giovedì 9 marzo 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 346° pagina.


Le notti di luna nuova erano quelle in cui i riti nel Santuario erano al minimo. Perché quello era il momento in cui si diceva che “Silen era morto”, la sua luce era completamente scomparsa dal mondo e attendeva la sua prossima rinascita.

In quella notte, uno dei sacerdoti doveva vegliare da solo in preghiera, per invocare il ritorno del Dio, che sarebbe ricomparso come sottile falce, o meglio sarebbero comparse “le corna del Toro dei Cieli” a segnare il suo ritorno alla vita e ai cicli del tempo.

In quella notte, il Santuario era come a lutto, vuoto di fedeli, vuoto di nuove offerte e nuovi fiori, con un grande drappo nero sull’altare, a significare le tenebre assolute della notte senza luna.

Maxtran, ritto di fronte all’altare con una tunica altrettanto nera e a piedi nudi, teneva le braccia alzate verso l’enorme statua di ambra ed elettro. La lunga barba bianca, biforcuta e particolarmente curata che si era fatto crescere in quei sette anni, spiccava su tutto quel nero come un bianco simbolo lunare nelle tenebre della notte.

Per lui non era una grande fatica. Non si era mai stancato della magnificente bellezza della statua di Silen, di cui era innamorato come la prima volta che l’aveva vista. In quei momenti riusciva a pensare a quanto fosse stato fortunato, e a dimenticare perciò tutti i guai che l’avrebbero assalito di nuovo il giorno dopo.

All’entrata del Santuario c’erano tre soldati della guardia di Mezenthis che sorvegliavano che nessuno potesse disturbare il rito. Maxtran si sentiva tranquillo e sicuro solo in quei momenti, lontano da tutto e da tutti, in compagnia del suo Dio antico.

Persino la presenza del corpo vetrificato del Gigante antidiluviano era per lui qualcosa di rassicurante, come un vecchio amico. Quella perfetta mummia di cristallo era divenuto per lui il simbolo di un’eternità che sentiva vicina. Un giorno forse sarebbe asceso al Cielo Etereo, fra gli Dei e gli Eroi antichi al cospetto di Sil, la Madre dell’Universo, se fosse stato considerato meritevole del più alto dei Cieli, e avrebbe sicuramente potuto incontrare anche il condottiero Anemexin, l’antico Eroe dei Giganti, che forse gli avrebbe spiegato perché era stato scelto lui, per custodire la sua tomba.

Quella notte di novilunio però non poteva immaginare quanto fosse vicina, quell’eternità.

Nel silenzio sepolcrale di quel grande tempio-mausoleo, le sue litanie furono interrotte da un suono che veniva dalla galleria, che sembrava un rumore di passi. Sul momento, pensò che fosse una delle guardie all’entrata dell’ipogeo, ma capì subito che non era così.

Perché si trattava inequivocabilmente di un rumore di zoccoli. Ma non erano degli zoccoli normali. Sembrava che ci fosse qualcosa di strano nella sequenza dei passi, e Maxtran fece presto a capire anche quello. Sembrava una sequenza di sei zoccoli, anziché di quattro.

Fu più forte di lui, fece una cosa che era del tutto contraria al rito, cioè quello di voltarsi verso la vicina entrata alla galleria, dando le spalle al Dio, mentre invece la regola imponeva che un sacerdote  non gli potesse voltare le spalle fino a quando non fosse uscito dal Santuario, camminando all’indietro.

E poi fece un’altra cosa proibita: sguainò la spada di acciaio adamantino che teneva sempre al fianco, nascosta dai paramenti, mentre un sacerdote non avrebbe potuto brandire un’arma in un luogo consacrato, tantomeno mentre praticava il culto. Dopo, avrebbe dovuto sottoporsi a riti di purificazione con acqua di fonte e digiuni.

Accennò a scendere i gradini verso la galleria, per vedere cosa si stava avvicinando. Essa era sufficientemente illuminata dalle lampade perenni perché qualunque cosa fosse potesse apparirgli, almeno come una sagoma ben definita. Ma fece solo qualche passo, non osando trovarsi allo stesso livello del misterioso visitatore. Preferiva comunque poterlo vedere dall’alto, ma così l’avrebbe visto solo quando ce l’avrebbe avuto di fronte.

I passi erano ormai molto vicini, quando improvvisamente rallentarono, si fecero esitanti, come se l’essere avesse paura di rivelarsi. Si chinò sulle ginocchia, brandendo la spada di fronte a sé, così avrebbe potuto vederlo senza scendere del tutto dalle scale.

Quando lo vide, fermo a pochi passi dalla fine della galleria, gli sembrò che un abisso gli si spalancasse sotto i piedi.

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