lunedì 6 marzo 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 343° pagina.


sulle tracce di un belk che era stato celebrato lassù. Anche quella storia ormai la sapevano tutti, e contribuiva ad alimentare altre strane storie che crescevano come la gramigna nel piccolo, strano paese.

Negli anni seguenti ai quei paurosi eventi, molte volte Maxtran aveva intravisto i fuochi del belk dalla sua fattoria-ostello, in cima a Monte Leccio, almeno fino a quando Harali e le sue consorelle si erano stabilite lassù.

Dopo, non si erano più visti i fuochi verdazzurri del rito fatato, ma Maxtran aveva il sospetto che non fosse affatto perché erano state le Spose di Sin ad impedirli, quanto piuttosto per non dover poi ammettere che avevano qualcosa a che farci.

Maxtran sapeva bene che la massima ambizione di Harali, almeno fra quelle dichiarate ai conoscenti, era di poter riprodurre la brillante ambra alchemica di cui era costituito il Santuario.

Ed era anche una delle ambizioni di Mezenthis. Per questo la finanziava così profumatamente.  Maxtran aveva cercato più di una volta di sapere qualcosa al riguardo, ma Mezenthis e Harali si erano dimostrati sempre molto reticenti, e lui non era nella posizione di poter interrogare a suo piacimento lo Shepen di Anxur o la sua protetta. Era evidente che, se un giorno Harali fosse riuscita a scoprire quel segreto che era stato cercato anche dal suo defunto mentore, Mezenthis non lo avrebbe voluto condividere con nessun altro. Quanto sarebbe diventato ancora più ricco e potente, nessuno poteva immaginarlo.

Una sola volta si era sbilanciato con Maxtran, dichiarando qualcosa che l’aveva lasciato interdetto.

«Sarei disposto a lasciare il mio titolo di Shepen, il mio palazzo ad Anxur, tutte le mie proprietà in quella città e nella grande Veyan, la mia relazione familiare con la Regina, tutte le mie ricchezze, pur di possedere per me i segreti che Harali sta investigando, perché ciò che cercava Aralar, e che ora cerca la sua allieva, sono i più preziosi del Veltyan, e nessuna ricchezza, nessun oggetto prezioso può essere paragonato ad essi».

Era stata l’unica volta in cui Mezenthis aveva fatto capire qualcosa delle sue aspirazioni. Doveva essere stato un momento di debolezza, perché l’Eminente Pontefice aveva bevuto un po’ quella sera, e subito dopo si era accorto di avere parlato troppo.

Infatti in seguito aveva detto a Maxtran di non pensare a quello che aveva appena detto, e anzi di dimenticarsene del tutto, perché gli doveva bastare la grande fortuna che aveva avuto nello scoprire il Santuario d’Ambra, e che doveva accontentarsi di quello che aveva avuto, che era già tanto.

Un modo elegante per fargli capire che non doveva occuparsi di cose che non lo riguardavano, e anche di mandare una velata minaccia.

Ma c’era anche qualcos’altro in Harali che inquietava Maxtran. Il fatto che lei si interessasse fin troppo del Santuario d’Ambra, come se cercasse di carpire qualcosa di più del segreto dell’ambra alchemica.

All’inizio la vedeva venire tutte le mattine di usiltin, per fare le sue offerte e le sue preghiere a Silen, e la vedeva mettersi sempre nello stesso posto, esattamente dietro l’altare quadrato davanti alla statua del Dio della Luna. Lo colpiva il fatto che si mettesse nella stessa identica posizione e nello stesso identico atteggiamento dell’eremita Aralar.

Si sedeva a gambe incrociate sul pavimento, con un piccolo tappetino sotto di sé, e pregava ad occhi chiusi, mormorando parole intelligibili.

Poi, con il passare del tempo, il suo atteggiamento, la sua ritualità erano cambiati. Era stata sua figlia Maxileni, sacerdotessa anch’essa, a fargli notare che Harali aveva l’abitudine di portare al collo non più una normale croce ansata, come facevano tutti i sacerdoti del Veltyan, bensì uno strano ciondolo di una sostanza che sembrava vetro alchemico, verde smeraldo, dalla curiosa forma a tetraedro, e che splendeva di luce propria. Né loro, né nessun altro che l’aveva visto al collo di Harali, aveva mai visto niente del genere.

Una volta Maxtran gli chiese cosa fosse quel ciondolo, e lei aveva risposto che si trattava di un oggetto che gli aveva lasciato in eredità il defunto Aralar, e che lui l’aveva ricevuto in dono da dei Nani, ma che non sapeva quale ne fosse il significato.

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