anche ad essi il terzo occhio, perché sarebbero di sangue misto. Si dice che a volte le donne di quelle parti si congiungono con dei Sagusei, generando degli ibridi, dei mezzosangue che appaiono umani, ma che in realtà non lo sono».

«La conoscevo anche io, ma ho sempre pensato che fosse un’assurdità. I Sagusei, fra tutte le Sette Stirpi di Kellur, sono quelle che si distinguono di più dalle altre. Tant’è vero che sono l’unica stirpe che vive nell’acqua. Vorreste farmi credere che Maxrtran e Aralar avevano sangue saguseo nelle vene?».

«Aralar era originario della provincia di Prini, veniva da una famiglia di pescatori, in un paesino nel delta del grande fiume Donarei. Ci sono molti Sagusei da quelle parti….».

«E Maxtran? Lui è di queste parti, la sua famiglia d’origine, i Milesinesh, vive ad Aminthaisan. Non credo che vengano dalla costa…».

«Il suo cognome da celibe era Milesinesh? Quando il nome sembra un destino….».

Si riferiva al fatto che nella lingua dei Thyrsenna “milesinesh” significava “collina del cimitero”. E guarda caso era morto dentro un mauseoleo sotto un grande tumulo.

«Fatto sta, dottore, che qualche spiegazione per questa anomalia bisogna trovarla. Io le consiglierei di esaminare, d’ora in poi, tutti i crani dei suoi pazienti….».

«In questo momento, Reverenda Madre Fondatrice, il mio problema maggiore è cosa rispondere all’Eminente Pontefice Mezenthis e alla famiglia di Maxtran sulle cause della morte di Maxtran. Sarò costretto a dire che è morto per cause sconosciute. Il che, non farà altro che contribuire alle paurose leggende che ormai ci circolano intorno.

La morte di Maxtran avrà conseguenze gravi in ogni caso. La gente dirà che è un segno divino, una prova della collera di Silen, un ammonimento contro la corruzione dei sacerdoti. Lo sapete anche voi. C’è molto rancore per lo strapotere dei sacerdoti fra gli etarna. Soprattutto fra i pellegrini.

Voi direte che sto parlando come un Avennar…. ma tutti gli episodi di contestazione, tutti gli incidenti dovuti ai predicatori fanatici li conoscete anche voi, non si possono ignorare».

«E chi li ignora? Io no di certo. E non li ignora neanche lo Shepen di Anxur. E se gli direte che le cause della morte di Maxtran sono sconosciute, sarà uno smacco per lui. Come avete detto voi, la gente dirà che si è trattata di una punizione divina. In fin dei conti, io credo che speri di sentirsi dire che si è trattato di un avvelenamento. Così potrà dare la colpa ai fanatici, e rivolgere contro di loro il malcontento e la riprovazione del popolo».

«Per poi magari sentirsi accusare da qualche alto sacerdote geloso della sua ingerenza di nascondere la verità per stornare i sospetti da lui stesso! Comunque si voglia trattare questa morte, non si potranno impedire le dicerie e i sospetti. No, io dirò la verità. Se il potente fratello della Regina vuole sentirsi dire una verità di comodo, dovrà affidare la salma a qualche suo medico di fiducia, che gli dimostrerà tutto quello che lui vuole sentirsi dire. Anzi, mi stupisce che abbia voluto affidarla a me».

«Può darsi che sia stato solo per prendere tempo, in attesa di chiamare il suo medico personale, quello che vive nella sua villa, e che in questo momento si trova ad Enkar, a un simposio di medici.

Non per niente ha detto alle sue guardie di portare il corpo alla sua villa dopo la vostra autopsia. So che nelle sue cantine ha delle celle di ghiaccio alchemico, adatte a conservare un corpo per lungo tempo. Prima credevo che fosse solo per evitare la rapida decomposizione, con questo caldo, ma ora penso che il motivo fosse un altro».

«Allora la cosa non mi riguarda più. Io dirò che non sono riuscito a stabilire le cause della morte, e che deve affidarsi al parere di qualcun altro. Ma prima che affidi la salma alle guardie, voglio mostrarvi una cosa, Harali, una cosa che so a cui tenete molto. Venite con me nel mio studio».

Harali lo seguì senza una parola. Probabilmente aveva già intuito cosa voleva mostrarle il medico.

Giunti nel suo studio, Velthur aprì il cassetto segreto nella parete in cui teneva il diario di Aralar.

LOVECRAFT 373: IL LABORATORIO DI ROGERS NE "L'ORRORE NEL MUSEO".

mercoledì 22 marzo 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 353° pagina.


Ma rimase sorpreso da quello che scoprì. A dire il vero, si era già accorto che qualcosa non andava. Il corpo non aveva nessun rigor mortis. Eppure Maxtran era morto già da diverse ore.

Il fatto era che non c’era alcun organo del corpo che apparisse rosso, nemmeno il cuore. Lo specchio anatomico non segnava nessuna patologia, in nessuno dei suoi organi. A parte uno, la ghiandola pineale, che sembrava stranamente ingrossata. Appariva come un globo rosso in mezzo a tutta quella vitrea azzurrità, e a quel punto il dottore decise di voltare il corpo, per osservarla meglio.

Rimise il tavolo orizzontale facendolo ruotare sui suoi ingranaggi, poi rovesciò il corpo a faccia in giù, lo fissò di nuovo con le corde al tavolo, e lo rimise obliquo.

«Vedete la ghiandola pineale, Harali? Non solo è di colore rosso, ma è anche anormalmente ingrossata, sembra quasi un occhio che voglia sporgere dal retro del cervello. E sapete una cosa? Ho notato la stessa anomalia nel corpo smembrato di Aralar, sette anni fa. Era una cosa che mi aveva colpito, ma sul momento avevo pensato a una sorta di strana malformazione congenita, di tipo sconosciuto. Era una malformazione che riguardava anche il cranio».

Harali tirò un profondo sospiro. Non le piaceva che Velthur parlasse di Aralar.

«Io non ho mai visto i suoi resti. So che non è stato possibile ricomporli in modo decente. Mi hanno descritto in che stato l’avete trovato, e mi hanno detto che nessuno è riuscito a capire come avessero potuto ridurlo in quel modo, e tantomeno chi avesse potuto fare una cosa del genere. Ma ora cosa mi state dicendo, dottore? Che avete notato una particolare anomalia nel suo corpo che ora vedete anche in quello di Maxtran? Volete farmi credere che chi o cosa ha ucciso il mio mentore, ora ha ucciso anche Maxtran?».

«Io non voglio farvi credere niente. Io dico solo che quando ho visto il cervello e l’intero sistema nervoso di Aralar staccato perfettamente dal resto del corpo, ho scoperto che la sua ghiandola pineale era ingrossata, anormalmente grande, e che pareva come una sorta di occhio primitivo, rivolto verso il retro della testa. E un’altra anomalia l’ho trovata sul suo teschio. Sulla parte posteriore del suo cranio, ho notato una strana apertura, simile a un’orbita, che però era chiusa da una membrana, una cartilagine. Era come se nel suo cranio si fosse parzialmente sviluppato un terzo occhio, che però non era mai spuntato. Io non so se questa deformità l’avesse fin dalla nascita, o se in qualche modo gli si stesse sviluppando in quel momento, ma ora vedo la stessa cosa nel cranio di Maxtran.

Vedete anche il suo teschio? Vedete questa specie di apertura ovale nella parte posteriore? È ancora rivestita dalla pelle e dai capelli, però se mette il dito proprio in questo punto, lo sente molle e cedevole. È come se stesse nascendo un terzo occhio anche a lui! Io non so se può essere legato alla sua morte, ma dato che è il secondo cadavere che vedo con questa anomalia…

E tra l’altro, non riesco a vedere nient’altro fuori posto. Anche il suo cuore appare intatto».

«Il terzo occhio….. l’occhio dei Sagusei!».

«Prego?».

«Non lo sapete, dottore? Anche i Sagusei hanno un terzo occhio posto sul retro del cranio, con cui possono guardarsi alle spalle senza voltarsi. L’ho letto in un libro sui Sagusei. Strano che non lo sappiate anche voi».

«Ne avevo sentito parlare, ma ero portato a pensare che si trattasse di una diceria. Sarà perché non ho mai visto un Saguseo da dietro…».

«Non lo si nota molto, perché è molto più piccolo degli altri due occhi, ma funziona. I Sagusei dicono di avere sempre avuto tre occhi, e anzi, quando esistevano solo loro su Kellor, e nessuna delle altre stirpi era ancora nata, la maggior parte degli animali avevano il terzo occhio posto sul retro della testa. In  quel tempo remoto di ere immemorabili e dimenticate,  il mondo era popolato da draghi spaventosi e gigantesche salamandre, ed era coperta quasi solo da foreste di felci e paludi.

Poi, il terzo occhio è scomparso nel mondo animale, e solo alcuni rettili dei Mari del Sud l’hanno conservato, olre ai Sagusei.
Ma c’è una diceria, una leggenda che corre nelle province meridionali, secondo cui nei villaggi di pescatori alle foci dei fiumi, ci siano alcuni Uomini a cui spunta anche ad essi il terzo occhio,

LOVECRAFT 372: L'ORRORE NEL MUSEO.

lunedì 20 marzo 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 352° pagina.


Non ne conosco neanche l’esatto significato. Sicuramente, si tratta di segreti dell’alchimia dei Nani.

Probabilmente, quella che viene chiamata “alchimia cosmica”, perché Aralar una volta mi disse che era il simbolo di un segreto che si trova “oltre le stelle”, e che risale alla più lontana antichità. Mi disse anche che questo ciondolo si chiama “daleth” e che proviene da un’antichissima città ormai scomparsa da molte ere, che si chiamava Daletheia. Un mito di cui non so nulla….».

«Nemmeno io. Quell’uomo sapeva moltissime cose che nessun altro conosce. Come vi dimostrerò fra breve…. ».

Harali non disse niente, ma gli lanciò uno sguardo eloquente. Sapeva che stava per farle qualche rivelazione, e che non le avrebbe detto niente là, con le due guardie di Mezenthis ad ascoltare i loro discorsi.

Una volta a casa sua, nel suo laboratorio medico, il dottore spogliò il corpo di Maxtran e lo adagiò sul suo tavolo inclinato per le operazioni chirurgiche, di fronte al suo specchio anatomico di vetro alchemico, mentre Harali lo osservava.

Le due guardie aspettavano a guardia dell’entrata accanto al cocchio, sorvegliando che nessuno si avvicinasse alla casa del dottore.

«Conoscete gli specchi anatomici, Harali? Questo mi è stato donato dallo stesso Shepen di Anxur, un paio di anni fa. Mi disse che voleva che io avessi tutti gli strumenti che hanno i migliori medici di città, perché potessi essere pronto ad ogni evenienza, dato che sono l’unico medico del paese, con l’afflusso di pellegrini che aumenta sempre più….».

«Certo che li conosco. Per sentito dire, ma li conosco. Stiamo pensando di comprarne uno anche per il nostro eremo. E presto non sarete più l’unico medico della zona, perché ho mandato una delle mie sorelle a studiare medicina ad Enkar, così che il Santuario ne abbia uno pronto ad affrontare ogni emergenza».

«E sapete anche come sono fatti e come funzionano, immagino….».

«Più o meno… fanno vedere l’interno del corpo riflettendone l’immagine, e sono fatti di un vetro azzurro alchemico in cui assieme alla sabbia è stato fuso del mercurio, del rame e polvere di carbone, dopodiché è stata concentrata su di essa la luce della luna e del sole per diversi mesi e operata l’imposizione delle mani per trasmettervi il farthankar di almeno quattro persone ad alta capacità alchemica. E tra l’altro, per parecchie ore, una persona deve sdraiarvisi sopra con un disco di rame con inciso un pentacolo sotto la nuca, per concentrarvi ulteriormente altro farthankar, e per creare un’immediata affinità fra il vetro e il corpo umano. In pratica un processo molto laborioso, lungo e quindi anche molto costoso. Sul loro funzionamento, so che quando si forma l’immagine del corpo al suo interno, le anomalie e le patologie appaiono di colore rosso. Ma non so nulla di come se ne evochino i poteri e come li si governi».

«Sta per scoprirlo. L’ho imparato alla scuola di medicina, quando a noi studenti si permetteva di fare pratica con lo specchio anatomico dell’Alta Scuola di Enkar, anche se poi con tutta probabilità solo una minima parte degli studenti sarà stata in grado di comprarsene uno. Io, mai e poi mai avrei sperato di poterne avere uno. È abbastanza semplice, in fin dei conti».

Velthur aprì uno dei cassetti delle scaffalature lungo le pareti ed estrasse un disco di rame con sopra incisa una stella a cinque punte inscritta in un cerchio. Era un pentacolo, il più comune strumento di azione alchemica che esistesse nel Veltyan. Così comuni, che alla fine la loro riproduzione in miniatura era divenuta la moneta corrente del Regno Aureo.

Lo posò sul petto del morto, e tenendolo fermo con le dita della mano sinistra, cominciò a recitare un mantra evocativo, che ripetuto molte volte serviva a spingere la mente a concentrare il farthankar nel pentacolo, e da lì a rifletterlo nello specchio anatomico.

Dopo alcuni minuti di quella tecnica di opera alchemica, l’immagine del cadavere nello specchio cominciò ad alterarsi, divenendo trasparente. Man mano che il processo avveniva, comparivano gli organi interni, anch’essi vitrei. Si poteva vedere il reticolo delle vene, come un groviglio di ramificazioni azzurrine, mentre tutta la struttura dello scheletro appariva fosforescente.

Quando l’immagine si fu pienamente formata, Velthur cominciò a studiarla, per scoprire la causa della morte di Maxtran.

LOVECRAFT 371: CONCLUSIONE DE "LA TRAPPOLA".

domenica 19 marzo 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 351°pagina.


Subito dopo, Mezenthis ordinò alle guardie di caricare il corpo di Maxtran su di un cocchio e di portarlo a casa del dottor Laran, perché gli potesse fare l’autopsia.

Harali, sorprendentemente, chiese di poter andare con lui, per assisterlo.

Velthur si sforzò di rispondere diplomaticamente.

«Non potevo aspettarmi che voi vi fidaste completamente di me, in fin dei conti».

«Non è per diffidenza, voglio essere la prima persona a sapere il responso».

«Molto bene. Forse è l’occasione buona per riavvicinarci. Ho qualcosa da mostrarvi, a casa mia».

Mezenthis, che assistette alla conversazione tra i due, rimase in silenzio. Sapeva che fra la matriarca delle monache e il medico c’era un’ostilità profonda dai tempi della morte di Aralar, anche se non conosceva tutti gli aspetti della vicenda.

Mentre si avviavano sul cocchio assieme alle guardie dello Shepen e al cadavere di Maxtran avvolto in un lenzuolo bianco, Velthur poté notare come Harali fosse profondamente cambiata. Non era semplicemente la bianca e azzurra tunica sacerdotale, il largo e bianco copricapo cornuto, simbolo del culto del Toro dei Cieli, la testa rasata, gli ornamenti sacri come la borchiata cintura d’argento con il simbolo della croce ansata, che le conferivano quell’aria altera e sicura di sé. Era qualcosa che effettivamente aveva nello sguardo, che la rendeva molto diversa dalla ragazza timida, remissiva e umile che aveva conosciuto sette anni prima in quello sperduto  e miserrimo paesino tra le colline.

La sicurezza di se stessa, l’atteggiamento altero rivelavano una personalità profondamente mutata.

Ma la cosa che colpiva di più Velthur era lo strano ciondolo smeraldino che le pendeva dal collo. Un perfetto tetraedro regolare, come quello che Velthur portava sempre al collo, proprio come lei.

Eppure i due oggetti erano molto diversi l’uno dall’altro. Mentre quello di Velthur era argenteo e solo in parte trasparente, quello di Harali era verde, e di una trasparenza assoluta.

All’interno di quello di Velthur strane linee di luce si intersecavano in un modo che davano l’idea di una geometria erronea, assurda. Invece, in quello di Harali c’erano quattro raggi di luce verde che si dipartivano dal centro verso i quattro vertici del tetraedro, e se li si guardava da vicino, si potevano vedere quattro minuscole figure luminose ed enigmatiche, ognuna dentro uno dei raggi. Una rappresentava un toro, un’altra un leone, una terza un’aquila, e l’ultima un uomo.

In quei sette anni dalla morte di Aralar, il medico e la monaca si erano incontrati solo di sfuggita, e lei aveva sempre dimostrato quella fredda ostilità nei suoi confronti. L’ombra dell’eremita pazzo era calata fra loro due definitivamente, cancellando l’iniziale amicizia che li aveva uniti. Lei non aveva mai abbandonato il sospetto che fosse stato lui a rubare il diario di Aralar, né la sensazione che lui l’avesse defraudata della sua eredità di sapere e potenza custodita in quel testo.

Anche quando aveva eseguito l’esame del cadavere della giovane novizia, aveva visto Harali di sfuggita per dare il suo responso.

Così, lui non aveva mai avuto modo di osservare a lungo e da vicino lo strano ciondolo a tetraedro verde.

Mentre si trovavano assieme sul cocchio delle guardie, Harali notò che osservava il suo ciondolo insistentemente.

«Siete colpito dal mio portafortuna alchemico, dottore? Vedo che voi ne avete uno di simile, anche se non identico».

«Un dono di Prukhu il Sileno. Mi disse che è opera dei Nani. E mi ricordo che il vostro mentore Aralar, vedendolo, disse che ne possedeva uno simile. Me lo disse durante quella mattina in cui andai con lui nel suo eremo, e potei toccare con mano quanto oscuri erano i suoi esperimenti alchemici, anche se non vi ho mai raccontato cosa è successo allora. Quel ciondolo verde è forse quello che portate al collo voi?».

Harali, per un momento, dette al medico l’impressione che volesse chiedergli come osava nominare Aralar e parlare ancora male di lui. Ma non lo fece.

«Sì. È una delle poche cose che mi ha lasciato in eredità. Poche, se togliamo l’immensa sapienza alchemica che possedeva. Prima di morire, mi aveva fatto capire che questo ciondolo verde era particolarmente importante per lui, anche se non mi ha mai spiegato del tutto il perché.

LOVECRAFT 370: IL RITORNO DI ROBERT IN COLLEGIO NE "LA TRAPPOLA"

sabato 18 marzo 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 350° pagina.


«Dovrei aprire il corpo per esserne sicuro, ma credo che sia morto per un grande spavento. Il suo cuore, semplicemente, si è fermato. Non c’era nessuno accanto a lui?».

«Nessuno. Stava compiendo il rito del novilunio, ed era solo nell’ipogeo. Le guardie erano alla porta della galleria, quando hanno sentito…. qualcosa.  O almeno così dicono loro. Un rumore che non sono riusciti a capire che cosa fosse. Hanno detto che sembrava quasi un rombo lontano. Poi hanno sentito un urlo lunghissimo, spaventoso. Sono corsi tutti e tre, e hanno trovato il Reverendo Padre Maxtran steso a terra, così come lo vedete voi. Morto. Hanno guardato in ogni angolo del Santuario, e non hanno trovato nessuno. Nessuna traccia. E nessuno può essere uscito dalla galleria, o essersi nascosto da qualche parte. Non riusciamo a spiegarci cosa sia successo. Chissà, forse è stato avvelenato e quando se ne è reso conto, per la rabbia ha sguainato la spada, pensando di vendicarsi prima di morire».

A quelle ultime parole, Larthi Akapri parlò con voce roca, affaticata.

«È la maledizione della Fata, che l’ha ucciso! L’aveva detto che dovevamo vendere tutto e andarcene da qualche altra parte! Ma lui non ha voluto ascoltarla! Io gliel’ho detto tante volte, ma lui non voleva sentire ragioni! Diceva che ero una stupida a voler vendere tutto! E ora la maledizione si è realizzata! Maledetto il giorno in cui abbiamo scoperto questo posto!».

«Parlate con la voce del dolore, signora Akapri. Perciò ve lo lascio dire. Ma io penso che la cosa più probabile sia che sia stato ucciso da Uomini come noi, perché ci sono molti nemici che girano attorno a questo Santuario, persone che vorrebbero impadronirsene per i loro scopi malvagi….».

«Eminente Pontefice, non è detto che sia stato ucciso. Non è strano né raro che una persona venga abbattura da morte improvvisa, anche se in buona salute».

«Io lo spero, dottore, ma sapendo cosa succede qua attorno negli ultmi tempi, preferisco pensare alla peggiore delle ipotesi. Ci sono seguaci di sette segrete e predicatori intransigenti e sovversivi, fomentatori di zizzania che frequentano il Santuario di Silen in preda alle loro ossessioni. Il Reverendo Padre Maxtran sapeva essere molto severo con questi perturbatori della quiete pubblica, e secondo me l’hanno voluto togliere di mezzo. La prossima potrebbe essere la sua diletta figlia Maxileni, o io stesso! Quindi la prego di analizzare il corpo prima possibile, di usare tutta la sua conoscenza medica per assicurarmi che è morto di morte naturale».

«Lo farei in ogni caso, Eminente Pontefice! Conoscevo bene Maxtran, dai tempi in cui fu scoperto il Santuario. Se davvero qualcuno l’ha assassinato, farò tutto il possibile per aiutarvi a trovare l’assassino o gli assassini».

Proprio in quel momento, arrivò un’altra persona che era stata avvertita prontamente della morte di Maxtran, la più assidua frequentatrice del Santuario: Harali Frontiakh.

Dopo le dovute condoglianze alla famiglia, la Reverenda Madre Fondatrice delle Spose di Sin si inchinò a baciare la mano allo Shepen.

«Eminente Pontefice, mi sono precipitata qui appena sono stata avvertita della disgrazia! Ditemi che non è stato un assassinio!».

«Vorrei potervelo dire, ma l’ultima parola spetta al qui presente dottor Velthur Laran, che non ha ancora espresso un parere definitivo».

Da come Harali si voltò verso Velthur, questi ebbe l’impressione che non si aspettasse la sua presenza. O forse era dispiaciuta che lui fosse arrivato prima. Cosa inevitabile, dato che lei viveva in cima al Monte Leccio.

«Allora confido nell’obiettività del dottor Laran».

«Avrò la stessa obiettività che ho dimostrato nel dare il mio responso sulla morte della vostra povera novizia. Così, a occhio e croce, penserei che si tratta dello stesso tipo di morte. Inspiegabile».

«Solo che la mia novizia era morta in mezzo al campo qui vicino, di notte, dopo essere fuggita dall’eremo. Ed era una ragazza facilmente impressionabile, fragile. Questa invece è una morte avvenuta dentro il Santuario, la morte di un uomo che ha fatto il soldato da giovane, un uomo ancora saldo e forte».

«Anche un uomo saldo e forte può morire improvvisamente, senza ragione apparente».

LOVECRAFT 369: CANEVIN LIBERA ROBERT GRANDISON NE "LA TRAPPOLA".

lunedì 13 marzo 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 349° pagina.


da tempo. Rivide la sua lontana infanzia, tutta la sua famiglia, la sua partenza da casa per arruolarsi nell’esercito del Veltyan, le battaglie della sua gioventù, il suo stabilirsi con la moglie presso la Polenta Verde e la costruzione della sua casa, la nascita dei suoi figli e il grande cambiamento della sua vita sette anni prima. Vedeva le immagini dei suoi ricordi sul fondo di quel piccolo pozzo luminoso, in rapidissima successione eppure in modo vivido ed intenso, come se ogni istante della sua vita fosse fissato per sempre nell’eternità, e lui potesse contemplarlo tutte le volte che voleva. Il tempo stesso, per lui, sembrava essersi fermato, o quasi. Quegli istanti si stavano dilatando all’infinito.

E in quei momenti di eterna memoria, vide qualcos’altro in quel piccolo pozzo di luce, nelle fiamme surreali che avvolgevano l’oggetto misterioso. Come dei ricordi che non erano suoi, ma che venissero da qualche altra parte, e che pure aveva la sensazione che in qualche modo gli appartenessero, come se ricordasse un’altra vita, anzi molte altre vite.

Un’immagine stranissima gli si profilò di fronte agli occhi, come se camminasse in un immenso prato verde, costellato di innumerevoli fiori, i gigli rossi che crescevano qua e là sulla Polenta Verde da quando era stato scoperto il Santuario d’Ambra. Una moltitudine infinita di fiori che si stendeva fino all’orizzonte, e in mezzo ai quali sembrava splendere una cosa meravigliosa, come una serie di sfere concentriche di cristallo, a tratti risplendenti, a tratti trasparenti, a tratti specchianti, che riflettevano la sua stessa immagine e quella del prato infinito, infinite volte, come uno specchio che riflette un altro specchio. E in quel caos senza fine di immagini uguali e diverse l’una all’altra, alla fine gli venne un lampo di consapevolezza. In un istante, seppe cosa stava guardando, nell’ultimo infinito istante in cui gli furono rivelate tutte le cose.

E fu l’ultima cosa che vide in quella sua vita.

Almeno, nella vita che stava vivendo in quel luogo e in quel momento.

Poi il suo vecchio cuore si fermò, non potendo reggere l’immensa emozione.







CAP. XXVIII:  LA SIGNORA DEI GATTI



La mattina dopo, la notizia della morte del gran sacerdote del Santuario d’Ambra si diffuse rapidamente. Ramthi, la figlia minore di Maxtran, era corsa dal dottor Laran con un cocchio guidato da uno schiavo, per dirgli che suo padre era stato trovato presso l’altare del Santuario, steso a terra con gli occhi sbarrati. Volevano che venisse per capire di cosa fosse morto, perché sospettavano che potesse essere stato avvelenato.

Quando Velthur arrivò dentro il Santuario d’Ambra, vide il corpo del kamethei etariakh dove era stato trovato, steso accanto al fianco destro dell’altare, con gli occhi sbarrati che guardavano verso l’alto e con accanto la moglie apparentemente inebetita, che guardava nel vuoto, la figlia Maxileni e lo stesso Mezenthis che, naturalmente, era stato la prima persona fuori della famiglia ad essere stata avvertita.

Quella mattina l’Eminente Pontefice di Anxur aveva un’aria meno ornata e sofisticata del solito. Doveva essersi letteralmente buttato giù dal letto, quando gli avevano dato la tragica notizia.

«Dottor Laran, contiamo su di voi per aiutarci a scoprire il mistero di questa morte. Spero che mi direte che si tratta solo di una morte naturale! Anche se ho non pochi dubbi al riguardo….».

Con un gesto, Mezenthis mostrò tra le sue mani la spada di acciaio adamantino di Maxtran.

«Questa è stata trovata accanto al corpo. Sembra che l’abbia sguainata poco prima di morire, come se ci fosse stato qualcosa che l’aveva messo in guardia. Ma lui apparentemente non ha alcuna ferita».

Velthur si chinò accanto al corpo di Maxtran, osservando l’espressione che aveva in volto. Un’espressione inidentificabile disegnata su di un volto pallidissimo e su occhi iniettati di sangue. Non riusciva a capire se potesse essere stato terrore, o semplicemente sconcerto e meraviglia.

Esaminando il corpo, non trovò nessuna ferita, nessun livido, nessun graffio. Assolutamente niente.

LOVECRAFT 367: I PRIGIONIERI DELLO SPECCHIO NE "LA TRAPPOLA".

domenica 12 marzo 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 348° pagina.


Maxtran si volse di nuovo verso il mostro ultraterreno, e lasciò andare la spada. Si pentì quasi di averla puntata contro il misterioso messaggero. Perché aveva capito che, in qualche modo, Bekigor si era manifestato per compiere un prodigio, per lanciare un messaggio a lui, che era il massimo custode del tempio.

Con reverente timore, il kamethei etariakh indietreggiò verso l’altare, fino a girargli attorno e guardare cosa avveniva dietro di esso.

Quando fu dall’altra parte, la vista gli si era annebbiata per l’emozione di trovarsi di fronte a quella che per lui era una manifestazione divina.

I raggi di luce iridata che scaturivano dall’occhio nella mano sinistra di Bekigor, attraversavano tutto l’altare per uscire dall’altra parte, curvandosi come un getto d’acqua e andando a cadere sul pavimento, all’interno di una sorta di botola, o di pietra circolare, il cui bordo era stato così sottile da essere stato quasi invisibile prima di allora.

Maxtran aveva notato molte volte quella sorta di botola, che molti invece nemmeno distinguevano, ma non aveva mai pensato potesse essere l’ingresso nascosto ad una cripta al di sotto dell’ipogeo, perché era troppo piccola perché vi potesse passare un Uomo, e tantomeno un Gigante.

Ora però la pietra della liscia botola, che non aveva mai avuto nessun contrassegno, né alcun appiglio per poterla sollevare, splendeva di luce propria, e addirittura fumava di luce diafana e di un bianco lunare, spettrale. Sembrava come una piccola luna splendente incastonata nel nero pavimento di  lastre di ardesia.

E mentre guardava quella luce, Maxtran ricordò qualcosa, una cosa che aveva dimenticato da anni.

Ricordò della notte in cui era iniziata per lui l’incredibile avventura del Santuario d’Ambra.

Ricordò la misteriosa Fata che era venuta a riprendersi il suo scialle verde in cambio della rivelazione di quel grande tesoro, e le parole di raccomandazione che gli aveva lanciate.

Non toccate ciò che troverete dietro l’altare, per nessun motivo.

Gli aveva anche detto di andarsene, dopo che avessero venduto la terra e fossero divenuti ricchi. Cosa che non avevano mai fatto e non avevano mai neanche pensato di fare.

Una volta Velthur gli aveva detto che avevano fatto bene a non farlo, perché quella Fata in realtà era stata un’amica del folle Aralar, e aveva detto così agli Akapri evidentemente per allontanarli e lasciare il campo libero all’eremita. A dire il vero, Maxtran non c’aveva mai creduto, perché trovava assurdo che la Fata avesse fatto trovare loro il Santuario d’Ambra, anziché semplicemente far sì che il suo amico potesse avere il possesso del tumulo della Polenta Verde, facendo prima in modo che nessuno sapesse che cosa vi si nascondeva.

E adesso, mentre vedeva il cerchio nella pietra che diventava sempre più luminoso, chissà perché tutti i ricordi di quella sera lontana gli ritornavano netti, come se li avesse vissuti il giorno prima, e assieme a loro altri ricordi. Apparivano di fronte ai suoi occhi, in seguenza rapidissima, le immagini vivide della visita della Regina, dell’arrivo di Mezenthis, del moltiplicarsi dei pellegrini a frotte attorno al Santuario d’Ambra, e le discussioni con conoscenti, parenti e amici su come condurre quel luogo magnificente.

E ora capiva di aver frainteso il senso del monito della Fata. Per anni, sia lui che la sua famiglia avevano sempre pensato che si fosse riferita alla grande statua d’ambra di Silen, e alla tomba di cristallo sottostante, che però si trovavano a più di dieci metri dietro l’altare

Ora invece capiva che aveva inteso qualcosa che si trovava nascosto immediatamente dietro l’altare, dentro il pavimento. Qualcosa di cui nessuno aveva mai saputo nulla.

E Bekigor, lui ne era convinto, era venuto dagli Inferi per rivelargli quel segreto. Gli strani dardi di luce che scaturivano dall’occhio della sua mano cadevano nella botola, la rendevano luminosa, e pian piano anche trasparente. Maxtran poteva vedere che sotto la botola c’era una cavità a cilindro, che ora risplendeva tutta come un pozzo di luce bianca schermato dal più puro cristallo, e sul suo fondo ardeva qualcosa di bellissimo e nello stesso tempo di terrificante. Qualcosa di vivo.
E mentre cercava di notare i particolari sfuggenti e fiammeggianti di quell’oggetto, nella sua mente accadeva qualcosa di strano e di inspiegabile. Era come se rivedesse tutta la sua vita fin dall’inizio, non solo tutte le cose che ricordava bene, ma anche quelle che aveva quasi o del tutto dimenticate

LOVECRAFT 366: LA FISICA QUADRIDIMENSIONALE NE "LA TRAPPOLA".

sabato 11 marzo 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 347° pagina.


Di fronte a lui, immobile, in attesa, c’era Bekigor, che lo osservava con il suo grande occhio rosso.

Era molto più grande della sua effigie posta a metà della galleria, all’incirca come un asino, ma per il resto era più o meno come rappresentato nella sua statua. Solo, era vivo e animato, pulsante di vita.

Aveva il corpo di drago squamoso e biancastro, con le sei zampe e gli zoccoli rossi, sormontato dal corpo di uomo dalla cintola in su, coperto di un fitto pelo nero, e la lunga coda verde di serpente attorcigliata a spirale, che sembrava fremere e agitarsi come la coda di un gatto.

E soprattutto aveva la testa ad occhio, dalle grandi palpebre nere, un grande occhio acquoso, vitreo, dalle sfumature che andavano dal rosso sangue a un rosso pallido, quasi rosa, che si diramava in ramificazioni venose dal bordo verso la pupilla a fessura, dove le pieghe dell’iride pulsavano come un cuore. Anche le vene rosate della sclera rossa pulsavano, come se all’interno di quel corpo mostruoso il cuore pompasse violentemente come dopo una corsa.

Le grandi ali nere e membranose invece erano ripiegate lungo i fianchi, immobili.

Ma c’erano altri particolari che nella statua lo scultore non aveva riportato. Sui lati del collo c’erano due orifizi lunghi e stretti, come una sorta di branchie, da cui chiaramente l’essere respirava, e l’ombelico aveva l’aspetto di una ventosa ricoperta di piccolissimi denti, che si contraeva come a voler succhiare qualcosa. Doveva essere una bocca, che portava direttamente al suo stomaco, se ne aveva uno.

Senza fare un passo, il Demone Oscuro levò il braccio villoso per mostrare a Maxtran il palmo. La mano non era umana, perché aveva due pollici ai lati, e le dita sembravano quasi dei grossi vermi snodati, in grado di contorcersi in ogni direzione. E anche lì c’era un particolare che corrispondeva alla forma dell’idolo. Un occhio bianco si apriva nel palmo, e sembrava guardare Maxtran come il grande occhio rosso.

Ma forse l’occhio nella mano non era un organo della vista, perché dalla sua pupilla scaturì un lampo multicolore. Anzi, una serie di lampi in sequenza di diversa intensità e diversi colori.

Dalla sua mano partivano lampi che passarono attraverso Maxtran come se fosse di vetro, per andare a colpire l’altare di ambra.

Il vecchio ex-soldato saltò istintivamente su un lato dell’altare, convinto di essere stato colpito dai misteriosi fulmini che continuavano a proiettarsi dalla mano del demone all’altare.

Continuando a brandire la spada, calò per un attimo lo sguardo verso il basso, per vedere se era stato ferito. Credeva di vedere delle bruciature o dei buchi sulla tunica, ma non vide niente. D’altra parte, non li aveva neanche sentiti, quei raggi di luce che avevano attraversato il suo corpo.

Sembrava che a Bekigor non importasse niente del sacerdote, ma solo dell’altare. Restava fermo, non avanzava, forse per evitare l’affilatissima e potentissima spada del vecchio guerriero, ma sembrava che, qualsiasi cosa stesse facendo, potesse farla da dove si trovava.

Mai voltare le spalle al nemico, questa era la prima cosa che doveva imparare un buon soldato, ma Maxtran non poté fare a meno di voltare almeno il volto verso l’altare, pur continuando a stare di fronte al demone brandendo la spada con entrambe le braccia.

A farlo voltare, non fu tanto quello strano fenomeno dei raggi che gli erano passati attraverso, ma il fatto che quei raggi colpivano l’altare con un tonfo sordo, come se fossero proiettili solidi, penetrando nel grande blocco d’ambra con delle scintille fiammeggianti.

Poi Maxtran sentì un altro suono, lungo, basso, come un rombo lontano, vibrante, che sembrava sorgere dalle viscere della terra. Un rombo che pareva anche un ronzio, quasi come il sommesso sciamare delle api in un grande cespuglio fiorito.

Il rumore sembrava provenire dall’altare, ma poi ebbe l’impressione che invece provenisse da dietro di esso.

E infatti, dopo pochi istanti, da dietro  il grande blocco squadrato di ambra alchemica, si alzò una sorta di fumo luminoso, di un colore lattescente, che si alzava in ampie ma sottili volute, come il fumo di una pipa. Sembrava quasi una cosa viva, come un groviglio di serpenti che si attorcigliasse nell’aria, propagandosi sempre più. Non era il fumo di un fuoco, non sembrava neanche essere veramente fumo, ma l’apparizione di un spirito. E quel suono si faceva sempre più forte.

LOVECRAFT 365: LA STRUTTURA DEL MONDO-SPECCHIO NE "LA TRAPPOLA".

giovedì 9 marzo 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 346° pagina.


Le notti di luna nuova erano quelle in cui i riti nel Santuario erano al minimo. Perché quello era il momento in cui si diceva che “Silen era morto”, la sua luce era completamente scomparsa dal mondo e attendeva la sua prossima rinascita.

In quella notte, uno dei sacerdoti doveva vegliare da solo in preghiera, per invocare il ritorno del Dio, che sarebbe ricomparso come sottile falce, o meglio sarebbero comparse “le corna del Toro dei Cieli” a segnare il suo ritorno alla vita e ai cicli del tempo.

In quella notte, il Santuario era come a lutto, vuoto di fedeli, vuoto di nuove offerte e nuovi fiori, con un grande drappo nero sull’altare, a significare le tenebre assolute della notte senza luna.

Maxtran, ritto di fronte all’altare con una tunica altrettanto nera e a piedi nudi, teneva le braccia alzate verso l’enorme statua di ambra ed elettro. La lunga barba bianca, biforcuta e particolarmente curata che si era fatto crescere in quei sette anni, spiccava su tutto quel nero come un bianco simbolo lunare nelle tenebre della notte.

Per lui non era una grande fatica. Non si era mai stancato della magnificente bellezza della statua di Silen, di cui era innamorato come la prima volta che l’aveva vista. In quei momenti riusciva a pensare a quanto fosse stato fortunato, e a dimenticare perciò tutti i guai che l’avrebbero assalito di nuovo il giorno dopo.

All’entrata del Santuario c’erano tre soldati della guardia di Mezenthis che sorvegliavano che nessuno potesse disturbare il rito. Maxtran si sentiva tranquillo e sicuro solo in quei momenti, lontano da tutto e da tutti, in compagnia del suo Dio antico.

Persino la presenza del corpo vetrificato del Gigante antidiluviano era per lui qualcosa di rassicurante, come un vecchio amico. Quella perfetta mummia di cristallo era divenuto per lui il simbolo di un’eternità che sentiva vicina. Un giorno forse sarebbe asceso al Cielo Etereo, fra gli Dei e gli Eroi antichi al cospetto di Sil, la Madre dell’Universo, se fosse stato considerato meritevole del più alto dei Cieli, e avrebbe sicuramente potuto incontrare anche il condottiero Anemexin, l’antico Eroe dei Giganti, che forse gli avrebbe spiegato perché era stato scelto lui, per custodire la sua tomba.

Quella notte di novilunio però non poteva immaginare quanto fosse vicina, quell’eternità.

Nel silenzio sepolcrale di quel grande tempio-mausoleo, le sue litanie furono interrotte da un suono che veniva dalla galleria, che sembrava un rumore di passi. Sul momento, pensò che fosse una delle guardie all’entrata dell’ipogeo, ma capì subito che non era così.

Perché si trattava inequivocabilmente di un rumore di zoccoli. Ma non erano degli zoccoli normali. Sembrava che ci fosse qualcosa di strano nella sequenza dei passi, e Maxtran fece presto a capire anche quello. Sembrava una sequenza di sei zoccoli, anziché di quattro.

Fu più forte di lui, fece una cosa che era del tutto contraria al rito, cioè quello di voltarsi verso la vicina entrata alla galleria, dando le spalle al Dio, mentre invece la regola imponeva che un sacerdote  non gli potesse voltare le spalle fino a quando non fosse uscito dal Santuario, camminando all’indietro.

E poi fece un’altra cosa proibita: sguainò la spada di acciaio adamantino che teneva sempre al fianco, nascosta dai paramenti, mentre un sacerdote non avrebbe potuto brandire un’arma in un luogo consacrato, tantomeno mentre praticava il culto. Dopo, avrebbe dovuto sottoporsi a riti di purificazione con acqua di fonte e digiuni.

Accennò a scendere i gradini verso la galleria, per vedere cosa si stava avvicinando. Essa era sufficientemente illuminata dalle lampade perenni perché qualunque cosa fosse potesse apparirgli, almeno come una sagoma ben definita. Ma fece solo qualche passo, non osando trovarsi allo stesso livello del misterioso visitatore. Preferiva comunque poterlo vedere dall’alto, ma così l’avrebbe visto solo quando ce l’avrebbe avuto di fronte.

I passi erano ormai molto vicini, quando improvvisamente rallentarono, si fecero esitanti, come se l’essere avesse paura di rivelarsi. Si chinò sulle ginocchia, brandendo la spada di fronte a sé, così avrebbe potuto vederlo senza scendere del tutto dalle scale.

Quando lo vide, fermo a pochi passi dalla fine della galleria, gli sembrò che un abisso gli si spalancasse sotto i piedi.

LOVECRAFT 364: CONTINUA L'ESPLORAZIONE DEL MONDO-SPECCHIO NE "LA TRAPPOLA".

mercoledì 8 marzo 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 345° pagina.



Qualcuno affermava di averlo visto proprio nei paraggi del Santuario, come se la sua immagine scolpita fosse uscita dalla teca di cristallo in cui era confinata, per vagare a caccia di animi poco nobili e di miscredenti.

Uno di quelli, pochi giorni dopo la festa del Tinsi Kerris, aveva proferito che il Santuario non era diretto da persone pure, perché aveva visto Bekigor salire sulla cima del tumulo, e fare un gesto di disprezzo in direzione della Villa del Santuario. Il classico dito medio.

Il predicatore, un giovane dalla lunghissima barba nera proveniente dalla provincia dell’Ermonevian, era stato subito arrestato dai gendarmi di Mezenthis e condotto alla piccola prigione di Arethyan, ma poco dopo un vasto gruppo di pellegrini si era riunito di fronte alla palazzina dei gendarmi, per protestare contro l’arresto.

Mezenthis aveva acconsentito a scarcerare il predicatore in cambio della promessa che non facesse più commenti sull’amministrazione del Santuario.

Una soluzione molto diplomatica ma che appariva come una toppa messa sopra uno squarcio pronto a riaprirsi.

In quegli anni, Maxtran aveva imparato ad amare il suo ruolo. Aveva scoperto in sé una fede che prima pensava di non avere. Per lui, prima di diventare kamethei etariakh, gli Dei erano sempre stati le potenze del mondo da temere e con cui venire a patti e basta, e non aveva mai condiviso il misticismo dei fedeli più devoti, quelli che erano convinti di poter parlare direttamente con gli Dei ogni volta che pregavano. Gli Dei c’erano, ma erano da tenere a distanza, come per tanti altri Thyrsenna che pregavano sentendo un senso di horror sacri, di “orrore per il sacro”. Un sentimento che aveva sempre caratterizzato gran parte della religione tradizionale.

Era diventato sacerdote solo per motivi di interesse, e all’inizio lo aveva considerato un fastidio, una conseguenza collaterale dell’aver conquistato quell’enorme tesoro, unico in tutto il regno, che a volte lo schiacciava quasi, per la responsabilità che implicava il suo mantenimento.

Poi, in qualche modo, aveva cominciato a credere che quello che gli era capitato fosse stato veramente perché era stato scelto dagli Dei, che Silen aveva eletto lui e la sua famiglia per rinfocolare il suo culto ora quasi ignorato.

Piano piano si era innamorato del suo ruolo, e il suo volersi occupare del Santuario, se all’inizio era semplicemente voler proteggere la sua proprietà, ora era divenuto davvero un compito sacro, legato a una volontà superiore.

Ora però aveva paura di fallire nel suo compito. Temeva che qualche pellegrino fanatico sarebbe venuto e gli avrebbe strappato con la violenza ciò che gli era stato affidato da Silen.

Per questo aveva preso a frequentare sempre più spesso il Santuario, celebrando riti e donando offerte più spesso possibile. Il resto del tempo lo passava a parlare con i pellegrini, a controllarli, a capirne gli umori, a individuare gli animi più suggestionabili, quelli che potevano creare dei problemi.

Aveva assunto una mentalità sempre più rigida, più moralistica, ma nello stesso tempo aliena da ogni eccesso fanatico. Quando si trattava di far rispettare i digiuni e i riti, l’astinenza dall’alcool e dalle carni, o si trattava di fustigare gli atti impuri come accostarsi alle donne mentre avevano le mestruazioni, o il non rispettare il riposo nelle giornate di festa, o il trascurare le offerte agli Dei, era inflessibile.

Ma era altrettanto inflessibile con certe forme di autolesionismo fanatico, come quelli che si fustigavano fino a sanguinare per offrire il loro sangue come sacrificio a Silen, o eccedevano nel digiuno fino a rasentare il suicidio, e che in certi casi diventava un vero e proprio sciopero della fame per protestare contro il lassismo di certi sacerdoti.

In pratica, voleva riuscire ad esercitare un controllo assoluto su quello che succedeva dentro e attorno al Santuario. Il che era ormai diventato impossibile.

Ormai non ne poteva più, e questo lo spingeva a rifugiarsi sempre di più nel grembo protettivo di Silen.

La notte della seconda luna nuova dopo il Tinsi Kerris fu il momento in cui Maxtran vide la risoluzione finale di tutti i suoi problemi.

LOVECRAFT 363: L'INVERSIONE DELLE LEGGI FISICHE NE "LA TRAPPOLA".

martedì 7 marzo 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" dI Pietro Trevisan: 344° pagina.


Maxtran ebbe l’impressione che mentisse, solo perché lo portava al collo ogni volta che entrava nel Santuario. Un qualche significato doveva avere, se lo portava in quell’occasione specifica, e non lo riteneva solo un ricordo del suo mentore.

Inoltre, assomigliava sinistramente all’amuleto che anche il dottor Laran portava al collo, anche se era differente in molti particolari. In ogni caso, avevano tutti e due quella strana forma a tetraedro, che nell’arte dei Thyrsenna era pressoché sconosciuta. Inoltre, anche il medico diceva che il suo amuleto era stato fabbricato dai Nani, e precisamente dai Nani dello Zerennal Baras, il misterioso Giardino delle Rose.

Quell’amuleto perciò aveva alimentato anch’esso le strane chiacchiere sul conto della Prima Reverenda Madre delle Spose di Sin. Praticamente, ormai non pochi paesani dicevano che fosse la più potente delle streghe, seguace di culti misterici, e che conservasse segreti spaventosi che riguardavano le misteriose apparizioni di sette anni prima. Adesso che stavano riprendendo a succedere cose strane, le dicerie erano peggiorate, più diffuse e più fantasiose. Molti cominciavano a dire che il giovane pellegrino trovato morto di fronte all’edicola di Sethlan l’avesse ucciso lei, con un perfido incantesimo.

Naturalmente, c’era chi cominciava a sostenere che fosse stata lei a uccidere Aralar Alpan, per carpirgli i suoi segreti alchemici.

Molti altri invece, che la conoscevano bene e ne avevano ricevuto aiuto e consiglio, la pensavano in modo del tutto opposto. Era una santa donna, sempre disposta ad aiutare i bisognosi, che non teneva per sé i suoi guadagni, ma li impiegava per aiutare i poveri e istruire i giovani.

Non pochi ragazzi erano stati mandati alle Alte Scuole di Enkar con i pentacoli dati da lei alle famiglie. Il fatto che fosse anche lei una etar, una plebea contadina, tornava a suo favore. E i suoi amici diceva che le dicerie infamanti che circolavano ad Arethyan erano opera di sacerdoti invidiosi ed avari che non volevano che divenisse troppo popolare fra gli etarna.

Ma Harali si trovava comunque in una botte di ferro, perché era sotto l’ala protettrice più elevata che ci potesse essere. E comunque, tutti i sacerdoti che appartenevano all’ambiente del Santuario d’Ambra la stimavano.

Tutti, fuorché Maxtran. Lui era l’unico sacerdote dell’ipogeo che provasse una reale diffidenza per Harali. Forse era solo perché era lui che se la trovava sempre tra i piedi, ma la verità era che, semplicemente, non gli piaceva.

E questa scarsa simpatia si era acuita, da quando i problemi al Santuario si erano anch’essi peggiorati. E di parecchio.

Colpa soprattutto di quella statua di quel nuovo Demone Oscuro nato dalla fantasia popolare, il mostruoso Bekigor, che attirava sempre più l’attenzione dei pellegrini, e fomentava ulteriori leggende popolari. A Maxtran non piaceva per niente che quella statua fosse stata messa nella galleria del Santuario, ma tant’era. Il potere della devozione popolare era superiore persino a quella dei sacerdoti stessi. Ogni kamethei etariakh sapeva bene che non era conveniente contrastarla.

Ma Bekigor, il Demone dall’Occhio Rosso era veramente troppo per lui, o meglio, erano troppi i fanatici visionari che aumentavano sempre di più fra i pellegrini.

Era come se Bekigor attirasse tutti i pazzi del Regno Aureo.

Dentro al Santuario, solo i sacerdoti autorizzati da lui, da sua figlia Maxaleni e da Mezenthis potevano celebrare il culto di Silen, ma all’esterno, nei campi, qualsiasi sacerdote o predicatore poteva celebrare quello che voleva, o predicare quello che voleva, a patto che non fosse in contrasto con le leggi e le tradizioni degli Dei del Veltyan.

E capitava sempre più spesso che predicatori deliranti attirassero le folle dei pellegrini e dei visitatori, parlando proprio di Bekigor, visto come messaggero di sventura per i trasgressori della Legge di Sil. Quegli uccelli del malaugurio predicevano che presto sarebbero cadute molte disgrazie e punizioni divine sul Veltyan, e dicevano di avere visto Bekigor che si aggirava nella notte, così come aveva già fatto presso la casa del corrotto e avaro sacerdote di Sethlan.

LOVECRAFT 362: ATTRAVERSO LO SPECCHIO NE "LA TRAPPOLA".

lunedì 6 marzo 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 343° pagina.


sulle tracce di un belk che era stato celebrato lassù. Anche quella storia ormai la sapevano tutti, e contribuiva ad alimentare altre strane storie che crescevano come la gramigna nel piccolo, strano paese.

Negli anni seguenti ai quei paurosi eventi, molte volte Maxtran aveva intravisto i fuochi del belk dalla sua fattoria-ostello, in cima a Monte Leccio, almeno fino a quando Harali e le sue consorelle si erano stabilite lassù.

Dopo, non si erano più visti i fuochi verdazzurri del rito fatato, ma Maxtran aveva il sospetto che non fosse affatto perché erano state le Spose di Sin ad impedirli, quanto piuttosto per non dover poi ammettere che avevano qualcosa a che farci.

Maxtran sapeva bene che la massima ambizione di Harali, almeno fra quelle dichiarate ai conoscenti, era di poter riprodurre la brillante ambra alchemica di cui era costituito il Santuario.

Ed era anche una delle ambizioni di Mezenthis. Per questo la finanziava così profumatamente.  Maxtran aveva cercato più di una volta di sapere qualcosa al riguardo, ma Mezenthis e Harali si erano dimostrati sempre molto reticenti, e lui non era nella posizione di poter interrogare a suo piacimento lo Shepen di Anxur o la sua protetta. Era evidente che, se un giorno Harali fosse riuscita a scoprire quel segreto che era stato cercato anche dal suo defunto mentore, Mezenthis non lo avrebbe voluto condividere con nessun altro. Quanto sarebbe diventato ancora più ricco e potente, nessuno poteva immaginarlo.

Una sola volta si era sbilanciato con Maxtran, dichiarando qualcosa che l’aveva lasciato interdetto.

«Sarei disposto a lasciare il mio titolo di Shepen, il mio palazzo ad Anxur, tutte le mie proprietà in quella città e nella grande Veyan, la mia relazione familiare con la Regina, tutte le mie ricchezze, pur di possedere per me i segreti che Harali sta investigando, perché ciò che cercava Aralar, e che ora cerca la sua allieva, sono i più preziosi del Veltyan, e nessuna ricchezza, nessun oggetto prezioso può essere paragonato ad essi».

Era stata l’unica volta in cui Mezenthis aveva fatto capire qualcosa delle sue aspirazioni. Doveva essere stato un momento di debolezza, perché l’Eminente Pontefice aveva bevuto un po’ quella sera, e subito dopo si era accorto di avere parlato troppo.

Infatti in seguito aveva detto a Maxtran di non pensare a quello che aveva appena detto, e anzi di dimenticarsene del tutto, perché gli doveva bastare la grande fortuna che aveva avuto nello scoprire il Santuario d’Ambra, e che doveva accontentarsi di quello che aveva avuto, che era già tanto.

Un modo elegante per fargli capire che non doveva occuparsi di cose che non lo riguardavano, e anche di mandare una velata minaccia.

Ma c’era anche qualcos’altro in Harali che inquietava Maxtran. Il fatto che lei si interessasse fin troppo del Santuario d’Ambra, come se cercasse di carpire qualcosa di più del segreto dell’ambra alchemica.

All’inizio la vedeva venire tutte le mattine di usiltin, per fare le sue offerte e le sue preghiere a Silen, e la vedeva mettersi sempre nello stesso posto, esattamente dietro l’altare quadrato davanti alla statua del Dio della Luna. Lo colpiva il fatto che si mettesse nella stessa identica posizione e nello stesso identico atteggiamento dell’eremita Aralar.

Si sedeva a gambe incrociate sul pavimento, con un piccolo tappetino sotto di sé, e pregava ad occhi chiusi, mormorando parole intelligibili.

Poi, con il passare del tempo, il suo atteggiamento, la sua ritualità erano cambiati. Era stata sua figlia Maxileni, sacerdotessa anch’essa, a fargli notare che Harali aveva l’abitudine di portare al collo non più una normale croce ansata, come facevano tutti i sacerdoti del Veltyan, bensì uno strano ciondolo di una sostanza che sembrava vetro alchemico, verde smeraldo, dalla curiosa forma a tetraedro, e che splendeva di luce propria. Né loro, né nessun altro che l’aveva visto al collo di Harali, aveva mai visto niente del genere.

Una volta Maxtran gli chiese cosa fosse quel ciondolo, e lei aveva risposto che si trattava di un oggetto che gli aveva lasciato in eredità il defunto Aralar, e che lui l’aveva ricevuto in dono da dei Nani, ma che non sapeva quale ne fosse il significato.

LOVECRAFT 361: IL CONTATTO MENTALE TRA CANEVIN E GRANDISON NE "LA TRAPPO...

domenica 5 marzo 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 342°pagina.


Esisteva fra il popolino il detto che c’erano solo tre cose che Sil, la Madre Celeste, non sapeva: una era quanti ordini di sacerdotesse monache ci fossero nel Veltyan. Le altre due erano quanti soldi avevano gli Shepenna e cosa pensassero i teologi sul conto degli Dei.

L’unica cosa che colpiva la gente, per il momento era solo il fatto che si chiamassero le Spose di Sin anziché le Spose di Silen. Non si spiegava bene  perché avessero assunto la forma antica del nome del Dio della Luna.

Una volta Maxtran l’aveva chiesto ad Harali, e lei gli aveva risposto che era perché il Santuario d’Ambra aveva un’origine antidiluviana, e perciò il suo ordine, che era legato al culto del Santuario stesso, era giusto avesse un nome adeguato.

Per Maxtran, la maggiore seccatura era il fatto di dover dare sempre conto a Mezenthis di tutto quanto riguardava il Santuario, ma la seccatura che veniva immediatamente dopo era dover poi avere sempre fra i piedi quella strana donna.

Non che Harali fosse molesta, o invadente, o poco rispettosa nei suoi confronti. Tutt’altro. Cercava di essere sempre ossequiente a lui, che era il kamethei etariakh del Santuario. Riconosceva il suo ruolo e non lo metteva mai in discussione, né criticava in alcun modo il suo operato. A suo modo, cercava di essere d’aiuto nel gestire l’enorme flusso di pellegrini che aumentava di anno in anno.

Ma c’era qualcosa in lei che non andava. Era anche lei appassionata di alchimia, e lo stesso ordine che aveva fondato sembrava essere fortemente dedicato all’alchimia in varie forme, più che qualsiasi altra comunità sacerdotale.

Normalmente, i monasteri femminili del Veltyan erano tutti dediti all’alchimia farmaceutica ed erboristica, invece Harali e le sue consorelle sembravano indirizzate più ad altri campi, più complessi, tesi a produrre cose nuove, a raggiungere traguardi ambiziosi. Sembrava che lavorassero soprattutto vetro e cristalli alchemici, una cosa inconsueta dato che non si era mai sentito di un monastero di alchimiste vetraie.

Si capiva chiaramente che Harali aveva preso in mano l’eredità di Aralar, e voleva proseguirne le misteriose ricerche. In parte, ci era già riuscita. Finanziata dal suo protettore, era riuscita, tre anni prima, dopo aver studiato attentamente le carte di Aralar, a riprodurre quella strana sostanza gommosa e simile alla resina, che era stata scoperta nel bosco il giorno della morte del suo mentore, misteriosamente appesa agli alberi.

Nel laboratorio dell’eremo aveva cominciato a produrre in gran quantità spessi filamenti di quella sostanza ambrata e a venderli come corde, robustissime e durevoli, quasi indistruttibili. Ma si era guardata bene dal rivelare ad alcuno il segreto di tale sostanza, che era stata chiamata “corda d’ambra”.

Questo aveva cominciato a rendere anche lei ricchissima, molto più di tutti gli altri sacerdoti della zona, e quindi anche oggetto di invidia e gelosia, e di bramosia.

Molti avevano cercato di pagarla fior di pentacoli per il suo segreto, ma invano. Si diceva che lo stesso Mezenthis le avesse raccomandato di non vendere a nessuno il suo segreto.

Fatto sta che il monastero aveva assunto di recente un fama dai risvolti loschi. L’anno prima era stata trovata una giovane novizia delle Spose di Sin nei campi vicino al Santuario d’Ambra, morta. Era stata trovata là una mattina di autunno, e nessuno era riuscito a capire cosa le era successo.

Velthur stesso aveva esaminato il corpo, e l’unica cosa che era riuscito a capire, era che la povera ragazza non aveva ferite di nessun tipo, e che sul volto era disegnata un’espressione di terrore. Naturalmente erano cominciate subito le chiacchiere, e molte non erano affatto favorevoli alla Reverenda Prima Madre e fondatrice delle Spose di Sin.

Certe chiacchiere dicevano che la giovane avesse carpito ad Harali il segreto della corda d’ambra, e che volesse venderla ad un ricco e potente alchimista di Enkar, capo di una corporazione di alchimisti dei materiali da costruzione. E che per questo motivo la ragazza fosse stata uccisa, ma non in modo comune, bensì tramite stregoneria.
Dicerie, che non potevano essere provate. Ma che comunque pesavano sulla reputazione di quella donna e del suo monastero. Anche perché aveva costruito il suo eremo in quel posto maledetto dove Maxtran, sette anni prima, aveva trovato quello strano scialle fatato, spinto là dal suo amico Larsin

LOVECRAFT 360: I SOGNI TELEPATICI DEL PROF. CANEVIN NE "LA TRAPPOLA".