lunedì 13 marzo 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 349° pagina.


da tempo. Rivide la sua lontana infanzia, tutta la sua famiglia, la sua partenza da casa per arruolarsi nell’esercito del Veltyan, le battaglie della sua gioventù, il suo stabilirsi con la moglie presso la Polenta Verde e la costruzione della sua casa, la nascita dei suoi figli e il grande cambiamento della sua vita sette anni prima. Vedeva le immagini dei suoi ricordi sul fondo di quel piccolo pozzo luminoso, in rapidissima successione eppure in modo vivido ed intenso, come se ogni istante della sua vita fosse fissato per sempre nell’eternità, e lui potesse contemplarlo tutte le volte che voleva. Il tempo stesso, per lui, sembrava essersi fermato, o quasi. Quegli istanti si stavano dilatando all’infinito.

E in quei momenti di eterna memoria, vide qualcos’altro in quel piccolo pozzo di luce, nelle fiamme surreali che avvolgevano l’oggetto misterioso. Come dei ricordi che non erano suoi, ma che venissero da qualche altra parte, e che pure aveva la sensazione che in qualche modo gli appartenessero, come se ricordasse un’altra vita, anzi molte altre vite.

Un’immagine stranissima gli si profilò di fronte agli occhi, come se camminasse in un immenso prato verde, costellato di innumerevoli fiori, i gigli rossi che crescevano qua e là sulla Polenta Verde da quando era stato scoperto il Santuario d’Ambra. Una moltitudine infinita di fiori che si stendeva fino all’orizzonte, e in mezzo ai quali sembrava splendere una cosa meravigliosa, come una serie di sfere concentriche di cristallo, a tratti risplendenti, a tratti trasparenti, a tratti specchianti, che riflettevano la sua stessa immagine e quella del prato infinito, infinite volte, come uno specchio che riflette un altro specchio. E in quel caos senza fine di immagini uguali e diverse l’una all’altra, alla fine gli venne un lampo di consapevolezza. In un istante, seppe cosa stava guardando, nell’ultimo infinito istante in cui gli furono rivelate tutte le cose.

E fu l’ultima cosa che vide in quella sua vita.

Almeno, nella vita che stava vivendo in quel luogo e in quel momento.

Poi il suo vecchio cuore si fermò, non potendo reggere l’immensa emozione.







CAP. XXVIII:  LA SIGNORA DEI GATTI



La mattina dopo, la notizia della morte del gran sacerdote del Santuario d’Ambra si diffuse rapidamente. Ramthi, la figlia minore di Maxtran, era corsa dal dottor Laran con un cocchio guidato da uno schiavo, per dirgli che suo padre era stato trovato presso l’altare del Santuario, steso a terra con gli occhi sbarrati. Volevano che venisse per capire di cosa fosse morto, perché sospettavano che potesse essere stato avvelenato.

Quando Velthur arrivò dentro il Santuario d’Ambra, vide il corpo del kamethei etariakh dove era stato trovato, steso accanto al fianco destro dell’altare, con gli occhi sbarrati che guardavano verso l’alto e con accanto la moglie apparentemente inebetita, che guardava nel vuoto, la figlia Maxileni e lo stesso Mezenthis che, naturalmente, era stato la prima persona fuori della famiglia ad essere stata avvertita.

Quella mattina l’Eminente Pontefice di Anxur aveva un’aria meno ornata e sofisticata del solito. Doveva essersi letteralmente buttato giù dal letto, quando gli avevano dato la tragica notizia.

«Dottor Laran, contiamo su di voi per aiutarci a scoprire il mistero di questa morte. Spero che mi direte che si tratta solo di una morte naturale! Anche se ho non pochi dubbi al riguardo….».

Con un gesto, Mezenthis mostrò tra le sue mani la spada di acciaio adamantino di Maxtran.

«Questa è stata trovata accanto al corpo. Sembra che l’abbia sguainata poco prima di morire, come se ci fosse stato qualcosa che l’aveva messo in guardia. Ma lui apparentemente non ha alcuna ferita».

Velthur si chinò accanto al corpo di Maxtran, osservando l’espressione che aveva in volto. Un’espressione inidentificabile disegnata su di un volto pallidissimo e su occhi iniettati di sangue. Non riusciva a capire se potesse essere stato terrore, o semplicemente sconcerto e meraviglia.

Esaminando il corpo, non trovò nessuna ferita, nessun livido, nessun graffio. Assolutamente niente.

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