Volò verso le leggende di stregoni e mostri e oscure
divinità della natura che vivevano nelle sterminate foreste, spiriti dei
ghiacci e delle nevi, delle nebbie e delle foreste, verso racconti di nere
fortezze e palazzi di ghiaccio sulle vette, di Giganti sopravvissuti al Diluvio
su remote isole in mezzo a mari nebbiosi dove il sole giunge di rado, di porte oscure
sul regno dell’oltretomba, poste sul fianco di monti isolati, evitati da Uomini
e altre creature, sorvegliate da Fate maligne e ingannatrici.
Mentre le sue labbra parlavano della gloria di Sin, un Dio
che non conosceva neanche tanto bene, la sua mente immaginava straordinarie,
eroiche avventure in cui sconfiggeva le creature dell’Ignoto che tanto lo terrorizzavano
di notte.
Ma mentre la sua mente vagava, cercava sempre di ricordare
le parole di Ravinthi: “Non siamo noi a
non poter raggiungere Loro, sono Loro a non poter raggiungere noi, a meno che
non glielo consentiamo noi”.
Poi il rito finì e Loraisan dovette tornare al mondo reale
ancora per un po’.
Dopo il pranzo, salì in camera sua, ma prima di arrivarci,
udì il singhiozzare di una delle monache dietro una delle porte. E assieme al
singhiozzare, sentì il suono di una cetra e il canto di un’altra monaca.
Incuriosito, si fermò nel corridoio ad ascoltare la musica, che gli parve di
una particolare bellezza. Una di quelle musiche che lo aiutavano a sognare, a
riprendere a vagare con la fantasia.
I singhiozzi facevano di sottofondo alla musica suadente, che
sembrava parlare di pace ed armonia, come a voler contrastare la pesante
atmosfera di silenziosa solitudine e ansia che sembrava aleggiare sull’eremo.
Poi i singhiozzi finirono, e la musica e il canto finirono
qualche minuto dopo.
Loraisan lasciò il corridoio prima che qualche monaca
passando di là gli chiedesse cosa stava facendo.
Loraisan aprì le ante della finestra della sua camera, e
dette uno sguardo al panorama. La sua camera dava in direzione nord-ovest, e si
poteva vedere gran parte dell’arco delle cime delle Montagne della Luna, che
andavano appunto da nord-est a nord-ovest. Si poteva vedere anche una parte
della pianura ai piedi di Monte Leccio, e le anse del fiume Eydin che
serpeggiavano brillanti sotto la luce del sole.
Non aveva mai visto le montagne così bene da quando era
nell’eremo. Certo, alcune delle cime si vedevano bene anche da casa sua, oltre
le colline, ma non aveva mai visto in vita sua l’intero arco delle montagne
così nitido, in tutta la sua magnificenza, con le guglie delle cime che
parevano più che mai città e castelli incantati. I dettagli della catena gli
apparivano con una nitidezza che lo stupiva.
Vedendole, gli pareva di sentire in esse la presenza degli
antichi e misteriosi Nani nascosti fra le loro rocce, dentro profonde gallerie,
assieme a quella delle Fate consigliere dei destini umani, e quella delle
divinità della Madre Terra, Fuflun Dio delle Vigne, Selvan Dio delle Foreste e
Kerris Dea delle Messi, Surmanth Dio degli Inferi e Semi, Dea della Terra.
E oltre a quelli, sentiva la presenza di qualcos’altro,
qualcosa che non aveva immagine, ma che sembrava andare aldilà delle montagne
stesse, eppure essere contenuto in esse. O meglio, gli sembrava che fossero le
montagne ad essere contenute in una meraviglia più grande di loro.
Scoprì dentro di sé come un’emozione nuova e sconosciuta, a
cui non sapeva dare un nome.Era come se la sua anima si aprisse e uscisse da
lui stesso per lanciarsi oltre il visibile. Era come se le cime stesse e il
cielo azzurrissimo gli parlassero di qualcosa che andava oltre di esse, come se
la loro magnificenza parlasse di una gloria e di una bellezza ancora più
grande, oltre ogni immaginazione.
Per la prima volta, ebbe una sensazione che in seguito,
negli anni, l’avrebbe accompagnato spesso, fino all’età adulta. Una sensazione
inspiegabile, che sembrava a volte avvolgerlo come un manto protettivo, che lo
difendeva dallo scoraggiamento, dalla tristezza, dal senso di inutilità che
spesso avrebbero funestato la sua difficile esistenza.
Per la prima volta avvertì la sensazone della presenza nella sua vita di
un orizzonte sconosciuto verso cui era inevitabilmente incamminato, destinato
fin dalla sua nascita, o forse ancora prima di
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