sulle tracce di un belk
che era stato celebrato lassù. Anche quella storia ormai la sapevano tutti, e
contribuiva ad alimentare altre strane storie che crescevano come la gramigna
nel piccolo, strano paese.
Negli anni seguenti ai quei paurosi eventi, molte volte Maxtran
aveva intravisto i fuochi del belk
dalla sua fattoria-ostello, in cima a Monte Leccio, almeno fino a quando Harali
e le sue consorelle si erano stabilite lassù.
Dopo, non si erano più visti i fuochi verdazzurri del rito
fatato, ma Maxtran aveva il sospetto che non fosse affatto perché erano state
le Spose di Sin ad impedirli, quanto piuttosto per non dover poi ammettere che
avevano qualcosa a che farci.
Maxtran sapeva bene che la massima ambizione di Harali,
almeno fra quelle dichiarate ai conoscenti, era di poter riprodurre la
brillante ambra alchemica di cui era costituito il Santuario.
Ed era anche una delle ambizioni di Mezenthis. Per questo la
finanziava così profumatamente. Maxtran
aveva cercato più di una volta di sapere qualcosa al riguardo, ma Mezenthis e
Harali si erano dimostrati sempre molto reticenti, e lui non era nella posizione
di poter interrogare a suo piacimento lo Shepen di Anxur o la sua protetta. Era
evidente che, se un giorno Harali fosse riuscita a scoprire quel segreto che
era stato cercato anche dal suo defunto mentore, Mezenthis non lo avrebbe
voluto condividere con nessun altro. Quanto sarebbe diventato ancora più ricco
e potente, nessuno poteva immaginarlo.
Una sola volta si era sbilanciato con Maxtran, dichiarando
qualcosa che l’aveva lasciato interdetto.
«Sarei disposto a lasciare il mio titolo di Shepen, il mio
palazzo ad Anxur, tutte le mie proprietà in quella città e nella grande Veyan,
la mia relazione familiare con la Regina, tutte le mie ricchezze, pur di
possedere per me i segreti che Harali sta investigando, perché ciò che cercava
Aralar, e che ora cerca la sua allieva, sono i più preziosi del Veltyan, e
nessuna ricchezza, nessun oggetto prezioso può essere paragonato ad essi».
Era stata l’unica volta in cui Mezenthis aveva fatto capire
qualcosa delle sue aspirazioni. Doveva essere stato un momento di debolezza,
perché l’Eminente Pontefice aveva bevuto un po’ quella sera, e subito dopo si
era accorto di avere parlato troppo.
Infatti in seguito aveva detto a Maxtran di non pensare a
quello che aveva appena detto, e anzi di dimenticarsene del tutto, perché gli
doveva bastare la grande fortuna che aveva avuto nello scoprire il Santuario
d’Ambra, e che doveva accontentarsi di quello che aveva avuto, che era già
tanto.
Un modo elegante per fargli capire che non doveva occuparsi
di cose che non lo riguardavano, e anche di mandare una velata minaccia.
Ma c’era anche qualcos’altro in Harali che inquietava
Maxtran. Il fatto che lei si interessasse fin troppo del Santuario d’Ambra,
come se cercasse di carpire qualcosa di più del segreto dell’ambra alchemica.
All’inizio la vedeva venire tutte le mattine di usiltin, per
fare le sue offerte e le sue preghiere a Silen, e la vedeva mettersi sempre
nello stesso posto, esattamente dietro l’altare quadrato davanti alla statua
del Dio della Luna. Lo colpiva il fatto che si mettesse nella stessa identica
posizione e nello stesso identico atteggiamento dell’eremita Aralar.
Si sedeva a gambe incrociate sul pavimento, con un piccolo
tappetino sotto di sé, e pregava ad occhi chiusi, mormorando parole
intelligibili.
Poi, con il passare del tempo, il suo atteggiamento, la sua
ritualità erano cambiati. Era stata sua figlia Maxileni, sacerdotessa
anch’essa, a fargli notare che Harali aveva l’abitudine di portare al collo non
più una normale croce ansata, come facevano tutti i sacerdoti del Veltyan,
bensì uno strano ciondolo di una sostanza che sembrava vetro alchemico, verde
smeraldo, dalla curiosa forma a tetraedro, e che splendeva di luce propria. Né
loro, né nessun altro che l’aveva visto al collo di Harali, aveva mai visto
niente del genere.
Una volta Maxtran gli chiese cosa fosse quel ciondolo, e lei
aveva risposto che si trattava di un oggetto che gli aveva lasciato in eredità
il defunto Aralar, e che lui l’aveva ricevuto in dono da dei Nani, ma che non
sapeva quale ne fosse il significato.
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