domenica 30 aprile 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 377° pagina.


Ma quella sera, non poté fare a meno di accennare al suo strano incontro con i suoi famigliari, quando si trovarono tutti a tavola per la cena.

«Sai, padre, oggi ho visto un uomo nordico per la prima volta! Aveva i capelli rossi proprio come mi hai detto tu e come c’è scritto nei libri del dottor Laran».

«Non ci sono nordici qui ad Arethyan!» interloquì il fratello undicenne, Larth.

«E che ne sai? Poteva essere un viandante di passaggio!» lo apostrofò Syndrieli.

«Che aspetto aveva?» chiese Larsin.

«Era alto, grosso, pieno di tatuaggi sulle braccia, e penso che ne avesse altri sotto i vestiti…. con questi lunghi capelli rossi, molto lunghi, e una strana barba intrecciata… una volta ho visto un’illustrazione in un libro che mostrava i guerrieri nordici che portavano trecce nei capelli e nelle barbe… ma non era vestito da guerriero, era uno schiavo. Portava un cerchio dorato alla caviglia, e accompagnava un giovane athum, ma non erano a cavallo, nemmeno su di un cocchio. Non so chi fossero, non ricordo di averli mai visti».

«Ah, ho capito chi sono. L’uomo è Kernon, lo schiavo nordico dei Vipinas. Appartiene al popolo dei Gaelna, che vivono molto ma molto lontano da qui, nelle remote terre del nord-ovest…. Lui e l’altra schiava dei Vipinas, Nemerarn, sono gli unici nordici che vivono da queste parti.

Il giovane invece doveva essere Thefren, il figlio maggiore dei Vipinas.

Eh, per le famiglie degli athumna avere uno schiavo nordico è una questione di prestigio….».

«Perché, padre?».

«E chi lo sa? Forse perché sono strani, e i nobili vogliono sempre possedere cose che attirano l’attenzione, che magari fanno invidia agli altri casati… oppure per ricordare sempre a tutto il popolo che noi Thyrsenna siamo superiori a quei selvaggi, chissà… dimmi, ti sei spaventato nel vederlo?».

«Beh, quando l’ho visto sì, un po’, però appena mi ha visto mi ha salutato e mi ha sorriso, poi ha proseguito con il ragazzo, il quale invece manco mi ha degnato di uno sguardo! Doveva essere proprio il suo padrone, allora».

«Lo senti, Syndrieli? Ha solo otto anni, ma già pensa e parla come un adulto! Ha capito già come funziona il mondo».

Syndrieli non rispose, ma domandò tutt’altro argomento.

«Ma tu lo conosci, quel Kyrnan?»

«Kernon. Si chiama Kernon. Sì, lo conosco, viene a volte a bere al Kran Belz. Le sue padrone gli concedono di uscire la sera con un po’ di soldi. Lui dice che lo fanno per tenerlo buono.

E si ubriaca più di me, se è questo che vuoi sapere. Un tipo divertente, gran chiacchierone. Uno sbruffone millantatore. Quando arriva si mette subito a tracannare birra, poi passa al vino, lo tiene per ultimo perché gli piace di più, e vuole goderselo quando è già brillo.

Ai nordici piace molto il vino, perché nel Grande Nord non ce l’hanno, non crescono viti perché fa troppo freddo, o forse non le sanno coltivare, non lo so. Fatto sta che con il vino si ubriaca alquanto e comincia a parlare, a parlare… e noi ci divertiamo a sentire le sue storie assurde e le sue sbruffonate sul suo paese, sulle battaglie fra tribù, sulle belve che popolano le foreste…. ».

Larsin scoppiò a ridere ripensando alle serate con il Gael.

«Quando è proprio ubriaco, si spoglia nudo per far vedere a tutti le cicatrici delle battaglie e i tatuaggi che ha un po’ dappertutto sul corpo. Sono tatuaggi magici che i guerrieri nordici si fanno come protezione dalle armi nemiche. Il bello è che quei pazzi vanno in battaglia completamente nudi, per far vedere il loro coraggio. Dicono di non temere la morte, perché non bisogna temerla.

Dicono che la vera vita è nell’anima, e che se muori in battaglia per l’onore del tuo popolo, la tua anima va in un regno meraviglioso aldilà del Mare d’Occidente, su isole incantate, per poi tornare dopo molti anni e reincarnarsi in un nuovo corpo, magari in uno dei propri stessi discendenti.
Una volta un mio amico fece l’errore di chiedergli come mai, se davvero i guerrieri nordici hanno una così grande fede nella vita eterna dell’anima, lui non era morto impavidamente in battaglia ma si era lasciato catturare dai nostri soldati. Ovviamente ne è venuta una bella rissa, e a Kernan è stato proibito per un bel pezzo di venire in osteria. Pensate: la padrona del Kran Belz, la matriarca Holai

LOVECRAFT 397: IL MISTERIOSO GURU NE "ATTRAVERSO LA PORTA DELLA CHIAVE D...

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 376° pagina.


Ma a dire il vero Loraisan era pieno di paure anche quando andava in giro sotto la luce del sole in mezzo alla strada. Aveva paura di incontrare qualche cane rabbioso o anche solo ostile, o di incontrare bambini più grandi di lui, che potessero fare i prepotenti e picchiarlo, o anche solo prenderlo in giro perché era così gracile e timido.

Ma mentre il sole calava sulla pianura, sulla strada non incontrò quasi nessuno, a parte qualche contadino che tornava dal lavoro. Una volta sola fece un incontro che lo colpì.

Incontrò un uomo dall’aspetto strano e un ragazzo che andavano a piedi in direzione contraria, verso Aminthaisan.

L’uomo aveva lunghi capelli rosso carota, dello stesso acceso colore del pelo di Menkhu, e sulle robuste braccia nude spiccavano degli strani tatuaggi bluastri, a forma di spirali e svastiche dagli uncini a falce di luna, o a ruote di carro. La barba caprina, composta in una lunga e sottile treccia, era di un rosso ancora pù fiammante, dalla tinta d’ambra.

Un nordico.  Era la prima volta che Loraisan ne vedeva uno in vita sua, ma sapeva che nel Veltyan ne vivevano parecchi, immigrati dalle boscose terre oltre le Montagne Albine, attirati dalle calde terre del Veltyan e dall’opulcenza della civiltà, o prigionieri di guerra ridotti in schiavitù.

Loraisan si chiese a quale delle due categorie appartenesse, poi notò il cerchio d’oro alchemico alla caviglia sinistra dell’uomo, e capì che era uno schiavo di qualche nobile famiglia.

E chi gli camminava al fianco, un ragazzo dell’apparente età di dodici o tredici anni, doveva essere il figlio dei nobili padroni che glielo avevano affidato. Forse stavano andando o tornando da una visita ad un’altra famiglia patrizia. Ovviamente non si poteva lasciar andare il figlio di un nobile da solo. Loraisan provò invidia per il ragazzo, che aveva sempre accanto la presenza di un adulto a proteggerlo.

Strano però che non andassero a cavallo, ma a piedi come dei comuni plebei.

L’uomo sorrise a Loraisan e alzò la mano sinistra, e il bambino si sentì sollevato, dopo essersi spaventato alquanto nel momento in cui aveva visto lo strano aspetto del nordico.

Parte della sua paura era dovuta ai pregiudizi dei Thyrsenna nei confronti dei nordici. Dopo aver sentito spesso racconti di invasioni di tribù dai capelli rossi, selvagge e spietate, era naturale che vedere poi dal vivo un membro di queste genti quasi mitiche potesse suscitare timore.

Poi successe qualcosa che sconcertò Loraisan. Quando l’uomo fu più vicino, il sorriso gli si spense improvvisamente sulle labbra.

La sua espressione si mutò da cordiale a spaventata, prese subito per mano il ragazzo che accompagnava e gli fece cenno di affrettarsi, poi senza più guardare Loraisan passò sull’altro lato della strada, e solo una volta superatolo si voltò di nuovo a guardarlo con espressione spaventata.

Loraisan rimase sconcertato. Quell’uomo straniero, grande e grosso, dall’aspetto temibile, l’aveva guardato con paura. Gli pareva assurdo. Non riusciva a immaginare cosa potava avere visto in lui per spaventarsi a tal punto da affrettare il passo per allontanarsi.

Mentre guardava le due figure con i loro mantelli rossi che si allontanavano, Loraisan formulò una catena di pensieri in base a quello che gli avevano raccontato degli Uomini del Nord, ed ebbe un’intuizione. Forse, quell’uomo straniero, quel selvaggio che veniva da regni oscuri e freddi, dominati da riti belluini e violenti, da terre di foreste e belve feroci, di sacrifici umani e lotte sanguinose, di stregonerie blasfeme e orrende, di costumi di vita bestiali e crudeli, aveva visto in lui qualcosa di demoniaco che in qualche modo conosceva bene. Forse aveva avvertito la presenza di una forza oscura, con il suo istinto subumano, tipico di una razza degenerata al limite fra l’uomo e la bestia. Forse aveva sentito la presenza del suo corrotto farthankar, quello che inavvertitamente Loraisan aveva evocato di fronte alla statua di Sethlan, manifestando l’orrendo mostro con l’occhio bianco nella mano nera.

Mentre si avviava di nuovo verso casa, si sentì i brividi correre lungo la schiena e il cuore in gola, pensando che le Presenze dell’Ignoto erano legate invincibilmente alla sua persona, e che non solo lo sentiva lui, ma che lo sentivano anche alcuni esseri, come i gatti valgiglini, o i selvaggi nordici.

Si ripromise di parlarne alla Reverenda Madre Ravinthi non appena fosse tornato all’eremo.

LOVECRAFT 396: GLI AMICI DI CARTER NE "ATTRAVERSO LA CHIAVE DELLA PORTA ...

martedì 25 aprile 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 375° pagina.


e che è molto importante. Ricorda sempre le mie parole ogni volta che avrai paura del buio, ogni volta che avrai paura di stare da solo e penserai che ci sia qualcun altro, accanto a te. Qualcuno che non vedi, ma di cui senti la presenza.

Tu devi sapere che non dobbiamo temere Loro fino a quando non commettiamo degli errori noi. Perché vedi, non siamo noi a non poter raggiungere Loro, gli Altri. Sono Loro a non poter raggiungere noi, a meno che non siamo noi a permetterglielo! Se noi non li cerchiamo, se non li evochiamo, Loro non possono comparire, non possono entrare veramente nella nostra vita. Non possono farci niente. Possono solo far sentire la loro presenza, ma niente di più! Devi solo continuare a pensare che non li vuoi vedere e non li vuoi conoscere. Capisci, Loraisan? Quindi, meno sai di Loro e meglio è! Se tu continui ad avere paura di Loro e non li vuoi conoscere, non li vedrai mai! Non ti raggiungeranno mai, anche se possono osservarti e farti sentire la loro presenza. Ricordatene, ogni volta che avrai paura di Loro! Ma ora, e fino a quando non sarai un ragazzo grande, non ne dovremo più parlare!».

Staccò la mano improvvisamente come gliel’aveva afferrata, e riprese a sgranare i piselli come se niente fosse. Gli disse solo di riprendere il lavoro e cominciò a parlare d’altro.

Loraisan non ebbe bisogno di altro.

Quella stessa sera, si aggrappò con tutta l’anima alle parole di Ravinthi. Non sapeva perché la monaca gli aveva detto quelle parole, non sapeva come lei potesse sapere quello che gli aveva detto. In qualche modo, aveva ammesso di sapere qualcosa su Quelli Dalle Ali Nere.

E gli aveva detto qualcosa che poteva usare come un’arma di difesa. Se non li si cercava, se si continuava a temerli, a volerli evitare, Loro, le Ignote Presenze, non avrebbero potuto avvicinarsi in nessun modo. Potevano osservarti, potevano far sentire la loro vicinanza, ma non potevano mai veramente apparire né interferire nella tua esistenza. Non aveva nessuna certezza che fosse così, ma si aggrappò a quella fede con tutta la propria anima.

Quella sera Loraisan si addormentò continuando a ripetere sotto voce: «Non vi voglio, non potete raggiungermi! Non vi voglio, non mi potete raggiungere!».

Però, nello stesso tempo, sentì che mentre ripeteva quella sorta di mantra, di preghiera alla propria anima e alle leggi mistiche dell’universo mondo, lui nel profondo non era del tutto sincero, perché nascosta tra le pieghe del terrore, c’era una parte di lui che era curiosa, che voleva vedere Loro, i Totalmente Altri, i mostri senza nome e senza volto della notte, e vederne svelato il mistero.

C’era una parte di lui che, mentre era terrorizzato dall’Ignoto, nello stesso tempo ne era affascinato, attratto invincibilmente. E lui lo sapeva, lo sentiva, a tal punto che alla fine si sentì più spaventato da se stesso, che da Loro.

In qualche modo, sentiva che quella sarebbe stata un’attrazione che sarebbe aumentata di giorno in giorno, di anno in anno, fino alla sua maturità.

Un’attrazione che alla fine avrebbe vinto e conquistato il suo terrore.

Un paio di giorni dopo era usiltin, giorno di riposo, e Loraisan, come al solito, era dalla sua famiglia.

Ogni sera di turantin, il giorno precedente a usiltin, sua sorella Eukeni lo accompagnava giù, lungo l’ampio sentiero sassoso che conduceva dalla cima di Monte Leccio alla grande strada lastricata della pianura.

La gatta Ashtair li accompagnava ogni volta. Sembrava sapere sempre quando Loraisan stava per andarsene e quando sarebbe tornato. Ogni mattina di larantin, si metteva di fronte alla porta dell’eremo, in attesa che comparisse dal bosco assieme a sua sorella.

Eukeni lo accompagnava all’andata e al ritorno solo lungo il sentiero, poi sulla strada lui tornava a casa da solo.

I figli dei contadini, in genere, non erano certo iperprotetti, almeno quando andavano fuori di casa.

Gli si diceva di stare lontano dai boschi, dai burroni, dalle rive dei fiumi e per il resto li si lasciava andare dovunque volessero.

Certo, Loraisan faceva eccezione, ma non fino al punto di non lasciarlo andare da solo per vie conosciute.

LOVECRAFT 395: LA TANA DEL SERPENTE NE "ATTRAVERSO LA PORTA DELLA CHIAVE...

domenica 23 aprile 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 374° pagina.


Tuttavia, era noto che da giovane aveva partecipato al belk, come d’altra parte capitava a tanta povera gente delle campagne e delle montagne, e che perciò conosceva alcune streghe dichiarate, come Tarkisi Ferstran, la cugina di Syndrieli, che viveva non lontano da Monte Leccio.

Ravinthi, forse perché era la più vecchia, e una madre mancata, pareva essere la più sollecita di tutte le monache nei confronti di Loraisan. Dato che Harali aveva sempre poco tempo per occuparsi del bambino, aveva raccomandato alla consorella più anziana di seguirlo e sorvegliarlo.

Loraisan si era messo in testa che, siccome Ravinthi era la monaca che doveva controllare che seguisse le regole, sarebbe stata anche la più severa nel giudicare le sue paure e i suoi dubbi. Ravinthi era quella che gli metteva più soggezione, dopo la Reverenda Madre Fondatrice, e perciò era sempre restio a farle domande.

Si era sbagliato.

Un giorno particolarmente piovoso, in cui era rimasto sotto il portico del chiostro a guardare il cielo freddo e grigio vagando con le sue fantasie, si era deciso a chiedere a Ravinthi  se esistessero Quelli dalle Ali Nere, e che posto avessero nel disegno di Sil.

Era entrato nelle cucine, e trovando la monaca che sgranava piselli, lei gli aveva chiesto di aiutarla. Così, mentre stavano seduti assieme ad aprire e vuotare i baccelli, cominciarono a conversare, e lei gli chiese che cosa stava imparando in quei giorni, sui libri che stava leggendo e studiando.

Lui gli rispose che stava leggendo un antico poema che parlava di un eroe che vagava per regni favolosi e incontrava creature incredibili e mostruose, alla ricerca della sorella scomparsa, rapita da un malvagio demone dell’aria, che l’aveva trasportata nel lontano Oriente.

Quella fu l’occasione per Loraisan di chiedere qualcosa riguardo Quelli dalle Ali Nere, e se davvero venivano di notte a spiare dentro le case dalle finestre, per rubare l’anima a chi li vedeva.

«Chi ti ha parlato di Quelli dalle Ali Nere?».

«Un ragazzo più grande, che dice di averlo saputo da sua madre, che ne aveva visto uno di notte, fuori dalla finestra della sua casa».

«E che cos’altro ti ha detto?».

«Nient’altro. Mi ha raccontato questa storia, e basta. Ho provato a chiedere a un amico dei miei genitori, un Sileno, se è vero quello che mi hanno raccontato, e lui mi ha zittito subito, dicendo che di certe cose non bisogna neanche parlare, se non si vuole evocarle!».

Ravinthi fece una lunga pausa, prima di parlare ancora.

«Infatti, di certe cose i bambini non dovrebbero sapere niente. Ha fatto molto male, il tuo amico, a parlarti di quegli spiriti. Ma penso che abbia parlato per ignoranza, senza rendersi conto di ciò che ti stava raccontando».

«Ma io ho paura! Ho paura di quei demoni neri! Non riesco a non pensarci! Ogni volta che cala la notte, ho paura che vengano a trovarmi! Che vengano a portarmi via! Ho cercato, ho pregato per scacciarli dalla mente, ma non ci riesco! Ho pregato Sil ogni giorno di liberarmi dalla paura, di tenerli lontani, ma mi sembra sempre che siano là, nel buio, ad osservarmi. Quando sono da solo, quando è notte ed è tutto silenzio, mi sembra di sentirli accanto a me!».

Ravinthi lo guardò, e questa volta sembrava preoccupata sul serio.

«Ne hai mai parlato con qualcuno, di questo? La Reverenda Madre Harali lo sa?».

«No, io non le ho mai detto questo. Ho paura persino di parlarne…. i miei fratelli e le mie sorelle mi hanno sempre preso in giro per le mie paure. Poi magari anche loro si spaventano a sentire storie di stregonerie e demoni… mio fratello maggiore Erkan, il primogenito, partecipa al belk, ma nessuno vuole parlarne in famiglia, dicono che sono cose per i grandi…. Ci sono troppe cose strane che non capisco, forse se le capissi, avrei meno paura!».

Ravinthi gli afferrò la mano e la strinse, guardandolo dritto negli occhi con un’espressione che stavolta sembrava non essere meno spaventata di quella del bambino.

Si guardò attorno circospetta, per controllare che non ci fosse nessuno che li vedesse e li ascoltasse.
«Ascolta, Loraisan. Io non posso parlarti di certe cose, perché mi è proibito. Non posso trasgredire certe regole, lo sai. Forse un giorno potrò rivelarti alcune cose, ma ora no, purtroppo non posso. Ma tu sai già troppo, e vedo che sei veramente spaventato. Ascolta, allora. C’è qualcosa che devi sapere

LOVECRAFT 394: ANCORA SU CARTER NE "ATTRAVERSO LA PORTA DELLA CHIAVE D'A...

sabato 22 aprile 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 373° pagina.


«Ma quelle sono solo leggende!» rispondevano tutte, anche se i loro occhi tradivano che anche loro temevano che fossero storie vere.

Loraisan chiedeva loro perché se non erano leggende i Demoni Oscuri dell’Orkhun, allora non lo fossero neanche i mostri delle leggende popolari.

«Perché i Demoni Oscuri sono opera di Nostra Signora della Luce, e i mostri delle leggende no». Questa era la semplice e diretta risposta di tutte quante. La risposta che sicuramente anche loro si ripetevano, ogni volta che dovevano affrontare il buio della notte.

Una spiegazione che per Loraisan non significava niente.

Forse che i Basilischi Bianchi non esistevano solo perché la dottrina del Nunarsha Silal non ne parlava? Eppure i Nani esistevano realmente, anche se non adoravano Sil. Fu quella la prima vera occasione per Loraisan di rendersi conto che la dottrina della religione in cui veniva allevato non aveva risposte sufficienti per lui. E in effetti, come la tradizione religiosa poteva dimostrare da sola l’esistenza di una cosa oppure no? Lui voleva certezze, voleva qualcosa che lo rassicurasse totalmente, che fugasse da lui ogni possibile dubbio. La fede, per sua natura, non poteva che esporlo al dubbio. Perché la fede non è conoscenza, e solo essa dà certezze.

Questo pensiero non appariva ancora chiaramente nella sua mente, ma sarebbe divenuto imperante molti anni dopo, quando sarebbe divenuto adulto.

Però Loraisan non demordeva, voleva che almeno una delle monache sacerdotesse riuscisse in qualche modo a rassicurarlo, che magari gli insegnasse un modo efficace per scacciare per sempre gli esseri misteriosi di cui sentiva sempre la presenza senza mai vederli. Lui non aveva mai visto né sentito niente, eppure sentiva che c’erano, che ogni volta che si trovava da solo rimanevano in agguato in un angolo nascosto, che lo osservavano continuamente e aspettavano solo di apparirgli di fronte e a saltargli addosso, forse a portarlo via, o ad ucciderlo. Oppure semplicemente l’avrebbero fatto morire di spavento apparendogli di fronte, in tutto il loro orrore. Perché, ne era sicuro, dovevano essere davvero spaventosi. Insopportabili allo sguardo.

Per quanto si sforzasse di pensare che potevano essere solo una sua immaginazione, non poteva non sentirne la presenza. Non riusciva in nessun modo a convincersi che non c’erano. Loro c’erano, lo sentiva. Sempre.

Finché un giorno si trovò a parlare con una monaca un po’ particolare, la più vecchia di tutte. La maggior parte delle kametheina dell’eremo erano della stessa giovane età di Harali, o ancora più giovani, come Eukeni. Molte erano lì solo per il triennio monastico, poche avevano preso la decisione di viverci per sempre, altre erano ancora indecise.

Ma Ravinthi Thesanzamatiakh era molto più vecchia delle altre, aveva più di cinquant’anni. Era una donna che aveva vissuto la maggior parte della sua vita come quella di una qualsiasi contadina, sorella minore di una matriarca di una fattoria vicino ad Aminthaisan. Ma era stata una vita piuttosto infelice. I suoi figli erano tutti nati morti o erano mancati ancora bambini, e alla fine, superata l’età feconda, aveva deciso di entrare in quel nuovo ordine monastico per compensare in qualche modo il vuoto lasciatogli dalla sua maternità mancata, che la faceva guardare dai parenti e dalla gente di paese con un misto di pietà e di disprezzo. Perché una donna che aveva visto morire tutti i suoi figli in tenera età o alla nascita, doveva essere una donna maledetta dagli Dei.

La mentalità matriarcale dei Thyrsenna, sotto questo punto di vista, poteva essere anche peggiore di quella di una società patriarcale, poiché una madre senza figli era vista come un arco senza frecce, un albero senza frutti e foglie, una donna a metà, priva del suo potere più grande: quello di dare la vita.

Per questo, certe lingue maligne in paese dicevano che era stata lei stessa a far morire i suoi figli, sacrificandoli a qualche divinità oscura per ottenerne in cambio favori e poteri magici. Perciò, su di lei pesava la fama di essere una strega.

Forse, anche per quello aveva deciso alla fine di rinchiudersi in un monastero, dimostrando la sua integrità e sottraendo la sua persona al sospetto e al disprezzo.

LOVECRAFT 393: RANDOLPH CARTER NE "ATTRAVERSO LA PORTA DELLA CHIAVE D'AR...

giovedì 20 aprile 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 372° pagina.


ventaglio, come una sorta di mostruoso incrocio fra quelle di un pipistrello e quelle di una farfalla, e due enormi, terribili occhi rossi, come due monete incandescenti, o come due braci ardenti, che splendevano nel buio. Esseri che volavano silenziosamente ma che emettevano un grido stridulo, acutissimo, simile allo squittìo di un topo, ma più sinistro e del tutto innaturale.

Non poteva farne a meno, di vederli perfettamente delineati sullo schermo buio del suo sguardo sulla notte e sul silenzio, e alla fine si arrendeva. E allora si metteva ad ansimare sommessamente nel suo letto, in attesa che uno di quei mostri comparisse. Era convinto che se avesse aperto gli occhi, ne avrebbe visto uno nella sua camera.

Cosa facessero quegli esseri, non lo si sapeva. Alcuni dicevano che rapivano le loro vittime per divorarle nelle loro tane oscure, in alto sulle cime. Altri dicevano che rubavano l’anima a chiunque li avesse visti, che dopo di allora sarebbero impazziti e si sarebbero ammalati e spenti poco per volta, fino a morire.

Ma alla fine il sonno arrivava nonostante la paura, e per fortuna non sognava mai i mostri che temeva da sveglio. Non che non facesse incubi, ma stranamente i suoi brutti sogni non avevano niente a che fare con esseri mostruosi o demoniaci, o quasi mai.

Sognava invece di trovarsi a vagare in case buie e disabitate, o in lande deserte costellate da case in rovina, oppure di percorrere una strada deserta, e di trovarsi di fronte a dei cadaveri in decomposizione, a volte di animali, a volte di esseri umani. Una volta si era sognato di trovarsi chiuso in una grande tomba, assieme a un cadavere che vi era stato sepolto da poco. Cercava di uscirne, ma non ci riusciva, e temeva che, da un momento all’altro, il morto si sarebbe rianimato.

Spesso sognava di trovarsi in bilico sul tetto di un edificio, o in cima a una parete rocciosa, o in cima a una rapidissima scala, e di precipitare o di rischiare di farlo.

In genere, si svegliava quando il terrore e l’orrore diventavano così intensi da non sopportare il proseguimento dell’incubo. Per fortuna, questi sogni li faceva sempre verso il mattino, e quando si svegliava vedeva il sottile spiraglio di luce solare che rendeva la stanza abbastanza visibile e priva di ombre che potessero essere scambiate per forme mostruose e ignote.

Ma la notte, quando non riusciva a dormire, ascoltava il silenzio del bosco fuori, aspettando di sentire un suono misterioso che si avvicinava, o una voce sussurrante, o un urlo lacerante nel buio, che annunciavano l’arrivo di Loro, le Presenze dell’Ignoto.

Ma anche allora, come sempre, non emerse mai niente dalle ombre della notte. Nessuna orrenda visione, nessun essere demoniaco che spiava dalla finestra, né che attendeva oltre la porta, né che faceva udire la sua sinistra voce dal bosco. Mai. Eppure i suoi terrori, per quanto smentiti dall’esperienza, si riprensentavano sempre ogni notte. Ugualmene irrazionali, ugualmene implacabili, senza ragione, senza motivo, senza causa. Assurdi e ossessivi.

Il nuovo ambiente, però, alla fine l’aveva spinto ad aprirsi un poco di più. Prima, non aveva mai cercato di parlare delle sue paure ossessive, perché i fratelli e le sorelle maggiori lo prendevano in giro per il fatto di essere sempre spaventato da tutto.

Così aveva cominciato a chiedere alle monache dei Demoni Oscuri, degli spiriti dei defunti e altre amenità del genere.

Le monache, ovviamente, si limitavano a ripetere i dogmi e le dottrine del culto di Sil.

Dicevano che le anime pure non dovevano temere i Demoni Oscuri, perché essi esistevano solo per punire i malvagi, perché Sil li aveva creati solo per questo scopo, e non per nuocere ad altri. Poi dicevano che le preghiere proteggevano dagli spiriti inquieti dei defunti e le solite storie rassicuranti dei sacerdoti, per cui l’unico male che bisognava temere era quello che potevano fare gli altri viventi.

Discorsi che per Loraisan non avevano nessun valore.

Infatti chiedeva sempre: ma esistono altri demoni, oltre ai Demoni Oscuri?

Allora la monaca interrogata di turno rispondeva: cosa intendi dire?

Loraisan, timidamente, chiedeva allora se esistevano Quelli dalle Ali Nere, o se esistevano i demoni evocati dalle streghe, o che vivevano in compagnia dei Nani nel sottosuolo, come i Basilischi Bianchi, e altri esseri mitologici.

LOVECRAFT 392: L'INIZIO DE "ATTRAVERSO LA PORTA DELLA CHIAVE D'ARGENTO".

mercoledì 19 aprile 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 371° pagina.


Nel pomeriggio, Loraisan aiutava le Spose di Sin nei loro lavori, in genere in cucina oppure negli orti, nei frutteti e nei vigneti.

Dopo la cena, le monache si ritiravano di nuovo nelle loro stanze, e così doveva fare anche Loraisan, che prima di addormentarsi leggeva qualcosa.

Il bambino scoprì che era un bel vantaggio dormire da solo. Avere una camera solo per sé, tutta per sé, lo faceva sentire bene, anche se il buio e il silenzio della notte erano ancora più spaventosi per lui.

A una certa ora passava una delle consorelle a dirgli che era ora di dormire, e per lui quello era il momento più brutto della giornata, quella in cui tutti i terrori senza nome lo assalivano.

La monaca richiudeva gli sportellini della lampada perenne, e solo una sottile linea di luce azzurra rischiarava debolmente la piccola stanza, perché anche le ante della finestra venivano chiuse.

Se non si addormentava prima e se aveva il coraggio di muoversi, si alzava dal letto e apriva un poco gli sportellini della lampada perenne, quel tanto che bastava perché la luce azzurrina scacciasse le ombre e mostrasse che nella stanza non c’erano spiriti, né esseri mostruosi. Così poteva addormentarsi più facilmente.

La stanza di Loraisan era al primo piano, così come lo era nella fattoria dei Ferstran.

In qualche modo, lo aiutava a sentirsi più sicuro. Ma il pensiero di ciò che si poteva annidare fuori, nel buio della notte, funestava comunque i suoi momenti prima di addormentarsi, o le ore di insonnia che a volte trascorreva paralizzato dal terrore nel suo letto.

Fuori, era sicuro, si annidavano le Presenze dell’Ignoto. Senza nome, senza volto, ma terrificanti.

Perché il suo primo terrore era che potessero svelarsi. Il secondo, che potessero raggiungerlo.

E il pensiero di dove si trovasse, aumentava il suo terrore. La finestra della sua stanza non dava sul cortile interno, ma sull’esterno dell’eremo, verso nord-ovest, dove l’arco delle Montagne della Luna tendeva verso la grande catena delle altissime Montagne Albine e confinava con la grande pianura dove scorreva l’Eydin. A poca distanza, sotto la finestra, cominciava il bosco di lecci. Il bosco di alberi scuri, dove la luce del sole sembrava non riuscire a illuminare le ombre del sottobosco, per quanto fosse sfolgorante. Se era inquietante di giorno, di notte per Loraisan doveva essere la porta stessa degli Inferi.

Lì, nel bosco, sicuramente si nascondevano chissà quali orrori notturni. Spiriti maligni, demoni della notte e degli inferi, vomitati dall’Orkhun, streghe e stregoni che compivano malefici, spiriti dell’aldilà, che non avevano potuto varcare l’infero fiume Styx perché incapaci di allontanarsi dal mondo della carne, e perciò di notte vagavano sulla Madre Terra, tormentate ed inquiete, desiderose di bere il sangue dei viventi, per assumere una parvenza di vita terrena.

Alla loro testa, avanzavano divinità spaventose, gli “Dei avvolti dalle tenebre” di cui parlavano con reverente timore i sacerdoti aruspici.

Divinità oscure come il Grande Capro Nero, l’ebbro Fuflun, con i loro cortei di esseri demoniaci e Sileni ubriachi, di streghe invase dalle droghe e impazzite per il desiderio di sangue, mostri orribili come i Basilischi Bianchi dei Nani, i Sagusei delle profondità risaliti dai fiumi, e il terribile Cthuchulcha dalla chioma di tentacoli e dal becco ricurvo e dalle grandi ali membranose, e per finire i Demoni dalle Ali Nere, che le vecchie contadine in paese dicevano essere comparsi anni prima nella notte proprio là, dalle parti di Monte Leccio.

Una volta Loraisan aveva chiesto al vecchio Prukhu che aspetto avessero quei demoni senza nome, ma lui l’aveva guardato con improvviso spavento, e poi arrabbiandosi gli aveva detto di non nominarli più, e di non chiedere mai niente di loro, per non evocare la loro maledetta presenza.

Da allora, Loraisan ebbe il terrore persino di pensarli. Credeva che immaginandoseli anche solo fuggevolmente, in qualche modo li avrebbe evocati, e se li sarebbe trovati davanti.

Steso nel suo letto ad attendere il sonno, se gli venivano in mente Quelli dalle Ali Nere serrava gli occhi e quasi tratteneva il respiro nel tentativo di non pensare a loro, ma il terrore ovviamente lo spingeva a rivedere la loro immagine scolpita nella mente, così come gli erano stati descritti.
Esseri giganteschi, completamente neri, senza volto, senza collo, con un corpo simile a quello umano, ma enorme, massiccio, peloso come quello di un Sileno, le grandi ali membranose a

LOVECRAFT 391: INTRODUZIONE A "ATTRAVERSO LA PORTA DELLA CHIAVE D'ARGENTO"

lunedì 17 aprile 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 370° pagina.


All’inizio anche Eukeni dovette ammettere che in presenza di Loraisan i gatti valgiglini si comportavano in un modo davvero insolito persino per la loro strana razza.

Tutti, senza eccezione, che fossero dentro l’eremo, o fuori nei grandi orti e nei vigneti che si stendevano sulla cima piatta del grande colle, quando vedevano Loraisan si mettevano prima in allarme, poi sgattaiolavano via, ma poi risbucavano seguendolo con lo sguarda da lontano, pronti a nascondersi di nuovo. Loraisan li chiamava e li richiamava, ma loro rimanevano lontani, diffidenti.

La cosa sconcertava le Spose di Sin, che dichiaravano che i gatti valgiglini, una volta addomesticati, erano molto socievoli e affettuosi con i padroni e con i loro bambini.

Poi, però, col passare dei giorni, man mano che i gatti si abituavano alla sua presenza, impararono a tollerarne la presenza, anche se continuavano a guardarlo da una certa distanza e non volevano lasciarsi accarezzare.

Poi un giorno Ashtair gli si parò di fronte e fece un fievole miagolio, e lui in risposta allungò la mano per accarezzarla. Lei rispose leccandogliela affettuosamente.

Da allora i gatti non ebbero più alcuna diffidenza, e anzi, quando era in cortile, o fuori nell’orto ad aiutare le monache, molti di loro gli si riunivano attorno, seduti sull’erba o arrampicati sugli alberi da frutto, come se sorvegliassero sulla sua sicurezza, o semplicemente controllassero tutto quello che faceva

Le monache sacerdotesse invece furono quasi tutte contentissime di avere Loraisan nell’eremo. In effetti, era una situazione insolita, per loro. Anche se ufficialmente i bambini maschi potevano entrare nei monasteri femminili se avevano meno di dieci o, al massimo, dodici anni, di fatto lui era il primo e l’unico bambino che finora aveva convissuto con loro.

La Reverenda Madre Fondatrice si era sempre occupata solo delle figlie degli etarna, per farle diventare monache permanenti o perlomeno delle donne colte ed istruite e delle abili alchimiste. Non si era mai interessata ai maschi, né nessuno si era mai aspettato che lo facesse. Anzi, se avesse dimostrato troppo interesse per il genere maschile, anche se infante, non sarebbe stata considerata una sacerdotessa monaca molto seria, ovviamente.

Di fatto, Loraisan non vedeva molto spesso Harali, se non durante i quotidiani riti nel tempietto dell’eremo in onore a Sin. Per il resto, la Reverenda Madre Fondatrice era sempre occupata a lavorare e studiare nel laboratorio o nella sua stanza. Il fatto di essere il capo dell’eremo la esentava dai lavori nella cucina e nell’orto o nella lavanderia, mentre invece tutto il suo tempo, se non era occupato dal culto o dai rapporti con gli altri kametheina della regione, era dedicato allo studio di testi e alla ricerca alchemica.

Tra l’altro, in quel periodo sembrava essere particolarmente impegnata nello studio. Le indiscrezioni delle sacerdotesse monache dicevano che avesse ritrovato il diario del Reverendo Padre Aralar Alpan, dove vi erano scritti alcuni segreti alchemici che prima non conosceva ancora.

Le giornate di Loraisan si scandivano sullo stesso ritmo delle monache, in un certo senso era diventato un piccolo monaco anche lui.

Gli avevano rasato a zero i capelli, e dopo qualche giorno una delle monache gli aveva fatto una corta tunica bianca e azzurra che in qualche modo ricordava quelle, molto più lunghe, delle Spose di Sin.

La mattina si doveva alzare presto anche lui per onorare il Bianco Toro dei Cieli nel tempio, poi arrivava la colazione, che era anche più abbondante e variata di quella che mangiava a casa. Poi tutte le monache, sia le più giovani, sia quelle poche che avevano un’età più matura, gli ripetevano sempre la stessa litania: «Sei così magro e gracile, devi mangiare! Mangia, mangia!». Così andava a finire che lo riempivano di cibo dalla mattina alla sera. Era costretto a mangiare anche quando non ne aveva nessuna voglia.

Da buone contadine, subìvano tutte lo stesso preconcetto, cioè d’identificare la grassezza e il mangiare in abbondanza con la salute e la bellezza, e la malattia con la denutrizione.

Dopo la colazione cominciava il lavoro per le monache, e lo studio per lui, fino all’ora di pranzo.

Dopo il pranzo c’era un periodo di pausa in cui le monache si ritiravano nelle loro stanze e Loraisan giocava con i gatti in cortile, poi c’era di nuovo il lavoro fino all’ora dei riti serali.

LOVECRAFT 390: CONCLUSIONE DE "L'ORRORE NEL MUSEO".

domenica 16 aprile 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 369° pagina.


famiglia, non facevano altro che ripetere: «È la cosa migliore per lui. Avrà tante persone buone che lo seguono, avrà una persona sapiente ed importante che lo istruirà ad un futuro migliore per lui e anche per tutti noi. E inoltre imparerà a non stare troppo attaccato alle tuniche di sua madre. E poi ci sarà accanto sua sorella maggiore, che è già una ragazza adulta. Sarà in un ambiente sicuro e protetto e soprattutto lontano da cattive compagnie. È la sistemazione perfetta per lui».

Syndrieli e Larsin ogni volta rispondevano: «Sì, sì, certo, come no. È la scelta migliore. Bisogna essere contenti». Ma il tono della loro voce, il loro sguardo dicevano qualcosa d’altro.

D’altra parte, glielo avevano sempre detto tutti, che erano troppo attaccati a quel bambino.

Forse, dopo tre o quattro anni sarebbe tornato a casa. O forse sarebbe andato a studiare in quell’altro ordine monastico maschile che Harali diceva di voler fondare. E allora forse non lo avrebbero visto fino alla maggiore età, cioè a sedici anni. E dopo forse sarebbe andato a studiare alle Alte Scuole di Enkar, a meno che ad Harali non fosse venuto in mente di fondare un’Alta Scuola anche ad Arethyan. Capacissima di farlo, in fin dei conti. Pareva che l’ordine delle Spose di Sin, grazie alle corde d’ambra, stesse diventando ricca sfondata.

E allora sarebbe stato ancora più lontano, e per tutto il corso di studi non l’avrebbero visto quasi mai, e magari dopo avrebbe anche deciso di rimanerci, in città, come capitava a tanti giovani studenti. E allora l’avrebbero visto solo nelle feste annuali.

Il guaio delle famiglie rigidamente matriarcali delle campagne dei Thyrsenna era che i figli vivevano tutta la loro vita assieme alle madri, e l’idea stessa di un figlio che si separava permanentemente dalla madre suonava come qualcosa di innaturale, come una sorta di tradimento.

Questo, comunque, se tutto fosse andato per il verso giusto. Perché se invece Loraisan non si fosse dimostrato un bravo studente, ma veramente bravo, allora sarebbe tornato a vivere in casa di sua madre e il suo destino non sarebbe stato diverso da quello di qualsiasi altro ragazzo di campagna del Veltyan, vivendo tutta la sua vita con la madre, i fratelli e le sorelle, gli zii, le zie e i cugini.

Una parte di Syndrieli quindi sperava che Loraisan non si dimostrasse quel bambino straordinariamente intelligente che sembrava essere.

Inoltre, c’era una punta di gelosia nei suoi contrastanti sentimenti. Era inevitabile che si chiedesse perché la Reverenda Madre Harali Frontiakh fosse così interessata a suo figlio. Certo, lei le aveva spiegato che quando Eukeni le aveva detto che il suo fratellino era l’allievo dell’infedele Velthur Laran, lei si era sentita in dovere di dargli un’istruzione che fosse più consona alle tradizioni religiose. E sul momento, Syndrieli aveva pensato che la sua generosa sollecitudine per un famigliare di una delle sue adepte nascondesse degli intenti vendicativi contro il medico, perché da molto tempo circolavano storie su una segreta acredine fra i due rinomati personaggi. Un’acredine che, si diceva, risaliva alla morte del misterioso Aralar Alpan.

Ma poi, osservando come Harali guardava Loraisan, Syndrieli aveva intuìto qualcos’altro, come una segreta passione. Gli sembrava che quella donna senza figli, che aveva rinunciato ad essere madre per dedicarsi solo a Sin, volesse compensare questo vuoto adottando Loraisan, tenendolo per sé, allontanandolo dalla sua famiglia.

Syndrieli era una donna semplice, ma astuta. Intuiva troppo bene la natura umana per non capire quali erano le motivazioni più elementari, più istintive delle persone. Perlomeno di quelle umane.

Ma questo sospetto non unfluì sulla sua decisione. Bene o male, il bene di Loraisan e di tutta la famiglia veniva prima di tutto.

Così Loraisan, dopo qualche giorno dalla prima visita all’eremo delle Spose di Sin, vi ritornò accompagnato dalla sorella Eukeni.

Il bambino non aveva più così paura di doversene andare via di casa. Era quello che aveva visto nel laboratorio alchemico dell’eremo, che aveva fatto nascere in lui un entusiasmo che era riuscito a ricacciare indietro, almeno in parte, il timore per il mondo fuori della casa in cui era nato.

Lui stesso si sorprese che non ebbe difficoltà ad adeguarsi alla vita dell’eremo e alle sue regole. E dopo un po’ cominciò anche a provarci gusto.

L’iniziale diffidenza dei gatti si dissolse a poco a poco.

LOVECRAFT 389: JONES INCONTRA ORABONA NE "L'ORRORE NEL MUSEO".

sabato 15 aprile 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 368° pagina.


del sapere, votata alla memoria del suo maestro defunto, l’unico uomo che aveva mai veramente amato e ammirato.

Più tardi, dopo il pranzo consumato nella sala da pranzo dell’eremo, Harali e Syndrieli parlarono insieme sedute su una panchina di pietra del cortile coperto d’erba dell’eremo, decidendo delle modalità con cui Loraisan sarebbe stato ospitato ed istruito dalle Spose di Sin, mentre Eukeni faceva vedere al fratello il resto dell’eremo.

La cosa che affascinava di più Loraisan dopo il laboratorio alchemico, erano i gatti. Chiese di poterne avvicinare qualcuno per poterlo accarezzare. Ma fu molto difficile per lui poterli toccare. Quando si avvicinava, si acquattavano per terra, osservandolo con i loro chiarissimi occhi azzurri, per poi scattare lontano da lui. Poi restavano a guardarlo da lontano, come per sorvegliare le sue mosse. Lo evitavano, ma nello stesso tempo sembravano osservarlo in continuazione, non fuggivano mai del tutto da lui, gli stavano lontano, ma lo seguivano con lo sguardo in continuazione, dovunque andasse.

Lui cercava di essere più cauto possibile, ed Eukeni cercava di aiutarlo a conquistare la fiducia delle strane bestiole, ma non c’era niente da fare.

«È strano. Loro sanno sempre distinguere gli estranei dagli ospiti. Quando vengo qui da sola, ti vengono vicino e si lasciano accarezzare, e anzi fanno un sacco di moine a tutte noi, rotolandosi per terra e strusciandosi, e seguendoci come dei cani. Invece oggi… non so. Sembrano tutti nervosi, guardinghi…. Forse hanno sentito l’odore di qualcosa, o qualcuno, che non gli piace….».

«O magari è colpa mia! Sentono che sono diverso, e non si fidano!».

«Non dire sciocchezze! Tu non sei diverso da nessuno!».

«Un giorno vedrai che ho ragione io. Sono diverso e loro lo sanno».

Eukeni brontolò qualcosa in risposta, ma anche lei era rimasta colpita dallo strano comportamento degli animali.

E quando ritornarono nel cortile, dove le due donne stavano ancora parlando, notarono una cosa ancora più strana. I gatti si erano riuniti poco per volta in cortile, e si erano raccolti proprio attorno ad Harali, la quale, parlando con Syndrieli, non si era minimamente accorta che ora erano circondate da tutti i gatti dell’eremo.

Sembrava quasi che stessero attendendo un ordine da lei, come l’intero corpo della guardia personale di una regina o di una nobildonna, che si fosse riunito là per sapere cosa dovevano fare.

E quando Loraisan entrò nel cortile, decine e decine di occhi azzurri e verdazzurri si volsero verso di lui.

«Vedi, Eukeni? Vogliono chiedere alla loro signora e padrona cosa devono fare con me. Sono animali magici, per questo Harali è la loro Regina. Perché lei è una maga. Lei è la magica Signora dei Gatti».

Da quel giorno, Harali si conquistò, mezzo per scherzo e mezzo seriamente, il titolo di “Signora dei Gatti”, e tale gli rimase.







CAPITOLO XXIX:  L’ORRORE SULLE CIME



Harali avrebbe voluto che Loraisan venisse a vivere nell’eremo già dal giorno della visita. Ma Syndrieli chiese e ottenne di poter dare a lui e a tutta la famiglia qualche giorno di tempo per prepararsi.

Non che ci fosse molto da preparare: a parte un’altra tunica di ricambio, e un paio di libri che il dottor Laran gli aveva regalato per esercitarsi a leggere, non aveva nient’altro da portarsi dietro. Nemmeno un altro paio di sandali. I Ferstran non erano certo poveri per la media dei plebei contadini della regione, ma non erano neanche particolarmente benestanti.
La verità era che per Syndrieli e Larsin l’idea di poter vedere l’amato ultimogenito solo ad ogni usiltin, il fatto di non poterlo vedere ogni giorno, li faceva star troppo male. Gli altri membri della

LOVECRAFT 388: JONES FUGGE DAL MUSEO NE "L'ORRORE NEL MUSEO".

domenica 9 aprile 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 367° pagina.


volenterosi, siano essi etarna o athumna, che vorranno collaborare con noi, sono bene accolti, se sono devoti agli Dei e seguono le antiche tradizioni che ci hanno portato a tutto questo».

«Io…. sono senza parole, Reverenda Madre! Eukeni non mi aveva detto nulla di questo».

«Le avevo ordinato io di non parlarne a nessuno fuori dell’ordine, nemmeno alle persone più vicine. Ve l’ho mostrato perché penso che sia venuto il momento per mostrare a tutti i Thyrsenna questo prodigio che potrebbe cambiare per sempre il Regno Aureo . Capite quale grande beneficio potremmo portare al Veltyan, se riuscissimo a dominare il segreto della levitazione e del trasporto aereo di cose e persone?

Pensate a quante gravose fatiche e sofferenze sarebbero risparmiate ai lavoratori più poveri, quante sventure e stenti verrebbero evitate alle province più povere e disagiate.  Abbiamo bisogno di tanti talenti alchemici, che vengano coltivati ed addestrati per compiere questa grandiosa impresa, che solleverebbe le sorti di tanta povera gente, ma anche di tutti i Thyrsenna. Pensate: con l’alchimia della levitazione, il nostro popolo sarebbe potentissimo e imbattibile. Nessun nemico, nessun invasore potrebbe più prevalere contro di noi.

E vorrei tanto che Loraisan potesse essere uno dei giovani talenti che renderanno possibile questo prodigio. Sono sicura che lui potrebbe. Ne sei convinto anche tu, Loraisan?»

Il bambino riuscì a riscuotersi dopo che Harali aveva cercato diverse volte di richiamare la sua attenzione. Era rimasto completamente incantato, ipnotizzato da quel prodigio. Non si aspettava niente del genere, e il dottor Velthur non gli aveva mai parlato della possibilità, tramite l’alchimia, di poter volare o far volare degli oggetti.

Volare…. uno dei suoi sogni. Forse uno dei suoi sogni più ossessivi. Lo avevano sempre affascinato le favole e i miti di eroi ed eroine che riuscivano a volare magari cavalcando prodigiosi animali alati, o su baldacchini trainati da stormi di uccelli, o con ali artificiali che imitavano quelle dei volatili, o semplicemente per magia.

Ma questa non era una favola, non era un sogno. Aveva visto una pesante pietra grigia sollevarsi da terra come una piuma trasportata dal vento, solo grazie ad un suono.

Non poteva non fantasticare sulla possibilità che un giorno potesse operarlo lui, quel prodigio, e che non avrebbe fatto volare una roccia, bensì lui stesso, e magari anche a un altezza molto maggiore.

Volando sopra campi e foreste, fiumi e città, fino alla cima delle montagne, verso orizzonti lontani.

Ma solo se avesse coltivato il suo farthankar, il suo talento alchemico che, lui ne era sicuro, possedeva in abbondanza, ma che nello stesso tempo temeva come un morbo, come una malattia da nascondere prima che potesse portare contagio e morte.

Da quel giorno in cui il giovane pellegrino si era suicidato di fronte all’edicola di Sethlan, Loraisan era sempre stato convinto che il suo farthankar era qualcosa da nascondere e reprimere, ma ora provava una tentazione irresistibile che lo spingeva a coltivare sogni audaci e proibiti. Ed era proprio una donna consacrata, una monaca sacerdotessa, ad invitarlo a coltivare questo suo lato segreto.

Forse quello era il segno divino che aveva atteso, per cui aveva pregato. Forse se avesse studiato l’alchimia sotto la guida delle Spose di Sin, avrebbe imparato a controllare il suo farthankar, affinché potesse aiutarlo a fare il bene, e a non causare la morte.

«Mi ascolti, Loraisan? Per la luce di Sil e Sin, il bambino si è incantato! Avrei dovuto immaginarlo che sarebbe stata una sorpresa troppo grande per lui! Non devi avere paura, bambino mio. È solo un’emissione di forza alchemica. Non è un prodigio divino!».

«Io…. voglio imparare l’alchimia!».
Harali sorrise di nuovo e annuì. Loraisan non lo sapeva, ma stava sognando anche lei. Misteriosamente affascinata da quel bambino dai grandi occhi neri, sognava per lui un futuro grandioso. Non sapeva dire perché, ma sentiva che un grande futuro attendeva quel bambino, che in lui c’era una carica enorme, un destino ancora inespresso che attendeva di schiudersi e che doveva essere lei a spingerlo in alto. Lei che aveva rinunciato ad avere figli, ad avere un uomo, lei che aveva rinunciato ad avere una famiglia, compensando la scarsa avvenenza con una ricerca ossessiva

LOVECRAFT 387: RHAN-TEGOTH VIENE DA YUGGOTH-PLUTONE.

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 366° pagina.


Syndrieli però non sembrò dare importanza alla cosa.

«Ma in ogni caso, Loraisan non potrà rimanere più oltre i dodici anni d’età… a cosa gli servirà studiare l’alchimia, se poi non la potrà mettere in pratica qui da voi?».

Il disappunto di Syndrieli divenne quasi esplicita ira.

«No, è vero, ma sto pensando di fondare un ordine maschile di sacerdoti monaci votati a Sin, con il benestare dell’Eminente Pontefice Mezenthis Vipsul. In quello, Loraisan potrà starci a tempo indeterminato!».

Syndrieli tacque definitivamente. Si accorse che avrebbe fatto meglio ad aspettare a fare domande.

«Venite, vi mostrerò quali cose grandiose stiamo facendo per la gloria di Sin e per il bene del Veltyan. Eukeni le conosce già in parte, e tu, Loraisan, sono sicura che dopo sarai desideroso di impararle quanto prima anche tu!».

Harali si avvicinò a uno dei tavoli dove era appoggiato qualcosa che avrebbe potuto essere uno strano strumento musicale. Si trattava di una corona, o un fascio cilindrico, di tubi di argentolieve di diversa lunghezza, disposti progressivamente dal più lungo al più corto, fissati attorno a due dischi di rame su cui erano incisi due pentacoli, e fra i quali era fissata un’ampolla cilindrica piena di un liquido rosso. In seguito, Loraisan avrebbe saputo che la sostanza era una mistura alchemica di zolfo, mercurio e sale, con altre sostanze minerali.

Dentro i tubi, trattenuti da reti di rame, c’erano bianchi e minuscoli cristalli di quarzo, che tintinnavano contro le pareti di bronzo ogni volta che le toccavano.

La Reverenda Madre Fondatrice afferrò lo strano strumento per un manico ad anello, che lo faceva oscillare leggermente, poi prese un bastoncino anch’esso di argentolieve, con la punta ricurva, che sembrava essere stata foggiata a forma di falce di luna.

«È uno strumento musicale?» chiese Loraisan.

«Una specie, ma ciò a cui serve è qualcosa che non immaginerai….».

Si avvicinò ad alcuni blocchi squadrati di pietra, che sembravano essere stati abbandonati in un angolo della sala. Per un istante, Loraisan pensò che Harali sarebbe salita in piedi su uno di quei blocchi per suonare quella strana corona di tubi di argentolieve.

Invece si fermò di fronte a uno di essi, e rimase per qualche istante immobile, a occhi chiusi, muovendo leggermente la bacchetta, quasi carezzando i tubi, che mandavano vaghi tintinnii.

Poi quella piccola donna intonò una sorta di canto, o meglio un vocalizzo basso, costante, vibrante, un lungo “mmmmhh” emesso a bocca chiusa, profondo e lugubre, che precedette una serie di rintocchi sulla corona di campane tubolari, una sorta di strana armonia fra suoni vibranti e tintinnii, che si fece sempre più intenso e complesso.

Loraisan ebbe l’impressione che una sorta di onda circolare, simile a un vago arcobaleno, si irradiasse dallo strumento di metallo argenteo, ma in seguito non sarebbe stato sicuro che l’avesse visto realmente o che fosse invece stata una sorta di suggestione.

Poi, dopo qualche minuto, avvenne il prodigio. La pesante pietra si sollevò e cominciò a levitare nell’aria a circa una ventina di centimetri da terra. Allora Harali, sempre continuando ad emettere quel lugubre suono e quella strana musica di rintocchi, si spostò, e la pietra la seguì.

Attraversò tutta la sala e arrivò al lato opposto. Solo allora fece cessare gradatamente ogni suono, lasciandolo perdersi a poco a poco. Il masso si posò lentamente a terra, senza neanche un tonfo.

Nel silenzio successivo, si sentì Syndrieli bisbigliare un’invocazione di soccorso a Sil.

Harali si volse verso i Ferstran sorridendo.

Eukeni sorrise di rimando. Lei aveva già assistito a quello spettacolo incredibile.

«Ecco, vedete? Questo è il risultato di anni di ricerca alchemica sui libri e gli appunti del mio maestro e mentore, il Reverendo Padre Aralar Alpan, che Sil lo accolga nel Suo Nono Cielo.

Grazie a quello che mi ha insegnato, ho proseguito le sue ricerche e sono riuscita, con l’aiuto di Sin e delle mie consorelle, a raggiungere alcuni dei segreti che lui cercava di svelare.
Dopo aver riscoperto il segreto delle corde d’ambra, ora stiamo scoprendo il segreto della levitazione tramite il dominio del suono alchemico. Grandi progetti ci attendono, e tutti i giovani

giovedì 6 aprile 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 365° pagina.


Cercò di ignorare Syndrieli.

«Mi hanno detto che ti piace l’alchimia, Loraisan….. non ti piacerebbe diventare un alchimista? Magari un sacerdote alchimista…. Non ti piacerebbe?».

Loraisan aveva delle grosse difficoltà a mentire. Aveva sempre paura che le sue bugie si vedessero sul suo volto. O meglio, ne aveva la netta sensazione.

«Sì… mi piacerebbe!».

«Vieni con me, allora. Ti mostrerò qualcosa che ti piacerà, ne sono sicura!».

Lo prese per mano e lo condusse fuori dal parlatorio, verso il cortile interno, fino ad un’altra porta che era chiusa con un chiavistello. La madre e la sorella di Loraisan li seguirono in silenzio, sorprese di essere trattate quasi come se non esistessero.

Harali tirò fuori dalla sua cintura azzurra una chiave argentea, e aprì il chiavistello.

«Qua dentro si entra solo con il mio permesso, perché dopo il tempio di Sin, è il luogo più importante di tutto l’eremo».

La porta si aprì silenziosamente, senza alcun cigolio, su di un ampio locale illuminato da molte lampade perenni fissate ai muri.

Non c’erano finestre, solo strette feritoie che dovevano servire come mezzo di aerazione, non certo per guardare fuori.

In fondo al locale, sulla parete opposta alla porta, c’era una nicchia in cui troneggiava l’immagine taurina e argentea di Sin.

Lungo le pareti, c’erano tavoli pieni di alambicchi, ampolle, serpentine di vetro, pentacoli di rame e d’argento, sfere di cristallo, piccoli specchi iridescenti, cristalli naturali, poliedri scolpiti in rocce colorate, specchi oscuri rotondi, triangolari e poliedrici e altri oggetti alchemici.

«Questo è il nostro laboratorio alchemico. Qui produciamo le sostanze pregiate e i mezzi potenti che ci permettono di guadagnare ciò che è necessario al mantenimento dell’eremo e a tutte le opere che tornano alla maggior gloria di Nostro Signore della Luce Notturna».

Harali fece un ampio gesto lungo la sala.

«Qui insegno alle giovani che vengono qui per i tre anni di vita monastica i segreti basilari dell’alchimia. Qui valuto i loro talenti, e seleziono chi ha le abilità più grandi e potenti. Anche tua sorella Eukeni imparerà qui le tecniche dell’alchimia nel suo triennio monastico. E se vorrà rimanere qui per altri anni ancora, potrà imparare i segreti dell’alchimia come un qualsiasi Mastro Alchimista di città. Lei ha un buon talento alchemico, un buon farthankar. Se ce l’ha lei, io penso che puoi averlo anche tu».

«Mi hanno detto che sono troppo piccolo per poterlo sapere. Il dottor Laran mi ha detto che solo a dieci anni si può cominciare a sapere se una persona ha talento alchemico oppure no».

«E ti ha insegnato giusto. Ma anche se non puoi cominciare a praticare l’alchimia, puoi cominciare a studiarla, a leggere i libri che ne parlano. Io sono sicura che il tuo farthankar funzionerà!

Se tu studierai bene sotto la nostra guida, se saprai imparare tutto quello che deve sapere una persona colta, se sarai un bravo studente, potrai anche tu un giorno imparare l’alchimia in un laboratorio come questo».

Le parole della Reverenda Madre Fondatrice inquietarono Syndrieli, che cominciò a esprimere le sue perplessità.

«Reverenda Madre…. scusatemi, io sono una povera ignorante… ma non è un po’ presto per parlare di alchimia a un bambino così piccolo? So che l’alchimia è una cosa che va trattata con molta cautela, che può essere pericolosa….».

«La preoccupazione di una madre è legittima, ma credete davvero che io vorrei instillare pericolose curiosità in un bambino? Voi lo sapete bene: il nostro è un ordine di monache alchimiste. Per noi, è molto importante dare un’istruzione a tutti i figli degli etarna e dare loro soprattutto una formazione alchemica, in modo da dare loro le maggiori possibilità di costruirsi un futuro prospero. Se vi ho portato qui, è stato per far capire al bambino cosa può imparare qua dentro e quanto è importante per il futuro suo e della nostra comunità…».

C’era un notevole disappunto nella voce di Harali.

LOVECRAFT 385: ROGERS TRAVESTITO DA MOSTRO NE "L'ORRORE NEL MUSEO".

mercoledì 5 aprile 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 364° pagina.


Appena la gatta vide Loraisan, ebbe però come un momento di incertezza, come se fosse proprio la vista del bambino che avesse messo anche lei in allarme.

Non guardava la madre e la sorella, guardava solo lui, tenendo la testa leggermente obliqua, come fanno i gatti quando studiano qualcuno mentre li sta guardando negli occhi. Era come se fosse incuriosita solo da lui, o come se lo conoscesse già.

E per tutto il tempo in cui rimasero nella stessa stanza con la Reverenda Madre, l’animale non sembrò scollare lo sguardo di dosso a Loraisan, così come il bambino era attirato dall’animale.

Harali sorrise nel vedere il bambino e la strana, reciproca attrazione che sembrava improvvisamente legarlo alla bestiola. Fu un sorriso che allentò una certa tensione che aveva aleggiato sui Ferstran fin da quando si erano incamminati verso l’eremo.

Dopo le dovute presentazioni, Harali continuava a sorridere a Loraisan.

«Ti piacciono i gatti, Loraisan?».

«Oh sì, Reverenda Madre. Mi piacciono molto. Avete dei gatti molto belli».

«Questa si chiama Ashtair. Non so quanti anni abbia, ma sicuramente è più vecchia di te. L’ho ereditata dal mio maestro e mentore, il defunto eremita Aralar Alpan. Lui aveva il suo rifugio qui vicino, e aveva addomesticato questa gatta. La maggior parte dei gatti che vedrai in questo eremo sono figli o discendenti suoi».

«Allora è per questo sono tutti uguali, così grandi, con il pelo tigrato e scuro, con gli occhi verdi o azzurri…».

«Li hai osservati bene, dunque. In verità, essi appartengono tutti a una razza particolare, una stirpe di gatti selvatici molto grandi e forti, ma che sono facilmente addomesticabili. Fedeli come cani e astuti come lupi. Li usiamo come cani da guardia. La loro, si chiama razza valgiglina. Siamo le uniche, che io sappia, che allevano e addestrano questi gatti, almeno in questa provincia.

Ma forse ne avrai visto qualcuno di selvatico, dalle tue parti, anche se di giorno è difficile vederli. Girano per lo più la notte. Ma i nostri si sono un po’ abituati ai nostri ritmi di vita. Ci aiutano a svegliarci presto la mattina, quando miagolano per avere attenzioni!»

Harali rise. E mentre rideva, a Loraisan parve diventare più giovane. Non era bella, ma il suo sorriso aveva qualcosa di bello.

«Mi hanno detto che ti piace molto leggere. E per questo hai imparato a farlo molto in fretta. È vero?».

Loraisan annuì, timidamente.

«Qui avrai moltissimi libri da leggere, di ogni tipo. Ma dovrai leggerli con attenzione, imparare da essi e se farai un buon lavoro, potrai accedere alle Alte Scuole di Enkar. Io ti preparerò per questo. E insieme vedremo qual è la scuola più adatta a te, quella che ti preparerà al mestiere per cui sei più portato. Ti piacerebbe fare il medico? Oppure ti piacerebbe fare lo stampatore di libri? O l’architetto? O l’alchimista?».

Loraisan non fu capace di rispondere subito. Avrebbe voluto dire “l’alchimista”, ma si bloccò pensando che lui non doveva diventare un alchimista.

Vedendo che il figlio esitava a rispondere, Syndrieli li lasciò scappare una battuta, forse per sdrammatizzare la situazione.

«A me, basterebbe che diventasse un signore come si deve, non uno come suo padre o i suoi zii che aspettano la sera solo per andare a bere in osteria e spettegolare fra compari, come tutti gli uomini del paese».

«Speriamo allora che non diventi uno dei quei distinti signori che aspettano solo la sera per andare nei salotti dei nobili a spettegolare su altri signori dell’alta società…. Ma a me piacerebbe proprio sapere se c’è qualcosa in particolare a Loraisan che gli piacerebbe fare da grande….».

«Il sacerdote! Deve diventare un sacerdote, no?» rispose sempre Syndrieli «Poi magari potrà fare anche altre cose. I sacerdoti possono fare tutto quello che vogliono, senza dover rendere conto di niente a nessuno, se non alla Regina o a sacerdoti più importanti. Non è vero?».

Harali cominciò a mostrare un tono di disappunto per le interruzioni della contadina. A lei interessava solo Loraisan, interessava solo conoscerlo meglio.

LOVECRAFT 384: CONTINUA L'AUTOSUGGESTIONE DI JONES NE "L'ORRORE NEL MUSEO".

martedì 4 aprile 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 363° pagina.


L’eremo apparve a Loraisan come un edificio davvero strano e singolare, quasi come il Santuario d’Ambra, anche se  molto meno magnificente.

Era una struttura quadrata, a due piani, con un portone a volta . Le mura erano bianche, ma i tetti,  i bordi delle finestre, delle porte, i capitelli dei colonnati del cortile interno, erano tutti azzurri, di tinte varie che andavano dall’azzurro ghiaccio al ciano più intenso.

L’eremo troneggiava sul lato nord-ovest della grande radura che costituiva la cima piatta di Monte Leccio, mentre il portone d’entrata dava sul lato nord-est. Il sentiero arrivava da sud, e prima di arrivare all’entrata dell’eremo attraversava gli orti, i vigneti e i frutteti che ora crescevano dove un tempo c’era stata solo erba, come in quella lontana mattina in cui Velthur, Larsin, Maxtran ed Hermen si erano avventurati là per trovare le tracce del belk.

Come aveva detto Eukeni, le Spose di Sin avevano addomesticato alcuni dei gatti selvatici di Monte Leccio, che gironzolavano fra gli alberi da frutto, o si riposavano all’ombra delle fronde e dei tronchi. Sembrava che ce ne fossero parecchi.

Poiché quel giorno era usiltin, nessuna delle monache stava lavorando nell’orto. Tutta la comunità si trovava ritirata nell’eremo, a celebrare i riti in nome di Sil. Oppure a leggere e studiare testi sacri a Lei dedicati. Il culto di Sil doveva rimanere sempre preminente su quello di qualsiasi altra divinità, e il Suo giorno doveva essere sempre giorno di riposo, per tutti i kametheina del Veltyan, per lo meno quelli ritenuti rispettabili.

Il portone di legno dipinto di azzurro cielo era chiuso, ed Eukeni bussò per farsi aprire.

Per la prima volta in vita sua, Loraisan vide una sacerdotessa monaca. Rimase impressionato dal fatto che la sua testa era completamente rasata a zero, non sapendo che era una caratteristica di tutte le monache e tutti i monaci del Veltyan, a qualsiasi ordine appartenessero.

Portava una tunica bianca con gli orli azzurri. Gli abiti dell’eremo erano perfettamente intonati alla sua architettura. Al collo, portava una croce ansata d’argento, metallo lunare per eccellenza.

La monaca era molto giovane, come d’altra parte lo erano quasi tutti i membri della comunità religiosa.

Mentre attraversavano il cortile interno, circondato dal colonnato del chiostro, Loraisan si guardava attorno stupefatto.

«Che bello qua, madre…. Tutto bianco e azzurro. Come mai qua è tutto bianco e azzurro?».

«Perché sono i colori della luna quando è alta nel cielo! – gli rispose la sorella – Qua tutto deve ricordare Sin, Signore della Luna.

Vedi? Vedi là, sul le porte? Vedi che le maniglie sono delle piccole falci di luna? Sono fatte di una lega d’argentolieve azzurrato. Ne vedrai di cose interessanti, qui!».

La paura di Loraisan cominciò a mutarsi lentamente in curiosità, e da curiosità in sconcerto.

Nel cortile dell’eremo c’erano parecchi gatti, la maggior parte dei quali se ne stavano tranquilli, sdraiati o seduti sulle quattro zampe a prendere il sole, altri che passeggiavano qua e là, sotto il portico del chiostro, o che se ne stavano seduti sul bordo del pozzo al centro del cortile.

Ma quando i Ferstran passarono nel cortile, Loraisan notò che tutti gli strani felini si erano voltati a guardarli, e li fissavano come se i tre visitatori li avessero messi in allarme.

Loraisan amava i gatti, come amava tutti gli animali, ma quei gatti gli facevano un po’ paura. Erano parecchio più grandi dei gatti normali, e i loro occhi erano tanto più chiari e brillanti. E poi, ebbe come l’impressione di avere sempre il loro sguardo puntato contro anche alle spalle.

La monaca li condusse nel parlatorio dell’eremo, dove attesero che la Reverenda Madre Fondatrice li incontrasse. La sacra matriarca non si fece attendere.

Nel vederla, Loraisan rimase stupito da quanto fosse giovane. Si aspettava una veneranda vegliarda, alta e ieratica, carica di anni e di saggezza, perché sua sorella Eukeni gli aveva detto che era una donna di grande sapienza, e per Loraisan una persona che aveva tanta sapienza non poteva non essere anziana.

Un’altra cosa però lo colpì. Dietro di lei c’era una grossa gatta dagli occhi verdazzurri, sempre di quella magnifica razza selvatica che le monache allevavano nell’eremo, che la seguiva fedelmente come un cane, e che si sedette sul pavimento accanto a lei.

LOVECRAFT 383: JONES SCIVOLA NELL'AUTOSUGGESTIONE NE "L'ORRORE NEL MUSEO".

lunedì 3 aprile 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 362° pagina.


altro, potevano illudersi di spingerlo a credere e vivere secondo determinati princìpi e valori, ma alla fine avrebbe deciso tutto lui. Avrebbe stabilito da solo cosa sarebbe stato vero per lui.

Era troppo indagatore, troppo fantasioso per legarsi a un’idea, a una fede. Loraisan gli ricordava tanto un suo amico commilitone, quando da ragazzo si era arruolato in una delle guarnigioni presso il confine orientale.  Un uomo strano che credeva in tutto e in niente, che si interrogava su tutto e in particolare sulle domande che non trovavano risposta. Uno che parlava con sacerdoti, streghe, sapienti di dottrine misteriche, necromanti, viaggiatori, stranieri e gente di stirpi non umane, alla forsennata ricerca di misteri e verità nascoste sugli Dei, il mondo, i demoni della natura e degli Inferi, gli spiriti dei defunti e l’aldilà.

In qualche modo, pensava che Loraisan sarebbe diventato come quel suo amico, ma in compenso con un’intelligenza molto più grande. Larsin avrebbe cercato di far capire a Velthur che ciò che contava era che Loraisan imparasse, imparasse quante più cose possibile, per farsi valere un giorno.

E avrebbe dovuto fargli capire che convertirsi all’Aventry non sarebbe stato un vantaggio per il futuro del bambino.

Così, pochi giorni dopo che in famiglia si era presa la decisione sull’istruzione di Loraisan, Syndrieli andò a Monte Leccio con il figlio, accompagnata da Eukeni, che a giorni sarebbe entrata nell’eremo.

Era una mattina di usiltin, all’inizio di primavera, nel Mese dell’Ariete. Per Syndrieli, sembrò una mattina di buon augurio, vedendo che il cielo era del tutto azzurro, senza nuvole. Il giorno precedente c’era stato un forte temporale, ma ora il cielo non dava più segni di turbolenze, e l’aria era stata ripulita di ogni foschia dall’acquazzone e dal forte vento. Le cime innevate delle Montagne della Luna apparivano maestosamente come non mai, con una nettezza di particolari che le facevano sembrare insolitamente vicine, come una coorte di benevoli giganti. Bianchissime, la loro immagine per la  donna era come un segno divino, come se Silen, il Dio della Luna in persona, avesse voluto dire che benediva la trasferta di Loraisan nell’eremo delle sue sacerdotesse.

Loraisan, invece, aveva solo paura. E il magnifico panorama non gli era di nessun conforto. Anzi, lo infastidiva. Il mondo era bello, ma non era per lui.

Quando i tre arrivarono ai piedi di Monte Leccio, Loraisan si spaventò ancora di più. Non era mai stato così lontano da casa, e la salita fino in cima al colle gli parve troppo lunga da percorrere, dato che cominciava già a sentirsi stanco per la camminata lungo la strada lastricata.

Oltre a questo, il bosco di lecci aveva qualcosa di pauroso. Non era come i boschi di castagni e betulle sulla collina dietro casa, così luminosi e verdi. I lecci erano scuri, contorti, e anche dove la luce del sole penetrava tra gli alberi, sembrava che non riuscisse a portare veramente luce, come se le ombre contenessero i raggi dentro la loro traiettoria fra le foglie, come lame di luce che tagliavano l’ombra, ma non la dissolvevano. Oltre le macchie di luce sul terreno, tutto sembrava grigio e oscuro.

E poi, era un bosco stranamente silenzioso. Non si sentiva il canto degli uccelli, o il frinire degli insetti. Il sentiero sassoso sembrava procedere fra due muraglie di tenebre e silenzio. Solo il vento si faceva sentire, ma anche la sua voce aveva qualcosa di strano, fra le fronde degli alberi.

Lo spaventò anche qualcos’altro. Nascosto dietro uno dei tronchi, vide qualcosa. Due rotondi occhi dal bagliore rosso rame lo osservavano immobili, per poi scattare via e sparire tra le ombre.

Eukeni rise al suo spavento.

«Uno dei gatti selvatici di Monte Leccio. Ce ne sono tanti, qui. Alcuni sono stati addomesticati dalla comunità monastica. Non ci crederete, ma le Spose di Sin li usano non solo per cacciare i topi, ma anche come cani da guardia! Sono più grandi dei gatti normali e sono fortissimi, molto affezionati ai padroni. Vedrai, ti piaceranno!»

Loraisan era un bambino fragile e debole, dopo poco tempo dovette fermarsi lungo la salita. Sua madre e sua sorella gli permisero di riposare un poco, poi ripresero. Fecero altre due soste lungo la salita, per lasciar dare fiato al bambino.

Riuscirono comunque ad arrivare all’eremo prima dell’ora di pranzo.

LOVECRAFT 382: JONES ASCOLTA IL SILENZIO NE "L'ORRORE NEL MUSEO".

domenica 2 aprile 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 361° pagina.


Ma tante delle cose che il dottor Laran voleva che imparasse non gli interessavano affatto, non lo appassionavano per niente. Non avevano mistero magia.

Forse, invece, nell’eremo delle Spose di Sin avrebbe trovato mistero e magia. Aveva sentito parlare spesso dai fratelli e dalle sorelle maggiori dei fatti strani legati a Monte Leccio, delle strane leggende che vi correvano attorno, e di cui i ragazzi più grandi sembravano voler nascondere i particolari più paurosi a quelli più piccoli, come se fra di loro e gli adulti ci fosse un patto di segretezza, un qualcosa che non poteva essere svelato a cuor leggero, ma solo a chi fosse stato preparato in modo opportuno.

Tante volte Eukeni aveva cominciato a parlargli dei misteriosi gatti grigi e neri che si aggiravano per Monte Leccio e nello stesso eremo, delle strane voci e degli strani rumori che sembravano provenire dai boschi sulle pendici del monte, della misteriosa casetta nel bosco che un tempo era appartenuta a un sacerdote monaco che era stato il maestro della Madre Fondatrice, e che si diceva fosse in possesso di una grande sapienza alchemica.

Una volta Enkar, il primogenito, gli aveva rivelato che si diceva che una delle gallerie dei Nani correva sotto il Monte Leccio e che dalla casa dell’eremita vi si potesse accedere, perché egli aveva imparato le sue arti alchemiche dai Nani che vivevano sotto casa sua.

Quando aveva sentito un accenno ai Nani e alle loro gallerie, un brivido gli era corso per la schiena. Un brivido di paura e insieme di puro entusiasmo.

Forse anche le Spose di Sin avevano qualche rapporto con i Nani, quelle strane creature che non aveva ancora mai visto in vita sua, e che pochi Uomini di Arethyan potevano conoscere, perché non si facevano vedere da nessuno, nascosti nel loro regno sotterraneo da cui uscivano, se uscivano, solo di notte.

Provava una grandissima emozione di fronte alla possibilità di incontrare quelle strane piccole creature che lo affascinavano tanto e nello stesso tempo lo spaventavano, perché erano abitatori degli Inferi e per le credenze popolari avevano dimestichezza con gli spiriti dei defunti e con divinità e demoni del mondo infero.

Quelle piccole, antiche creature che sicuramente conoscevano tutti i segreti del mondo antico, delle origini stesse delle cose e di ogni essere, perché il loro sapere era più antico del Diluvio, dei Giganti e degli stessi Uomini, più antico persino dei Sileni e delle Fate, risalendo alla mitica Era dei Geni, di cui gli abitanti di Arethyan non sapevano praticamente nulla, e di cui lui aveva saputo dal vecchio Prukhu e dal dottor Laran, ma solo per vaghi accenni timorosi e confusi.

Questo pensiero lo aiutò a digerire la cosa. Non che avesse scelta: la nonna Aranthi pensava che doveva assolutamente andare a studiare all’eremo. Non era semplicemente il fatto che le Spose di Sin venissero ritenute delle educatrici migliori di Velthur, il medico infedele. Era anche il fatto che là Loraisan sarebbe stato seguito e istruito in continuazione, ogni giorno, e non solo due mattine alla settimana, per un paio d’ore.

In più, era un’offerta davvero generosa quella di mantenere e istruire il bambino senza far pagare alcuna retta. Anzi, era davvero stupefacente. Cosa volesse in cambio Harali, non era chiaro. I Ferstran non si capacitavano che volesse semplicemente fare un atto di generosità nei loro confronti, solo perché una delle loro ragazze stava entrando nel monastero per la consacrazione triennale.

Per bocca di Eukeni, aveva fatto sapere ai Ferstran che avrebbe seguito Loraisan anche dopo che avrebbe dovuto lasciare l’eremo, fino a quando sarebbe stato il momento di andare a qualche Alta Scuola ad Enkar.
A Larsin invece toccava il compito più ingrato: quello di spiegare a Velthur che i suoi volontari servigi non erano più richiesti. Qualsiasi progetto avesse fatto su Loraisan, avrebbe dovuto accantonarlo. Larsin sospettava che, una volta adulto e sottratto all’influenza della famiglia, Velthur volesse avvicinarlo all’Aventry. Ma gli sembrava anche che in ogni caso la cosa non avesse importanza. Lui era convinto di capire Loraisan meglio di chiunque altro. E quello che credeva di avere capito bene, era che suo figlio era una mente troppo curiosa, troppo fantasiosa per farsi trattenere da qualsiasi dottrina di vita. Syndrieli, Aranthi, Harali e lo stesso Velthur, e qualsiasi

LOVECRAFT 381: JONES PASSA LA NOTTE NEL MUSEO DELLE CERE DI LONDRA