domenica 19 marzo 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 351°pagina.


Subito dopo, Mezenthis ordinò alle guardie di caricare il corpo di Maxtran su di un cocchio e di portarlo a casa del dottor Laran, perché gli potesse fare l’autopsia.

Harali, sorprendentemente, chiese di poter andare con lui, per assisterlo.

Velthur si sforzò di rispondere diplomaticamente.

«Non potevo aspettarmi che voi vi fidaste completamente di me, in fin dei conti».

«Non è per diffidenza, voglio essere la prima persona a sapere il responso».

«Molto bene. Forse è l’occasione buona per riavvicinarci. Ho qualcosa da mostrarvi, a casa mia».

Mezenthis, che assistette alla conversazione tra i due, rimase in silenzio. Sapeva che fra la matriarca delle monache e il medico c’era un’ostilità profonda dai tempi della morte di Aralar, anche se non conosceva tutti gli aspetti della vicenda.

Mentre si avviavano sul cocchio assieme alle guardie dello Shepen e al cadavere di Maxtran avvolto in un lenzuolo bianco, Velthur poté notare come Harali fosse profondamente cambiata. Non era semplicemente la bianca e azzurra tunica sacerdotale, il largo e bianco copricapo cornuto, simbolo del culto del Toro dei Cieli, la testa rasata, gli ornamenti sacri come la borchiata cintura d’argento con il simbolo della croce ansata, che le conferivano quell’aria altera e sicura di sé. Era qualcosa che effettivamente aveva nello sguardo, che la rendeva molto diversa dalla ragazza timida, remissiva e umile che aveva conosciuto sette anni prima in quello sperduto  e miserrimo paesino tra le colline.

La sicurezza di se stessa, l’atteggiamento altero rivelavano una personalità profondamente mutata.

Ma la cosa che colpiva di più Velthur era lo strano ciondolo smeraldino che le pendeva dal collo. Un perfetto tetraedro regolare, come quello che Velthur portava sempre al collo, proprio come lei.

Eppure i due oggetti erano molto diversi l’uno dall’altro. Mentre quello di Velthur era argenteo e solo in parte trasparente, quello di Harali era verde, e di una trasparenza assoluta.

All’interno di quello di Velthur strane linee di luce si intersecavano in un modo che davano l’idea di una geometria erronea, assurda. Invece, in quello di Harali c’erano quattro raggi di luce verde che si dipartivano dal centro verso i quattro vertici del tetraedro, e se li si guardava da vicino, si potevano vedere quattro minuscole figure luminose ed enigmatiche, ognuna dentro uno dei raggi. Una rappresentava un toro, un’altra un leone, una terza un’aquila, e l’ultima un uomo.

In quei sette anni dalla morte di Aralar, il medico e la monaca si erano incontrati solo di sfuggita, e lei aveva sempre dimostrato quella fredda ostilità nei suoi confronti. L’ombra dell’eremita pazzo era calata fra loro due definitivamente, cancellando l’iniziale amicizia che li aveva uniti. Lei non aveva mai abbandonato il sospetto che fosse stato lui a rubare il diario di Aralar, né la sensazione che lui l’avesse defraudata della sua eredità di sapere e potenza custodita in quel testo.

Anche quando aveva eseguito l’esame del cadavere della giovane novizia, aveva visto Harali di sfuggita per dare il suo responso.

Così, lui non aveva mai avuto modo di osservare a lungo e da vicino lo strano ciondolo a tetraedro verde.

Mentre si trovavano assieme sul cocchio delle guardie, Harali notò che osservava il suo ciondolo insistentemente.

«Siete colpito dal mio portafortuna alchemico, dottore? Vedo che voi ne avete uno di simile, anche se non identico».

«Un dono di Prukhu il Sileno. Mi disse che è opera dei Nani. E mi ricordo che il vostro mentore Aralar, vedendolo, disse che ne possedeva uno simile. Me lo disse durante quella mattina in cui andai con lui nel suo eremo, e potei toccare con mano quanto oscuri erano i suoi esperimenti alchemici, anche se non vi ho mai raccontato cosa è successo allora. Quel ciondolo verde è forse quello che portate al collo voi?».

Harali, per un momento, dette al medico l’impressione che volesse chiedergli come osava nominare Aralar e parlare ancora male di lui. Ma non lo fece.

«Sì. È una delle poche cose che mi ha lasciato in eredità. Poche, se togliamo l’immensa sapienza alchemica che possedeva. Prima di morire, mi aveva fatto capire che questo ciondolo verde era particolarmente importante per lui, anche se non mi ha mai spiegato del tutto il perché.

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