sabato 13 maggio 2017

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 381° pagina.


Ovviamente erano tutte convinte, sia quelle che avevano visto il mostro, sia quelle che non avevano fatto in tempo a vederlo, che si trattasse di un pauroso segno divino, l’immagine di una minaccia annunciata ed evocata dagli Inferi più oscuri.

In una religione che un tempo era stata dominata dagli indovini che leggevano in ogni fenomeno naturale particolare il linguaggio degli Dei, ogni anomalia era vista inevitabilmente del pari come un segno divino. Ogni nascita di animali deformi, ogni strana luce nel cielo, ogni fulmine più devastante, ogni strano sogno poteva essere un messaggio dall’invisibile.

Ma quella indescrivibile visione non era comparabile a nessuna leggenda, a nessuna anomalia o mostruosità mai vista prima. Nemmeno le molteplici visioni del Prodigio del Sole Scarlatto erano state così enormemente spaventose.

Da quella mattina di terrore, il mostro nero sarebbe stato chiamato “la Mantide-Ragno delle Cime”, e avrebbe tormentato le notti dell’eremo per molto tempo ancora, rimanendo impressa per sempre nelle cronache delle Spose di Sin.

La mattina dopo, Loraisan tornò all’eremo. Anche quella giornata era splendida, il cielo non aveva perso la sua limpidezza e le montagne continuavano ad apparire nella loro magnificenza.

Quando arrivò all’imboccatura del sentiero di Monte Leccio, trovò Eukeni che lo stava già aspettando.

Dall’espressione del suo volto, dal tono della voce nel salutarlo, capì che qualcosa non andava.

Pensò che magari lei avesse fatto qualcosa che trasgrediva le regole dell’eremo, e che fosse stata punita in qualche modo. Intuendo che sua sorella non voleva parlarne, non insisté nel voler sapere.

Quando arrivarono all’eremo, Loraisan scoprì con sconcerto che anche le altre monache sembravano essere tutte di cattivo umore. Tese, riservate, non sembravano avere tanta voglia di fargli le feste come tutte le altre mattine di larantin, quando tornava all’eremo dalla visita alla sua famiglia.

Non riuscì a vedere neanche Harali, nemmeno di sfuggita, mentre invece ogni volta che tornava all’eremo aveva sempre un momento per salutarlo.

Quella giornata gli apparve molto strana, fastidiosa, priva di senso. Forse per quello la sua mente volò lontano dalla realtà più del solito.

Eukeni lo portò subito nel tempio dicendogli che doveva pregare molto e compiere riti di purificazione, ma senza spiegargli perché. Un’atmosfera di espiazione e di intenso misticismo sembrava guidare le azioni delle monache, come se fosse ancora usiltin.

Tutta la mattina il tempietto fu pieno di litanìe, canti, musiche, aspersioni di profumi e aromi, invocazioni a tutti gli Dei celesti e inferi, come se si volesse allontanare o scongiurare un pericolo.

Loraisan fu costretto a rimanere nel tempio due ore, seduto a gambe incrociate di fronte alla taurina immagine argentata di Sin, e per sopportare tutto questo naturalmente fece vagare la mente verso lontani regni della fantasia.

Ogni volta che era costretto ad annoiarsi, lui non si lamentava, non si ribellava. D’altra parte, lui non si lamentava e non si ribellava mai di fronte a niente, neanche di fronte al dolore che faceva urlare e piangere tanti altri bambini.

Sembrava che il suo terrore del buio e della solitudine trovasse la sua compensazione a una straordinaria sopportazione del dolore e dei disagi, in una incredibile capacità di adattamento che era già eccezionale per un adulto, ma che in un bambino era ancora più sconcertante.

Ma di fronte alla noia lui aveva sempre la sua scappatoia: il sogno ad occhi aperti. Un sogno che diventava spesso una vera e propria meditazione sull’immaginario.

Così, per l’occasione, mentre recitava i sacri mantra del culto a Sin assieme a sua sorella, la sua mente vagava negli sconosciuti regni del Grande Nord, cercando di immaginarsi storie e imprese dei guerrieri dai capelli rossi, cercando di visualizzare nella sua mente i lontani popoli dei Gaelna, degli Alverna, dei Teudanna, dei Dananna, dei Kymbrenna, dei Tauranna, degli Svedanna e dei Bayurna, tutti della famiglia dei popoli nordici, dai capelli rossi e dagli occhi azzurri o verdi, dalle strane lingue incomprensibili e dagli ancor più strani costumi.

Tanto lo aveva impressionato l’incontro con Kernon, lo schiavo che si era terrorizzato alla sua vista.

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